martedì 20 settembre 2011

«Feci arrestare gli estorsori ma adesso vivo in miseria»


BARI - «Sarebbe stato meglio pagare il pizzo, piuttosto che avere contribuito con le mie denunce a far arrestare chi ha tentato di imporlo». Francesco (nome di fantasia, n.d.r.) allarga le braccia. Oggi la Commissione che valuta le istanze presentate dai testimoni di giustizia prenderà in esame quella che lui considerava la «domanda di scorta»: riprendere la propria identità e tornare a vivere in Puglia. Dove coloro che aveva denunciato, esponenti del clan Cannito attivo nel Nord Barese, lo conoscono, e molto bene.


Che cosa aveva chiesto allo Stato?

«Io ho 49 anni, e per cinque anni ho ricevuto dallo Stato 1.700 euro al mese. Nel 2005, al termine del periodo di protezione ho ottenuto la «capitalizzazione», ovvero una sorta di liquidazione riconosciuta a chi esce dal programma. Con quei soldi avevo aperto una tabaccheria. Purtroppo coloro che avevo denunciato mi hanno riconosciuto, hanno incendiato l’attività e hanno minacciato me e la mia famiglia. Ho avuto di nuovo paura».

Quindi che cosa ha fatto?

«Ho presentato numerose domande per essere reinserito nel programma, oppure per avere un aiuto economico allo scopo di iniziare una nuova attività, ma non ho ricevuto alcuna risposta. Ho due numeri telefonici che posso chiamare qualora io o la mia famiglia dovessimo correre dei pericoli, ma il Nop (Nucleo Operativo di Protezione) mi ha fatto sapere che le mie domande non sono state esaminate. Tranne una».

Quale?

«Poiché l’unica offerta di lavoro è pervenuta da un imprenditore delle mie parti, ho chiesto di potere riottenere la mia identità e tornare in Puglia. E loro questa domanda la stanno valutando».

Vuol dire tornare nel posto dove ha fatto arrestare decine di persone? Ma non è pericoloso?

«Certo che lo è, ma non ho alternative. Mi hanno persino prospettato che, in questo caso, dovrei firmare una liberatoria. Se mi succede qualcosa, insomma. lo Stato non vuole responsabilità».

Possibile che nessuno l’abbia aiutata?

«L’unico che si è interessato è il procuratore di Bari Antonio Laudati, scrivendo a Roma e prendendo a cuore il mio caso. Anche il sindaco di Bari Michele Emiliano, l’allora Pm antimafia che mi convinse a raccontare ciò che sapevo, ha seguito la mia vicenda. Purtroppo, di risultati non ce ne sono ancora stati. Pensi, che nella città in cui vivo, ho cercato di parlare con questore e prefetto ma nessuno mi ha ricevuto. “Il dottore è impegnato con il pranzo”, mi hanno detto in Prefettura mandandomi a casa».

Come viveva quando era sotto protezione?

«Male. Difficile ambientarsi, stringere amicizie, condurre una vita normale. Una delle mie figlie è stata in cura da uno psicologo. Si vive giorno per giorno senza prospettive, sogni, progetti. I vicini mi guardavano con sospetto: spesso ero in compagnia dei carabinieri: per loro ero un pezzo grosso, oppure un criminale».

Quali sono le sue fonti di reddito adesso?

«Gli stipendi che portano a casa le mie figlie. Una umiliazione per chi come me fatturava cinque miliardi di vecchie lire all’anno. Ora sono malato. Ho il cancro. Spero solo che la mia famiglia possa vivere serena dopo che io non ci sarò. Le conseguenze della mia scelta sono ricadute su di loro e questo non importa a nessuno».

A quanto ammontava la richiesta delle tangenti?

«Dieci milioni di lire al mese».

Si pente di non avere ceduto alle pressioni e di avere raccontato tutto agli inquirenti?

«Tornando indietro non rifarei mai quello che ho fatto. Non ripeterei la scelta di collaborare con la giustizia».

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