venerdì 28 febbraio 2014

Ernia per la caduta dalla sedia: al giudice vanno 140mila euro

Dopo l'infortunio, il magistrato ha ottenuto la pensione. Poi ha fatto richiesta di risarcimento: il ministero si è opposto, ma il Tar gli ha dato ragione


Cadere da una sedia mentre si è in ufficio, rovinando col sedere per terra, è un’esperienza vissuta da molti. Che può avere, a volte, fastidiose conseguenze per la salute: distorsioni del bacino, lesioni vertebrali, lividi ed escoriazioni. Ne discende un danno per il lavoratore - caduto, ripetiamo, da una sedia, non da un’impalcatura - che sarà poi compensato da chi di dovere a seconda di parametri valutativi che possono cambiare da lavoratore a lavoratore. Si chiamano cause di servizio, un tempo sorta di sport nazionale, oggi circoscritto da un obbligato cambio di «clima» nelle finanze del Paese: l’unica cosa rimasta uguale è la lunghezza dei procedimenti, giunta in alcuni casi a livelli parossistici coprendo alcuni decenni.

A un magistrato in servizio nel distretto napoletano, però, una caduta dalla sedia, che pure qualche danno gli creò, s’è risolta in un baleno (si fa per dire): appena sette anni dalla data dell’infortunio. Ma soprattutto con risarcimento per causa di servizio pari a circa 140mila euro. Più altri oneri. Una storia tutta italiana, raccontata ieri dal Corriere del Mezzogiorno.


Lui si chiama Francesco Schettino. E nel 2007 la sedia del suo nuovo ufficio al Centro direzionale di Napoli traballò, facendolo cadere in terra. Primo soccorso dei colleghi, poi l’iter sanitario e l’avvio del procedimento risarcitorio in costanza di congedo dal posto di lavoro. Che durò inizialmente all’incirca tre mesi (dal 24 marzo al 18 giugno 2007), finché l’Inail non l’ebbe dichiarato «guarito con postumi», valutando l’invalidità nella misura del 30%: siamo nel luglio del 2007.

Nel giugno di due anni dopo (2009) il ministero della Giustizia gli riconosce questo tipo di patologia: «Esiti di trauma distorsivo del rachide lombare produttivo di ernia discale con impegno radicolare e rigidità del tratto dorso-lombare». I referti sono un po’ come le norme dei codici, non sempre è agevole la comprensione per chi tecnico non è. Ma andiamo avanti. L’anno dopo il giudice fa domanda di pensione, che ottiene, e dopo altri due anni (siamo al 2012) formula richiesta di risarcimento per circa 200mila euro, così ripartiti: 116.838 a titolo di danno biologico; 33.883 come «aumento personalizzato»; 50.000 per il danno esistenziale; 2.410 quale «lucro cessante per le decurtazioni stipendiali subite nei periodi di assenza dal servizio per malattia», cioè il mancato incasso di parti dello stipendio che se fosse stato in servizio sarebbero state maggiori di quanto comunque incassato. Ma il ministero della Giustizia si oppone.

Come di consueto, si finisce al Tar . E che cosa decidono i magistrati del tribunale amministrativo relativamente alla pretesa del magistrato che loro si era rivolto? Che effettivamente al dottor Schettino, che ha agito nel più completo rispetto della normativa, venga «riconosciuta la somma richiesta». Non si conoscono precedenti in materia, almeno non di questo tipo. L’interessato, al Corriere del Mezzogiorno, non ha inteso replicare, limitandosi a dire che per lui «parla la sentenza».
(Pep.Rin.)

La lista dei 44 sottosegretari e dei 9 vice-ministri



Roma, 28 feb. (TMNews) - Palazzo Chigi diffonde la lista dei sottosegretari e dei viceministri nominati oggi. In un comunicato si ricorda che il Consiglio dei Ministri ha nominato 44 Sottosegretari, nei limiti imposti dalla legge. Dei nuovi sottosegretari, 9 assumono le funzioni di Viceministro.
 
Di seguito la lista dei sottosegretari oggi nominati dal Consiglio dei Ministri:
Luca Lotti, Sandro Gozi, Domenico Minniti detto Marco (Presidenza del Consiglio); Angelo Rughetti (Pubblica amministrazione e semplificazione); Maria Teresa Amici, Luciano Pizzetti, Ivan Scalfarotto (Rapporti con il Parlamento e riforme); Gianclaudio Bressa (Affari regionali); Filippo Bubbico, Gianpiero Bocci, Domenico Manzione (Interni); Lapo Pistelli, Mario Giro, Benedetto Della Vedova (Esteri); Enrico Costa, Cosimo Maria Ferri (Giustizia); Luigi Casero, Enrico Morando, Pier Paolo Baretta, Giovanni Legnini, Enrico Zanetti (Economia); Franca Biondelli, Teresa Bellanova, Luigi Bobba, Massimo Cassano (Lavoro); Riccardo Nencini, Umberto Del Basso de Caro, Antonio Gentile (Infrastrutture); Giuseppe Castiglione, Andrea Olivero (Politiche agricole); Silvia Velo, Barbara Degani (Ambiente); Francesca Barracciu, Ilaria Borletti Buitoni (Cultura); Gioacchino Alfano, Domenico Rossi (Difesa); Carlo Calenda, Claudio De Vincenti, Simona Vicari, Antonello Giacomelli (Sviluppo economico); Vito De Filippo (Salute); Roberto Reggi, Angela D'Onghia, Gabriele Toccafondi (Istruzione).

Tra i 44 sottosegretari succitati assumeranno l'incarico di viceministri:
Filippo Bubbico (Interni), Lapo Pistelli (Esteri), Enrico Costa (Giustizia), Luigi Casero ed Enrico Morando (Economia), Riccardo Nencini (Infrastrutture), Andrea Olivero (Politiche agricole), Carlo Calenda e Claudio De Vincenti (Sviluppo economico).
Il sottosegretario Domenico Minniti detto Marco assumerà l'incarico di Autorità delegata per la sicurezza della Repubblica.

Agguato in strada a Taranto

Assassinato un pregiudicato fermato il figlio di 19 anni


TARANTO– Un uomo di 55 anni, Cosimo Motolese, con precedenti penali, è stato ucciso ieri sera a Taranto in un agguato avvenuto in strada, al rione Paolo VI. Sparati diversi colpi di pistola. Motolese è morto un’ora dopo il suo ricovero in ospedale. I proiettili lo hanno raggiunto alla testa e in altre parti del corpo. I carabinieri intervenuti sul posto hanno eseguito i rilievi e avviato le indagini per cercare di risalire all’identità dei sicari e stabilire il movente.

L'agguato – a quanto si è saputo - è avvenuto davanti all’ingresso dell’abitazione dell’uomo, in via Della Liberazione. Trasportato da un’ambulanza del 118 in ospedale, l’uomo è morto a causa delle gravi lesioni riportate.

Nella mattinata di oggi i carabinieri hanno sottoposto a fermo il figlio di Cosimo Motolese. Secondo gli investigatori, sarebbe stato il figlio 19enne a ucciderlo. L’omicidio è avvenuto per strada. Motolese negli anni passati era stato vicino al clan Modeo ma ultimamente si ritiene fosse solo relativamente attivo nel mondo della malavita.

Massacrato dalle belve di camorra per errore

Il cuore d'oro di Enzo, una vita per la famiglia


di Gigi Di Fiore (inviato)
Tra un mese avrebbe compiuto trent’anni.
Tra un mese avrebbe voluto tirare i suoi primi bilanci su una vita di sacrifici. Avrebbe spento le candeline, con i due figli piccoli e la giovane moglie.

Enzo, invece, non c’è più. Massacrato senza pietà, da feroci belve della camorra, con il volto coperto da un casco integrale. Era nel centro estetico «Solaro» di via Rocco a soddisfare un suo innocente vezzo: nel box cinque, gli stavano ritoccando le sopracciglia. Nulla di male, per chi aveva fatto della sua vita solo un impegno di sacrifici e lavoro. Ha sentito gli spari, «botti» di morte contro il capoclan Ciro Casone. Uno che Enzo conosceva appena. Buongiorno e buonasera, poi basta.

Casteltermini, la Dia sequestra beni

Per un milione di euro ai familiari di Vincenzo Di Piazza

L'uomo è detenuto in quanto condannato per associazione di tipo mafioso, perchè ritenuto componente, con il ruolo di capo, della famiglia mafiosa di Casteltermini


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Casteltermini, la Dia sequestra beni per un milione di euro ai familiari di Vincenzo Di Piazza

La Sezione operativa di Agrigento della Direzione investigativa antimafia, in esecuzione di un decreto emesso dalla Sezione Misure di Prevenzione del locale Tribunale nell'ambito di un procedimento a carico di Vincenzo Di Piazza, 73enne da Casteltermini, ha sottoposto a sequestro una serie di beni intestati ai familiari, per un valore complessivo quantificabile in oltre un milione di euro. Si tratta di 26 fabbricati, compresi quelli rurali; 335 appezzamenti di terreno, adibiti a seminativo o pascolo; una ditta individuale riconducibile ad uno dei figli, con sede a Casteltermini ed esercente l'allevamento di bovini e caprini, con il relativo complesso aziendale e 9 veicoli, di cui 2 mezzi agricoli; una ditta individuale riconducibile ad un altro figlio, con sede a Casteltermini ed esercente l'attività di coltivazione di cereali, con il relativo complesso aziendale; 5 conti correnti bancari intestati ai figli.
Di Piazza è detenuto in quanto condannato per associazione di tipo mafioso, perché ritenuto componente, con il ruolo di capo, della famiglia mafiosa di Casteltermini.
Nel 1995, Di Piazza è stato tratto in arresto dalla Dia di Agrigento per il reato di favoreggiamento personale aggravato, nel corso dell'attività che aveva portato alla cattura del boss mafioso latitante Salvatore Fragapane, 57enne da Sant'Elisabetta, attualmente detenuto in quanto condannato all'ergastolo, e all'epoca rintracciato in contrada Liberto, a Casteltermini, all'interno di una villetta di campagna di proprietà della famiglia Di Piazza.
Proprio il coinvolgimento di Di Piazza nel favoreggiamento della latitanza di Fragapane, aveva consentito agli investigatori di inquadrarlo in un contesto criminale di rilievo e, infatti, il 20 aprile 1998, Di Piazza è stato nuovamente arrestato, insieme ad altre 42 persone, nell'ambito dell'operazione "Akragas", in quanto indagato per associazione di stampo mafioso. Tra i soggetti destinatari del provvedimento figurava anche Salvatore Fragapane, quale rappresentante provinciale di Cosa nostra.
Nel frattempo, il 2 dicembre 1999, la Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Agrigento sottponeva Di Piazza alla misura di prevenzione della Sorveglianza Speciale della P.S. con obbligo di soggiorno nel Comune di residenza, per la durata di 4 anni.



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L'attività investigativa aveva permesso di acquisire elementi secondo i quali Di Piazza, ritenuto reggente della famiglia mafiosa operante a Casteltermini, aveva acquisito in modo diretto ed indiretto il controllo di attività economiche, specie nel settore edilizio nel centro, realizzando profitti e vantaggi ingiusti per sé e per gli altri componenti del sodalizio. Di Piazza è stato condannato alla pena di 18 anni di reclusione per associazione per delinquere di tipo mafioso pluriaggravata.


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Processo Crimine, per 49 le pene sono più severe

Arriva la stangata contro la 'ndrangheta "unita" 
Emessa la sentenza di secondo grado contro le cosche reggine finite nella maxi operazione dei carabinieri. Tra gli assolti eccellenti solo Isidoro Callì, ritenuto il boss di Mammola. Per 49 imputati pene più pesanti


REGGIO CALABRIA - Con 53 conferme, 49 pene rideterminate e solo 11 assoluzioni si è concluso il maxi troncone d'appello del processo Crimine, scaturito dalle sentenze di primo grado comminate dal gup di Reggio Calabria nei confronti di 119 imputati, arrestati nella maxi operazione dei Carabinieri, che ha svelato la natura unitaria della 'ndrangheta. Il Tribunale di Reggio Calabria, presidente Rosalia Gaeta, ha sostanzialmente confermato anche in appello il poderoso impianto accusatorio della Procura distrettuale di Reggio Calabria, che proprio grazie alle indagini dei Carabinieri aveva puntato molto sulla natura verticistica e unitaria della 'ndrangheta, così come era apparso per la prima volta nell'operazione Crimine, una delle indagini più vaste dell'ultimo decennio.
 
I VERDETTI - Di seguito le decisioni del collegio d'appello nei confronti dei 119 imputati: Giovanni Agnelli, conferma; Mario Gaetano Agostino, conferma; Giovanni Alampi, conferma; Giuseppe Albanese, ridetermina la pena in 6 anni di reclusione Antonio Altamura, 4 anni e 8 mesi di reclusione; Emilio Andrianò, ridetermina la pena in 6 anni di reclusione; Domenico Aquino, assolto perché il fatto non sussiste; Giuseppe Aquino, assolto perché il fatto non sussiste; Rocco Aquino, assolto da due capi d'imputazione perché il fatto non sussiste, in relazione ad altri 3 capi ridetermina la pena in 9 anni e 6 mesi di reclusione; Domenico Belcastro, ridetermina la pena in 6 anni di reclusione; Domenico Bellocco, conferma; Saverio Boschetto, 4 anni e 8 mesi di reclusione; Carlo Bruzzese, conferma; Isidoro Cosimo Callà, assolto per non aver commesso il fatto; Domenico Chilà, conferma; Stefano Chilà, 4 anni e 8 mesi di reclusione; Claudio Cianciaruso, conferma; Bruno Ciancio, conferma; Francesco Commisso, ridetermina la pena in 6 anni di reclusione; Giuseppe Commisso, conferma; Vincenzo Commisso, conferma; Michele Correale, conferma; Carmelo Costa, ridetermina la pena in 5 anni e 4 mesi di reclusione; Domenico D'Agostino, conferma; Raffaele D'Agostino, ridetermina la pena in 8 anni di reclusione; Filippo Dattola, conferma; Cosimo De Leo, 6 anni di reclusione; Giorgio De Masi, ridetermina la pena in 7 anni e 4 mesi di reclusione; Salvatore Femia, conferma; Massimo Fida, ridetermina la pena in 6 anni di reclusione; Giuseppe Figliomeni, conferma; Rosario Filippone, conferma; Domenico Focà, ridetermina la pena in 8 anni di reclusione; Salvatore Fragomeni, conferma; Brunello Franzè, conferma; Domenico Frascà, ridetermina la pena in 2 anni di reclusione, pena sospesa; Donato Fratto, assolto per non aver commesso il fatto; Salvatore Giuseppe Galati, conferma; Antonio Galea (cl. 1962), ridetermina la pena in 7 anni di reclusione; Antonio Galea (cl. 1954), conferma; Antonio Gattellari, ridetermina la pena in 9 anni di reclusione; Andrea Gattuso, ridetermina la pena in 7 anni di reclusione; Antonino Gattuso, conferma; Carmelo Gattuso, conferma; Domenico Gattuso, ridetermina la pena in 4 anni e 8 mesi di reclusione; Nicola Gattuso, ridetermina la pena in 11 anni e 4 mesi di reclusione; Vincenzo Gattuso, ridetermina la pena in 6 anni di reclusione; Osvaldo Gioberti, 6 anni di reclusione; Bruno Gioffrè, ridetermina la pena in 6 anni e 8 mesi di reclusione; Remingo Iamonte, conferma; Giuseppe Iannone, assolto da un capo d'imputazione perché il fatto non sussiste, in relazione a un altro capo ridetermina la pena in 1 anno di reclusione e 600 euro di multa, pena sospesa; Giuseppe Romeo Iaria, conferma; Domenico Iaropoli, conferma; Francesco Ietto, ridetermina la pena in 7 anni e 4 mesi di reclusione; Rocco Lamari, ridetermina la pena in 10 anni di reclusione; Sotirio Santo Larizza, ridetermina la pena in 4 anni e 8 mesi di reclusione; Cosimo Giuseppe Leuzzi, ridetermina la pena in 8 anni e 8 mesi di reclusione; Vincenzo Longo, ridetermina la pena in 8 anni di reclusione; Antonino Macheda, conferma; Salvatore Macrì, conferma; Antonio Maesano, 4 anni e 8 mesi di reclusione; Giovanni Maesano, 6 anni di reclusione; Claudio Umberto Maisano, conferma; Filiberto Maisano, ridetermina la pena complessiva in 10 anni e 8 mesi di reclusione; Saverio Manglaviti, conferma; Michele Marasco, conferma; Rocco Marasco, conferma; Giuseppe Martello, conferma; Giuseppe Marvelli, ridetermina la pena in 10 anni di reclusione; Francesco Marzano, ridetermina la pena in 6 anni di reclusione; Rocco Mazzaferro, assolto per non aver commesso il fatto; Paolo Meduri, conferma; Francesco Meleca, conferma; Demetrio Meniti, ridetermina la pena in 8 anni di reclusione; Giovanni Minniti, conferma; Leone Modaffari, conferma; Saverio Mollica, ridetermina la pena complessiva in 10 anni e 8 mesi di reclusione; Carmelo Muià, ridetermina la pena in 8 anni di reclusione; Domenico Antonio Napoli, ridetermina la pena in 6 anni e 8 mesi di reclusione; Salvatore Napoli, ridetermina la pena in 6 anni di reclusione; Bruno Nesci, ridetermina la pena in 8 anni e 4 mesi di reclusione; Domenico Oppedisano, ridetermina la pena in 10 anni reclusione; Michele Oppedisano, ridetermina la pena in 9 anni e 4 mesi di reclusione; Pasquale Oppedisano, conferma; Pietro Oppedisano, conferma; Raffaele Oppedisano, ridetermina la pena in 6 anni e 8 mesi di reclusione; Luigi Palmanova, ridetermina la pena in 6 anni di reclusione; Antonio Nicola Papaluca, ridetermina la pena in 6 anni e 8 mesi di reclusione; Bruno Paviglianiti, conferma; Carmelo Paviglianiti, conferma; Paolo Paviglianiti, conferma; Antonino Pesce, ridetermina la pena in 4 anni e 8 mesi di reclusione; Savino Pesce, assolto per non aver commesso il fatto; Bruno Pisano, conferma; Sebastiano Praticò, ridetermina la pena in 8 anni e 8 mesi di reclusione; Giuseppe Prestopino, ridetermina la pena complessiva in 8 anni e 8 mesi di reclusione; Domenico Prochilo, conferma; Giovanni Pronestì, conferma; Giuseppe Raso, ridetermina la pena in 6 anni di reclusione; Salvatore Romeo, conferma; Antonino Sapone, reato estinto per morte del reo; Rodolfo Scali, ridetermina la pena in 8 anni di reclusione; Tonino Schiavo, ridetermina la pena in 6 anni di reclusione; Damiano Sgambelluri, conferma; Sebastiano Stelitano, conferma; Luca Surace, conferma; Damiano Ilario Tassone, ridetermina la pena in 4 anni e 8 mesi di reclusione; Vincenzo Tavernese, assolto da un capo d'imputazione per non aver commesso il fatto, in relazione a un altro capo ridetermina la pena in 2 anni di reclusione; Biagio Tramonte, conferma; Giuseppe Trapani, conferma; Giuseppe Trichiolo, ridetermina la pena in 2 anni e 2 mesi di reclusione; Giovanni Tripodi, ridetermina la pena complessiva in 11 anni e 8 mesi di reclusione; Giuseppe Vecchio, ridetermina la pena in 6 anni di reclusione; Rocco Violi, assolto per non aver commesso il fatto; Vincenzo Zappia, conferma; Carlo Domenico Zavaglia, assolto perché il fatto non sussiste; Annunziato Zavettieri, conferma; Rocco Zoccali, reato estinto per morte del reo; Kewin Zurzolo, conferma.

LE REAZIONI - «E' stata una sentenza che segna un momento di grande chiarezza sulla unitarietà della 'ndrangheta e conferma l’impostazione accusatoria in relazione all’individuazione dei responsabili non solo dell’organismo di vertice, ma anche delle cosche sulle quali si è indagato». Lo ha detto all’Agi il procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho, commentando la sentenza del processo d’appello scaturito dall’operazione Crimine. «Mi sembra quindi - ha aggiunto il procuratore distrettuale - una sentenza storica che costituirà il fondamento sul quale attuare un piano investigativo significativo». Anche il procuratore aggiunto Nicola Gratteri ha commentato la sentenza: «E' importante che non solo è stata riconosciuta anche in appello l’unitarietà della 'ndrangheta, ma sostanzialmente c'è stata una reformatio in peius della sentenza di primo grado, poichè a molti imputati sono state tolte le attenuanti generiche riconosciute in primo grado, quindi la giudico una sentenza molto positiva». 
«Una unitarietà - ha aggiunto Gratteri - che si cerca di dimostrare sin dalla sentenza di Montalto, a Locri nel 1970. Già allora nella sentenza del presidente Marino si parlava di unitarietà della 'ndrangheta, poi anche nella sentenza Armonia, si parla di mandamenti e del Crimine, ossia una struttura sovraordinata ai locali, e oggi finalmente abbiamo una sentenza d’appello che ci conferma che c'è una 'ndrangheta unitaria».

"Falso ideologico e voto di scambio",

Parte il processo a Patti: tra gli imputati il parlamentare Pd Gullo



PATTI. Inizierà domani dinanzi al  gip del tribunale di Patti (Messina), Maria Pina Scolaro,  l'udienza preliminare per 101 dei 156 indagati nell'ambito  dell'operazione della polizia denominata «Fake», che il 7 marzo  dello scorso anno portò all'emissione di 12 misure cautelari: 7  ai domiciliari e 5 obblighi e divieti di dimora. Tra questi il  deputato nazionale del Pd Maria Tindara Gullo, figlia dell'ex  vicesindaco di Patti Francesco, accusata di falso ideologico per  un cambio di residenza.  Le accuse ipotizzate nei loro confronti vanno, a vario  titolo, dal falso ideologico in concorso alla distruzione di  documenti, dal voto di scambio all'omissione in atti d'ufficio,  al falso e truffa ai danni di ente pubblico.

Tra i cento  imputati, per i quali il procuratore capo Rosa Raffa e il  sostituto Rosanna Casabona hanno chiesto il rinvio a giudizio,  figurano, oltre alla parlamentare e al padre, il nipote di  Francesco Gullo, Luigi Gullo, candidato a sindaco alle scorse  amministrative, l'ex commissario della polizia municipale  Carmelo Lembo, i consiglieri comunali Domenico Pontillo,  Pasqualino La Macchia e Filippo Tripoli, l'ex consigliere  comunale Alessio Arlotta, e l'attuale vice comandante della  polizia municipale Maria Mazzone.  Il Comune di Patti nel procedimento penale si costituirà  parte civile nei confronti di alcuni imputati.  

giovedì 27 febbraio 2014

Liguria, prostitute a 14 anni per arrotondare la paghetta



Genova, 27 feb. (TMNews) - In provincia di Imperia 3 studentesse di buona famiglia di età compresa tra i 14 e i 15 anni si prostituivano da circa un mese per arrotondare la propria paghetta.
A segnalare il giro di baby prostitute alla polizia, che lo ha subito stroncato sul nascere, è stato un cliente di 30 anni che, giunto sul luogo dell'appuntamento, si è reso conto dell'età della ragazza e, dopo aver rifiutato il rapporto, si è subito recato in commissariato per denunciare l'accaduto.
Le giovani studentesse, secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, avrebbero deciso di pubblicare degli annunci su un sito di incontri per maggiorenni, dopo aver letto la notizia delle baby prostitute di Roma. I rapporti venivano consumati nelle abitazioni dei clienti o nelle loro auto, in zone appartate. in alcune circostante, in cambio di una ricarica del telefonino, le ragazze avrebbero inviato anche delle foto osé ai propri clienti.

Le indagini, coordinate dalla Procura distrettuale di Genova, hanno portato all'iscrizione nel registro degli indagati di 5 persone con l'accusa di prostituzione minorile ma il numero è destinato a salire. Nei telefonini della ragazze sono stati infatti trovati decine di numeri di altri possibili clienti.
Per evitare che le studentesse continuassero a prostituirsi, i poliziotti del commissariato di Ventimiglia hanno subito allertato i genitori, che non sapevano nulla dell'attività delle figlie. Le ragazze sono state poi convocate in un consultorio della zona per parlare con alcuni assistenti sociali.

Arzano, ancora un agguato di camorra: due uomini uccisi dai killer




NAPOLI - Ancora un agguato di camorra nel Napoletano. Uccisi in via Luigi Rocco, ad Arzano, due uomini. Sul posto i carabinieri. I due sono stati uccisi dai killer mentre erano all'interno di un centro estetico.

I nomi. Le vittime sono Vincenzo Ferrante, di 30 anni e Ciro Casone, di 57 anni. Sarebbero vicini al clan Moccia e non si esclude un collegamento con la catena di morti bruciati di queste ultime settimane.

La dinamica. I sicari sono entrati all'interno del locale ed hanno fatto fuoco più volte uccidendo i due. L'esecuzione è avvenuta in una manciata di secondi. Poi i sicari si sono dileguati. Ferrante era all'interno del centro per rifinire le sopracciglia. Poco distante c'era Ciro Casone: per i due non c'è stato scampo. Le modalità dell'agguato, avvenuto in via Luigi Rocco, inducono gli investigatori a seguire la pista dell'esecuzione di camorra senza però trascurare altre ipotesi.

Le indagini. I carabinieri della Compagnia di Casoria e del gruppo di Castello di Cisterna stanno lavorando per accertare chi era l'obiettivo dei sicari e per questo stanno scavando nel passato delle due vittime, ricostruendo le loro frequentazioni. Si valutano tutti gli elementi utili: dalla precisa ricostruzione della dinamica di quanto accaduto potrà venire certamente qualche indicazione in più. I carabinieri stanno passando al setaccio il luogo dove è avvenuto il delitto mentre all'esterno del locale - che si trova lungo una delle strade più frequentate di Arzano - sono giunti parenti dei due uomini, in preda alla disperazione.

Gomorra. La scena richiama inevitabilmente alla mente una delle scene clou del film di Matteo Garrone, Gomorra in cui avveniva una vera e propria strage proprio all'interno di un solarium.

La mattanza. Nelle ultime settimane nella zona a nord di Napoli sono avvenuti diversi fatti di sangue: due uomini uccisi e dati alle fiamme alla periferia di Caivano, un altro cadavere carbonizzato trovato a Grumo Nevano e ancora prima un'altra vittima tra Giugliano e Varcaturo.

Saviano. «Ad Arzano, esecuzione in un centro abbronzante, come nelle prime scene di Gomorra. E ci accusavano di descrivere una realtà inesistente...»: lo scrive in un tweet lo scrittore Roberto Saviano, autore di «Gomorra»

Mafia, confiscati beni per 15 milioni a fiancheggiatore Provenzano



 
Palermo, 27 feb. (LaPresse) - Quarantaquattro terreni e 4 fabbricati a Corleone e Monreale, in provincia di Palermo, per un valore complessivo di poco meno di 15 milioni di euro, sono stati sottoposti a confisca dalla guardia di finanza di Palermo in esecuzione di un provvedimento emesso dalla sezione misure di prevenzione del tribunale del capoluogo siciliano.
 
Colpito dalla confisca è un settantacinquenne di Corleone, arrestato nel 2006 per associazione mafiosa e poi condannato a otto anni di reclusione con sentenza della Corte d'Appello di Palermo del 2008, divenuta definitiva nel novembre 2009. Oltre ad essere partecipe delle attività illecite di Cosa Nostra, l'uomo aveva rivestito un ruolo importante nel supporto alla latitanza del boss Bernardo Provenzano, sia sotto il profilo del sostegno logistico sia, soprattutto, nella circolazione dei cosiddetti pizzini tra i vari componenti del sodalizio mafioso ed il capo mafia ora detenuto, durante la sua permanenza presso la masseria in contrada Montagna dei Cavalli in Corleone, dove poi fu arrestato e dove il soggetto ora raggiunto dal provvedimento di confisca era stato più volte osservato recarsi per portare pacchi e buste, che poi lasciava sul posto. I suoi rapporti con Provenzano erano peraltro risalenti nel tempo, avendo egli reso una testimonianza a suo favore durante lo storico processo svoltosi a Catanzaro, alla fine degli anni sessanta, a carico di diversi esponenti mafiosi.
 
La confisca dell'ingente patrimonio immobiliare è stata disposta nei suoi confronti anche sulla base delle investigazioni economico - finanziarie svolte, nell'ambito del procedimento di applicazione delle misure di prevenzione di carattere patrimoniale, dal Gruppo d'Investigazioni sulla Criminalità Organizzata - GICO - del Nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza di Palermo, che hanno posto in chiara evidenza l'ingente sproporzione esistente tra i redditi dichiarati complessivamente dal suo nucleo familiare e le consistenti somme di denaro nel tempo investite, prevalentemente nell'acquisto di terreni agricoli nel corleonese e nella zona di Monreale.

Infatti, a fronte di redditi ufficiali pressoché assenti o appena sufficienti al sostentamento della sua famiglia fino all'anno 2000, già a partire dalla fine degli anni '70 il soggetto aveva avviato una intensa attività di acquisizione immobiliare, nella maggior parte dei casi senza fare ricorso a prestiti o mutui bancari. Conseguentemente, l'ingente patrimonio accumulato è stato ritenuto frutto del reimpiego di proventi derivanti dalla sua militanza nell'organizzazione mafiosa.

Scacco alla Sacra corona unita

Due operazioni all'alba: 43 indagati

Droga ed estorsioni ai lidi balneari. Al centro delle indagini dei Ros, denominata "Torre d'Acaia", e della Mobile di Lecce ("Alta marea"), le attività criminali dei capi clan e dei gregari della frangia leccese dell'organizzazione operanti nel Salento



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LECCE – Le luci dell’alba si sono fuse con quel raggio luminoso dell’elicottero che sorvolava la città. Sulla città. Tutt’intorno alla città. E quando le sirene di carabinieri e polizia hanno smesso di suonare, 36  delle 43  persone indagate erano già finite in carcere per aver tenuto sotto scacco i gestori dei lidi dell'Adriatico. Lo zoom degli investigatori si è spostato da ponente a levante, e ne è scaturito un blitz congiunto, al termine di due filoni di indagine: quello dei carabinieri del Ros, il Reparto operativo speciale dell'Arma, e quello della Squadra mobile della questura leccese.
 
Denominata “Alta marea” la prima,  condotta dal mese di agosto del 2012, fino  a maggio 2013, e  “Terra d’Acaia”, da aprile 2010 al mese di settembre del 2011, la seconda, le due attività sono confluite in un’unica operazione ribattezzata “Network”. Una “rete” che non si riferisce esclusivamente alla collaborazione fra forze dell’ordine, bensì a quella sorta di  “S.p.a” messa su dai 43 indagati, appartenenti a vari gruppi mafiosi della frangia leccese della Sacra corona unita.

Questi i nomi dei destinatari del provvedimento Egidio Buttazzo, 39enne di  Cavallino; Maurizio Calogiuri, 37enne di Lizzanello; Mauro Cucurachi, 49enne di Lizzanello (nella casa del quale sono stati sequestrati una pistola modificata “Valtro modello 85 Combat” con 36 proiettili calibro 8 e un bilancino di precisione); Carmelo De Pascalis, 51enne di Cavallino; Anna Oriana Durante, 39enne di Melendugno; Antonio Giordano, 64enne di Cavallino; Gioele Greco; 27enne di Lecce, Antonio Pantaleo Mazzeo, 26enne di Caprarica di Lecce; Veronica Murrone, 28enne di Castrì di Lecce, Francesco Pastore, 31enne di Cavallino; Antonio Marco Penza, 31enneleccese; Giuseppe Potenza; 37enne di Melendugno; Mirko Ricciato, 38enne di Lizzanello; Luigi Santoro, 44enne di Melendugno; Andrea Terrazzi, 38enne di Calimera; Eugenio Campa, 53enne di Bagnolo del Salento; Rocco Campa, 33enne di Giuggianello, Walter Marcellino Ricciuti, 49enne di Calimera; Alessandro Schito, 37enne di Lizzanello, Massimiliano Apollonio, 29enne di Lizzanello; Jasmin Behereim, 49enne residente a Lecce; Angelo Belfiume, 37enne di Melendugno,; Andrea Capirola, 35enne di Castrì di Lecce; Tonino Caricato, 33enne di Cavallino; Graziano De Fabrizio, 31enne di Lizzanello; Bruno De Matteis, 50enne di Lizzanello; Roberto Mirko De Matteis, 37enne di Lizzanello; Leo De Matteis, 34enne di Lizzanello; Maurizio Di Nunzio, 30enne di Maglie attualmente detenuto; Luca Giannone, 38enne di Calimera; Andrea Leo, alias “Vernel”, 43enne di Vernole; Gregorio Leo, 50enne di Vernole; Stefano Mazzeo, alias “Peppariello”, 34enne di Lizzanello; Giovanni Maria Mazzotta, 40enne leccese; Cristian Micelli, 36enne di Lizzanello e Maria Valeria Ingrosso, 35enne di Merine e moglie di Andrea Leo. Al momento, sono irreperibili Pasquale Briganti, 45enne di Lecce; Alessandro Greco, 31enne leccese e Francesco Mungelli, 37enne sempre di Lecce   
Si tratta di un continuum con le precedenti attività, anche recenti, che hanno infiacchito i gruppi criminali dediti all’estorsione dei titolari di stabilimenti balneari nel basso Ionio. Soltanto lo scorso 18 febbraio, infatti, nel blitz denominato “Tam tam”, furono fermati in 15. Le indagini, in quell’occasione, portarono alla luce dun sodalizio che dalla zona di Ugento, muoveva verso il clan “Vernel” dei fratelli Leo di Vernole. Uno dei quali rimasto coinvolto anche nell’operazione conclusa all’alba di oggi.
 
Il gruppo, destinatario di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere, emessa dal gip di Lecce, Alcide Maritati, su richiesta della Direzione distrettuale antimafia di Lecce, è ritenuto responsabile, a vario titolo, di associazione mafiosa”, associazione finalizzata al traffico ed allo spaccio di sostanze stupefacenti, spaccio di  droga, calunnia, favoreggiamento personale, rapina, estorsione, ricettazione, danneggiamento seguito da incendio, illecita concorrenza con minaccia e violenza, porto e detenzione illegale di armi, tutti aggravati dalle modalità e finalità mafiose.

I principali locali sul litorale tra Torre Specchia e San Foca – tra cui i lidi “Caciulara”, “Punta Arenas”, “San Basilio”, “Mediterraneo” e “Kale Cora”, il cui proprietario è stato accusato di favoreggiamento  – erano tenuti a versare il pagamento del 25 per cento sui ricavi, oltre a concedere l’esclusiva sulla gestione dei parcheggi delle zone circostanti. E non è tutto. Attività di guardiania  e  servizi di vigilanza non erano lasciati al libero arbitrio, ma imposti. Una zona, quella, balzata agli onori delle cronache anche per una serie di incendi di natura dolosa, che si verificarono sia nella stagione stiva del 2012, sia in quella dell'anno scorso, ai danni di autovetture e locali.

Nell’estate del 2011, Verardi era di ritorno dalla Spagna, dove aveva trascorso un periodo di latitanza, prima di essere catturato dalla Squadra mobile,  e gestito il traffico degli stupefacenti iberico. Aveva organizzato l’esecuzione di una serie di estorsioni ai gestori degli stabilimenti balneari e di altri bar e gelaterie della costa adriatica del Salento. Fu in quella stagione stiva che Verardi strinse rapporti con il gruppo di Nisi, interessato allo stesso business.
 
Le fasi investigative sono state condotte sviscerando legami e rapporti tra capi clan e gregari nell’area a sud-est della fascia costiera adriatica salentina Comuni come   Lecce, Vernole, Melendugno, Calimera, Lizzanello, Cavallino e relative marine. Tutti finiti sotto la “gestione” di una vera e propria holding che, come ha affermato lo stesso procuratore capo della repubblica di Lecce Cataldo Motta, si sono intrecciati per osmosi. E, invece d rivaleggiare, a un certo punto si sono resi conto che sarebbe stato molto più redditizio e conveniente allearsi nella spartizione delle attività illecite del territorio.

In particolare, le indagini condotte dalla Squadra mobile della questura del capoluogo salentino, attraverso intercettazioni telefoniche ed ambientali, pedinamenti e controlli, perquisizione e sequestri, hanno consentito di acquisire elementi di prova soprattutto sull’organizzazione mafiosa parallela dedita allo spaccio di stupefacenti, in particolare da e verso la Spagna .  gestita principalmente da Salvatore Rizzo, capo storico della Scu, e già coinvolto nell’Operazione Augusta, condotta dai militari del Ros nell’ottobre 2011 -  diretta Andrea Leo Alessandro Verardi, entrambi del “clan Vernel”. Determinanti per la ricostruzione dell’organigramma dell’associazione, proprio  le dichiarazioni rilasciate dai collaboratori di giustizia Giuseppe Manna, Mauro In grosso,  e lo stesso Verardi. Parole che, oltre a fornire preziosi dettagli circa i ruoli svolti all’interno del gruppo e le relazioni trasversali tra i componenti, hanno anche permesso di individuare ulteriori organizzazioni, come quella facente capo a Roberto Nisi, operante su Lecce e dintorni. O come l’altra riconducibile a Pasquale Briganti, detto “Maurizio” e, infine, quello della famiglia di Bruno De Matteis, tra Merine e paesi limitrofi.



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Racket dell'ombrellone blitz antimafia in Salento




LECCE - Sono state fondamentali le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia e le successive intercettazioni ambientali a riscontro nello sviluppo delle due indagini parallele dei Ros dei Carabinieri e della Squadra Mobile della Questura di Lecce, coordinati dalla Direzione distrettuale antimafia diretta da Cataldo Motta, denominate rispettivamente «Alta Marea» e «Terre d’Acaia» e che hanno portato a eseguire una ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip del tribunale del capoluogo salentino nei confronti di 43 persone indagate, appartenenti a vari gruppi mafiosi della frangia leccese della Sacra corona unita.

IL CONTROLLO SULLE «MARINE»
I reati a loro contestati, a vario titolo, sono di associazione mafiosa, associazione finalizzata al traffico ed allo spaccio di sostanze stupefacenti, spaccio di sostanze stupefacenti, calunnia, favoreggiamento personale, rapina, estorsione, ricettazione, danneggiamento seguito da incendio, illecita concorrenza con minaccia e violenza, porto e detenzione illegale di armi, tutti aggravati dalle modalità e finalità mafiose. Le due indagini sono state riunificate un unico procedimento.
Quelle della Squadra Mobile sono state condotte in un periodo tra aprile 2010 e settembre 2011, quelle dei carabinieri da agosto 2012 a maggio 2013. Sono coinvolti nell’inchiesta esponenti di rilievo (capi clan e gregari) della frangia leccese della Scu, che operavano nel capoluogo e nell’area geografica a sud est e nella fascia costiera adriatica della provincia di Lecce, comprendente i comuni di Lecce, Vernole, Melendugno, Calimera, Lizzanello, Cavallino ed altri, con le rispettive «marine».
In particolare, la Squadra Mobile, mediante intercettazioni telefoniche ed ambientali, osservazioni, controlli, perquisizioni e sequestri, ha acquisito prove sull’organizzazione mafiosa e la parallela associazione a delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti (in particolare provenienti dalla Spagna), sorta su impulso di Salvatore Rizzo (capo storico della Sacra corona unita e già coinvolto nell’Operazione Augusta condotta dal Ros nell’ottobre 2011), e poi diretta da Andrea Leo e Alessandro Verardi (presunti capi del clan denominato «Vernel»).

IL RUOLO DEI PENTITI
Proprio in questo contesto particolarmente importanti si sono dimostrate le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Giuseppe Manna ('gestitò della Squadra Mobile) e Alessandro Verardi («gestito» dal Ros). Se con l’indagine «Terre d’Acaia» della Squadra Mobile era stata verificata l’attendibilità delle dichiarazioni di Manna, il Ros ha successivamente comunicato all’autorità giudiziaria gli esiti dell’indagine «Alta Marea» svolta al fine di verificare la sussistenza di riscontri alle dichiarazioni di Verardi. Le dichiarazioni di quest’ultimo hanno consentito ai militari del Ros, anche grazie ad una serie di intercettazioni telefoniche e di acquisizioni di corrispondenza fra detenuti, ma in particolare di intercettazioni ambientali, di ricostruire l’evolversi dell’organigramma e delle attività delittuose gestite dal gruppo
ormai capeggiato in via esclusiva da Leo dopo la «defezione di Verardi.
Nelle indagini di carabinieri e Squadra mobile sul gruppo mafioso capeggiato all’esterno da Leo e Verardi sono emersi elementi che hanno consentito di accertare l’operatività sul territorio della provincia di Lecce di altre organizzazioni di tipo mafioso riconducibili alla Scu, ad esempio il gruppo capeggiato da Roberto Nisi, (capoluogo e dintorni); quello capeggiato da Pasquale Briganti (capoluogo); quello capeggiato dalla famiglia di Bruno De Matteis (Merine e dintorni). Le alleanze ed i contrasti tra questi gruppi hanno caratterizzano di fatto la vita dell’organizzazione facente capo a Leo e Verardi che, con il patronato di Totò Rizzo, ha tentato sin dal 2010 di imporsi in maniera esclusiva sul territorio di appartenenza.

GLI IRREPERIBILI
Sono 19 le persone catturate dalla Squadra Mobile, tre invece gli irreperibili. Nelle ultime ore è stata catturata anche Maria Valeria Ingrosso, 34 anni, moglie di Andrea Leo, residente a Merine di Lizzanello. La donna, che alle prime ore di questa mattina si era resa irreperibile, dovrà rispondere di associazione mafiosa e traffico di stupefacenti. Le perquisizioni effettuate hanno consentito di sequestrare una pistola modificata marca Valtro modello 85 Combat con trentasei proiettili calibro 8 ed un bilancino di precisione, all’interno dell’abitazione di Mauro Cucurachi.

Coniugi assassinati a Potenza nel 1997 tre uomini arrestati



POTENZA – Tre uomini sono stati arrestati stamani dalla squadra mobile della questura di Potenza perchè ritenuti coinvolti – due in qualità di mandanti, uno come esecutore – dell’omicidio dei coniugi Giuseppe Gianfredi e Patrizia Santarsiero, di 39 e 32 anni, avvenuto la sera del 29 aprile 1997 nel capoluogo lucano.

Dei tre arrestati, due sono già detenuti, l’altro era libero. Il presunto esecutore del delitto partecipò alla sua preparazione, facendo sopralluoghi per stabilire dove compiere l'omicidio. Gli arresti sono stati disposti dal gip distrettuale, su richiesta della Direzione distrettuale antimafia di Potenza, al termine di indagini basate anche sulle dichiarazioni di collaboratori di giustizia. Il duplice delitto dei coniugi Santarsiero – uccisi con colpi di fucile e pistola mentre stavano parcheggiando la loro auto nei pressi di casa e mentre sul sedile posteriore vi erano due dei loro tre figli, di dieci e otto anni, rimasti illesi – fu una sorta di "atto dimostrativo" di un clan mafioso nei confronti di un gruppo rivale, per affermare la sua supremazia sul territorio e lanciare un segnale di "avvertimento".

Gli arrestati sono Giovanni Luigi Cosentino, di 59 anni, Saverio Riviezzi (di 50) e Carmine Campanella (51), tutti ritenuti esponenti della criminalità organizzata lucana. Sono ritenuti responsabili del delitto dei coniugi Gianfredi insieme ad altri tre uomini, due dei quali sono collaboratori di giustizia.

La Polizia ha ricostruito il quadro nel quale avvenne l'omicidio che, nel progetto, doveva riguardare solo Giuseppe Gianfredi (la moglie fu uccisa perché era a bordo dell’auto con il marito ma non era l’obiettivo dei sicari, che però non avevano tenuto conto della possibilità della sua presenza).

Gianfredi era considerato l’“eminenza grigia” del clan Martorano, in quel periodo egemone a Potenza: il clan rivale dei “Basilischi” – che allora muoveva i primi passi – decise di eseguire un delitto per affermare la sua presenza e la sua superiorità. Secondo l’accusa, Cosentino – che all’epoca era detenuto – incaricò il suo “luogotenente” Antonio Cossidente di individuare l’obiettivo da colpire e la scelta cadde su Gianfredi. Quest’ultimo era l’unico del “vertice” del clan Martorano ad essere libero: per giunta, i suoi movimenti erano abitudinari, quindi colpirlo era facile. La scelta fu condivisa da Riviezzi, che collaborò ad organizzare l’agguato (Campanella fece sopralluoghi vicino alla casa di Gianfredi).

I sicari furono Claudio Lisanti (che è morto) e Alessandro D’Amato, appartenente al clan “Cassotta” di Melfi (Potenza), che si è accusato del delitto e lo ha descritto agli investigatori in ogni fase. Quella sera a Potenza pioveva, Gianfredi arrivò sotto casa in auto con moglie e due figli, trovò parcheggio, eseguì lentamente la manovra perchè i vetri erano appannati: i killer entrarono in azione con una pistola (D’Amato) e un fucile (Lisanti, che agì più lentamente).
La squadra mobile della questura di Potenza ha trovato riscontri e testimonianze che hanno consolidato le affermazioni fatte dai collaboratori di giustizia Cossidente e D’Amato. In particolare, sono state svolte “attività di riscontro” sull'esecuzione materiale del duplice omicidio, sui rapporti esistenti fra i sicari e i mandanti, definiti “stretti e documentati”.

E l'inchiesta non è finita: c'è un regista occulto

Arrestato ex capo della Mobile: «Legato a clan Mancuso»
Inchiesta shock a Vibo Valentia: in manette Maurizio Lento e il suo vice. Coinvolti un altro poliziotto e l'avvocato del boss. Ma secondo il gip c'è ancora da scoprire una figura apicale responsabile della «inerzia investigativa sulla cosca»



VIBO VALENTIA - Il terremoto giudiziario che ha sconvolto Vibo Valentia potrebbe non essere finito. Ci sarebbe infatti un "soggetto non ancora individuato" che, secondo il giudice delle indagini preliminari Abigail Mellace, sarebbe il responsabile "dell’inerzia investigativa sulla cosca Mancuso" costata l’arresto degli ex vertici della Squadra Mobile di Vibo, Maurizio Lento ed Emanuele Rodonò (LEGGI). Una figura apicale che teneva i fili di una situazione fatta di confidenze e collusioni.

INFORMATIVE NEI CASSETTI E CHAMPAGNE: LEGGI I DETTAGLI
Il gip spiega che in una conversazione Rodonò riferisce chiaramente al suo interlocutore di non aver potuto indagare sui Mancuso al fine "di eseguire ordini superiori provenienti da un soggetto non ancora individuato" al quale Rodonò sarebbe stato legato da "un debito di fedeltà ed amicizia", e da "motivi gerarchici".

Per il gip di Catanzaro, la conversazione fornisce "la prova certa ed inconfutabile" della situazione di "inerzia investigativa" sul clan Mancuso, anche se "sulla genesi di tali determinazioni di Rodonò", secondo il gip, "è evidente che non ha inciso l’avvocato Antonio Galati". Galati è l'avvocato consulente negli affari del clan Mancuso, ma capace, secondo l'ordinanza di custodia cautelare, di interagire con pezzi importanti dello Stato

Sulla presunta inerzia investigativa degli inquirenti vibonesi si erano già pronunciati il gip ed il Tribunale della libertà di Salerno, con conclusioni opposte rispetto alla magistratura catanzarese, in relazione all’inchiesta riguardante alcuni magistrati. I due organismi avevano invece sottolineato come l’allora pm antimafia, Giampaolo Boninsegna, avesse chiesto al procuratore della Dda di Catanzaro, Giuseppe Borrelli, il visto per l’arresto sin dal 2010 nei confronti di Antonio Maccarone, Pantaleone e Antonio Mancuso.

Tale richiesta - ritenuta fondamentale dal gip di Salerno per scagionare l’ex pm della Dda - non era stata però trasmessa dalla Dda di Catanzaro ai colleghi di Salerno, ma era stata invece depositata dallo stesso Bonisegna al gip in sede di interrogatorio.

Concorsi truccati a Napoli

 Le intercettazioni: «100mila euro e fai il preside»


di Leandro Del Gaudio
Inchiesta della Guardia di finanza sull’ultimo concorsone in Campania per diventare dirigente scolastico, spuntano le intercettazioni telefoniche raccolte in questi mesi. È il 17 settembre del 2011, quando l’ex dirigente Pietro Esposito (uno dei target dell’indagine) parla al telefono con un non meglio identificato Tonino: e si lamenta del fatto che c’è chi ha «percepito la somma di 100mila euro per assicurare, ad alcuni suoi discenti, il passaggio alle prove selettive e finali del concorso per dirigente scolastico».

martedì 25 febbraio 2014

Sesso in cambio di esami Due anni e mezzo a Rossitto

Ha risarcito con 5.000 euro ciascuna le 5 studentesse


di Carmen Greco
Sesso in cambio di esami Due anni e mezzo a Rossitto di Carmen Greco Ha risarcito con 5.000 euro ciascuna le 5 studentesse Catania. Ha scelto il basso profilo per la conclusione della vicenda che quasi cinque anni fa gli ha affibbiato sulle pagine dei giornali il poco invidiabile titolo di "porno-prof ".

Elio Rossitto già docente di Economia politica nella facoltà di Scienze politiche di Catania e consigliere degli ex presidenti della Regione Rino Nicolosi e Raffaele Lombardo, ha patteggiato la pena per le accuse di tentata violenza sessuale e tentata concussione nei confronti di cinque studentesse che lo hanno accusato di chiedere sesso in cambio del superamento della materia d'esame.L'ex prof. ha patteggiato (con il parere favorevole della procura) la condanna a due anni e mezzo di reclusione (pena sospesa perché così prevede la legge per gli ultrasettantenni).

Il patteggiamento ha comportato lo "sconto" di un terzo della pena.La sentenza è stata emessa ieri dal giudice dell'udienza preliminare Giuliana Sammartino. L'imputato ha risarcito anche le cinque parti civili (le studentesse) con cinquemila euro ciascuno. Per due di loro la consegna è avvenuta "brevi manu" per le altre tre gli avvocati di Rossitto, Angelo Pennisi e Attilio Floresta, riceveranno la stessa offerta tramite l'ufficiale giudiziario. La sentenza di ieri, di fatto, chiude questa vicenda definitivamente (tecnicamente sarebbe possibile anche un'impugnazione da parte della difesa, ma è assai improbabile) ma solo dal punto di vista penale. Infatti ci sarà anche una causa civile i cui esiti, comunque, non sono prestabiliti e sulla quale non peserà il verdetto emesso ieri. Spetterà al giudice civile stabilire sia il quantum del risarcimento sia se, effettivamente, sarà dovuto. Da segnalare che ieri si è aggiunta un'altra parte civile, l'associazione Thamaia che si occupa di difendere le donne che hanno subito violenze.

Lo scandalo sui favori sessuali all'Università era esploso a fine ottobre del 2009 con un filmato mandato in onda nella trasmissione televisiva «Le Iene» nel quale una studentessa aveva ripreso le richieste sessuali fattele dal docente, in cambio della materia, nella stanza di un motel dove l'aveva condotta.Nel luglio del 2011 l'Università decise di costituirsi parte civile contro il docente che però, subito dopo lo scandalo, per non incorrere in provvedimenti discipliari, il 3 novembre 2009 aveva lasciato l'insegnamento mettendosi in pensione. Il processo era stato incardinato davanti la quarta sezione penale del Tribunale etneo che il 10 luglio scorso aveva ritenuto legittima un'eccezione presentata dalla difesa, su una mancata notifica in sede di indagini preliminari e rinviato gli atti alla Procura. I sostituti procuratori Marisa Scavo e Lina Trovato, titolari dell'inchiesta, avevano chiesto, dopo avere interrogato Rossitto, nuovamente il suo rinvio a giudizio al gip.

Pentito contro Cosentino: «L'ex sottosegretario è più mafioso di me»




Clima infuocato al processo Eco4, in corso davanti al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere che vede imputato per concorso esterno in associazione camorristica l'ex sottosegretario Nicola Cosentino. Durante il controesame della difesa (in aula c'erano gli avvocati Agostino De Caro e Nando Letizia) il pentito Francesco Della Corte si è lasciato andare a valutazioni personali. «Nicola Cosentino è più mafioso di me, perchè è uno facoltoso e se la faceva con certa gente». «Chiedo al presidente di non consentire al teste basse diffamazioni», ha replicato l'avvocato De Caro mentre l'ex sottosegretario ha scosso la testa facendo una smorfia di disgusto.

Le frase del collaboratore ha esasperato uno scontro già piuttosto acceso tra il pm della DDA Alessandro Milita e la difesa, iniziato dopo i tanti «non ricordo» pronunciati da Della Corte, la cui credibilità è stata messa in dubbio da una serie di circostanze apparse «molto strane» alla difesa; come quando il pentito ha affermato che il clan dei Casalesi ha sempre appoggiato Cosentino alle elezioni, anche «alle provinciali dei primi anni '80». «Quella tornata elettorale c'è stata nel 1980 e lei aveva 10 anni e mezzo. Già si occupava di politica?» ha chiesto De Caro. «No, però ricordo che Cosentino si era presentato con il simbolo del 'sole nascente'».

Il pentito, proveniente da una famiglia da sempre impegnata in politica, con due zii ex sindaci di Villa di Briano, ha poi però detto di «non ricordare se mio fratello, che si candidò alle comunali, fu eletto». «Di Cosentino ricorda tutto però» ironizza De Caro. Della Corte ha poi confermato, come dichiarato nell'esame del pm del 27 gennaio scorso, «l'interessamento di Cosentino per i lavori di metanizzazione dell'Agro-aversano». I legali di Cosentino hanno fatto notare che «le opere furono realizzate dalla Coop rossa Concordia di cui grande sponsor fu l'ex senatore del Pd Lorenzo Diana». «Di Diana non so nulla» ha risposto Della Corte; De Caro ha poi depositato della documentazione scaricata da internet relativa proprio sui rapporti tra la Concordia e l'ex parlamentare di centrosinistra grande accusatore di Cosentino.

Scontro anche quando l'avvocato Letizia ha provato a saggiare l'attendibilità del teste con alcune domande su un triplice omicidio per cui Della Corte è imputato insieme a Nicola Schiavone, figlio del boss Francesco Schiavone «Sandokan». «Queste domande non sono pertinenti con l'oggetto della causa in corso», è intervenuto Milita. «Questo è ostruzionismo - ha detto il legale - alla difesa non viene data la possibilità di fare il proprio lavoro, mentre il pm pone tutte le questioni che vuole». «Quello - ha detto Cosentino riferendosi al pm - non vuole la verità». L'udienza si è conclusa dopo oltre cinque ore. Si tornerà in aula il 10 marzo.

Funzionari della polizia legati al clan Mancuso

Terremoto a Vibo, in manette ex capo della Mobile

Bufera giudiziaria sui legami tra la potente cosca dei Mancuso e funzionari dello Stato corrotti. Arrestati l'ex capo della squadra Mobile e il suo vice. Tra i fermati anche l'avvocato del clan Mancuso
 
 
di STEFANIA PAPALEO
VIBO VALENTIA - Nuovo terremoto giudiziario in Calabria con un ennesimo blitz che va a colpire direttamente al cuore delle istituzioni. Poliziotti infedeli, toghe colluse, avvocati in odor di mafia. Ma anche boss e picciotti della 'ndrangheta che tutto possono su un territorio ostaggio della criminalità organizzata. C'è tutto questo nelle carte dell'inchiesta sfociata nel blitz che ha messo a soqquadro il vibonese, con scosse telluriche che hanno fatto vacillare anche palazzi apparentemente inviolabili. In campo i segugi della Squadra mobile di Catanzaro, al comando di Rodolfo Ruperti, che, dietro la regia del procuratore aggiunto della Dda di Catanzaro, Giuseppe Borrelli (affiancato dal sostituto procuratore Simona Rossi), hanno raccolto tutti i tasselli utili a portare al traguardo una costola della più nota inchiesta "Purgatorio", che aveva coinvolto alcuni magistrati in servizio presso la stessa Dda di Catanzaro. Ma "la giustizia è uguale per tutti", aveva proclamato a gran voce appena ieri il procuratore Borrelli, illustrando i dettagli dell'operazione che ha sgominato un traffico di droga alla "Catanzaro bene". Oggi i fatti, con l'operazione che farà tremare la cosiddetta "zona grigia", disinvoltamente a braccetto con la temibile cosca Mancuso di Limbadi. In tarda mattinata è prevista una conferenza stampa a Palazzo di giustizia di Catanzaro, anche alla presenza del procuratore della Repubblica, Vincenzo Antonio Lombardo.

Nell'operazione dei carabinieri del Ros e della squadra Mobile di Catanzaro sono finiti l’ex capo della squadra mobile di Vibo Valentia Maurizio Lento, l’ex vice dello stesso ufficio Emanuele Rodonò e l’avv. Antonio Carmelo Galati, difensore dei Mancuso di Limbadi. I funzionari sono accusati di concorso esterno e il legale di associazione mafiosa
Lento, attualmente, prestava servizio alla Questura di Messina, mentre Rodonò era al reparto mobile di Roma. I due funzionari sono stati arrestati dalla squadra mobile di Catanzaro. I carabinieri del Ros hanno invece fermato l’avv. Galati. L’inchiesta che ha portato ai tre arresti è coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro. Secondo le attività investigative, i due funzionari della polizia avevano rapporti con l’avv. Galati, legale di alcuni degli esponenti di spicco della cosca Mancuso di Limbadi, al quale avrebbero fornito informazioni su indagini in corso. I due non lavoravano più a Vibo da tempo.

Napoli. Preso reggente del clan Amato-Pagano: era nell'elenco dei latitanti pericolosi



NAPOLI - Il boss di camorra Gennaro De Cicco, 28 anni, ritenuto reggente del clan degli «Amato - Pagano», i cosiddetti «scissionisti», è stato arrestato dai Carabinieri di Napoli in un appartamento di Melito. De Cicco era latitante dal settembre 2012 e - si apprende dai Carabinieri - era inserito nell'elenco dei latitanti pericolosi. Era ricercato per omicidio, associazione per delinquere di tipo mafioso e traffico di stupefacenti.

De Cicco è stato individuato e arrestato in un'operazione dei Carabinieri della Compagnia di Giugliano in Campania e del Nucleo Investigativo di Castello di Cisterna, che lo hanno sorpreso a Melito, in un appartamento di via Garibaldi. De Cicco aveva fatto perdere le tracce nel settembre 2012 per sfuggire a un'ordinanza di custodia in carcere emessa sempre nel 2012 per omicidio.

Un'altra ordinanza, per associazione di tipo mafioso e traffico di stupefacenti, era stata emessa nei suoi confronti nel febbraio 2013.

Caso Ligresti, la Finanza sequestra 2,5milioni in fuga verso la Svizzera

Destinatario  dell’operazione era Paolo Ligresti: fermati contanti e titoli del neonato gruppo Unipol-Sai


torino
La Guardia di Finanza di Torino ha sequestrato 2 milioni e mezzo di euro destinati a un conto in Svizzera di Paolo Ligresti. Le operazioni di trasferimento riguardavano denaro contante e titoli del neonato gruppo Unipol-Sai verso il conto corrente a Lugano. L’ordine di trasferire il denaro e le azioni Unipol-Sai è stato disposto da una società fiduciaria, dietro il cui schermo, però, si celano l’ultimogenito della famiglia Ligresti, insieme al padre Salvatore. Il conto di destinazione, invece, è risultato intestato ad una società lussemburghese, Limbo Invest SA, anch’essa riconducibile ai membri della famiglia coinvolta nell’operazione «Fisher-Lange».
Il provvedimento di sequestro, firmato dal gip Paola Boemio, su proposta del pm Marco Gianoglio, è stato emesso in considerazione «all’elevato rischio per la sottrazione di beni alla possibile azione della giustizia».  

Amministratori e cosche in affari a Scalea

Deliberato lo scioglimento del Comune

Dopo l'operazione che ha portato all'arresto del sindaco e di cinque componenti della Giunta, il Consiglio dei Ministri ha valutato il responso della Commissione di accesso e ha disposto lo scioglimento dell'ente


SCALEA (CS) - Il Consiglio dei Ministri, che si è riunito oggi alla Camera, nella Sala del Governo, sotto la presidenza di Matteo Renzi, ha approvato il decreto del Presidente della Repubblica di scioglimento del Consiglio comunale di Scalea (Cs) in scadenza oggi.

"L'atto è stato assunto al fine di consentire il completamento delle operazioni di risanamento delle istituzioni locali nelle quali sono state riscontrate forme di condizionamento da parte della criminalità organizzata - si legge in una nota di Palazzo Chigi -. L’affidamento della gestione dell’ente, su proposta del ministro dell’Interno, Angelino Alfano, sarà in capo ad una Commissione straordinaria".
Lo scioglimento del Comune di Scalea segue le verifiche della Commissione di accesso, nominata dopo l'arresto del sindaco Pasquale Basile che incassato il sostegno del clan alle elezioni del 2010 avrebbe poi ricambiato facendo, di fatto, gestire gli appalti al gruppo “Valente e Stummo”. Con il primo cittadino erano finiti in manette anche cinque assessori (LEGGI LA RICOSTRUZIONE DELL'INCHIESTA). E le indagini sui rapporti tra amministratori e criminalità organizzata si sarebbe allargata anche alle precedenti gestioni (LEGGI L'ARTICOLO).

sabato 22 febbraio 2014

Donne killer nel commando di Caivano che ha bruciato due uomini

Grumo Nevano. Camorra senza freni. Spietata.



Lunedì due morti carbonizzati a Caivano. Ora la scoperta di un altro cadavere, dato alle fiamme e completamente consumato dal fuoco, trovato nel bagaglio di una Fiat Multipla nelle campagne di Grumo Nevano. Fatti collegati tra loro da un unico filo: quella della vendetta. E c’è ancora qualcosa di più sconvolgente.

Per portare a termine il duplice delitto di Caivano il clan ha assoldato donne killer. Due assassine spietate. Sono donne quelle due ombre riprese da una telecamera di video sorveglianza di via Palmieri a Caivano, mentre scendono dalla Fiat Punto, dove erano stati appena uccisi Aniello Ambrosio e Vincenzo Montino, boss del clan Cennamo di Crispano, prima di essere avvolti dalle fiamme.

Questo spiega due cose. La prima, la facilità con la quale le vittime sono cadute nella trappola mortale. I due pregiudicati uccisi, che sapevano di essere sulla lista nera, mai si sarebbero appartati in auto con altri elementi del clan. Invece avrebbero accettato l’invito di quelle che forse credevano fossero soltanto l’avventura di una sera.

Camorra. Triplice omicidio Papa-Minutolo-Buonanno

Il pm: «Carcere a vita per il figlio di Schiavone Sandokan»



Ieri la requisitoria del processo per l'omicidio di tre affiliati

SANTA MARIA CAPUA VETERE - Nicola Schiavone sarebbe stato il mandante dell’omicidio di tre affiliati che avrebbero osato «sganciarsi» dal clan dei Casalesi e chiedere il pizzo a Grazzanise.

I tre erano Giovanni Battista Papa, Modestino Minutolo e Francesco Buonanno. Per questo Schiavone, il figlio del boss Francesco detto Sandokan, deve essere condannato all’ergastolo.

A chiederlo ieri, durante la requisitoria finale del processo per il triplice omicidio, è stato il pm della Dda, Antonello Ardituro.

La prossima settimana inizieranno le discussioni degli avvocati difensori e per marzo è prevista la sentenza.

Casalnuovo. Panettiere suicida dopo una multa, rabbia ai funerali. Pensionata regala soldi alla famiglia




Casalnuovo. Una folla di gente ha accolto stamane nella chiesa di Santa Maria del Suffragio il feretro di Eduardo De Falco, il commerciante suicidatosi dopo aver ricevuto una contravvenzione di 2000 euro dall'ispettorato del lavoro per aver trovato la moglie nel suo panificio senza un regolare contratto.


Un sentimento di rabbia ha pervaso i presenti che hanno mosso pesanti attacchi alle istituzioni ed autorità presenti. "Tutti devono sapere. Vogliamo fatti e non parole o sterile presenza" le parole gridate tra le lacrime dal suocero del commerciante, il signor Ciro Poli che brandiva alcune centinaia di euro donategli da una anziana pensionata: "Ho questo solo, prendilo e bada ai tre figli di Eddy".

Un gesto che scatenato malcontenti tra amici e colleghi di Eduardo De Falco che stamane hanno tirato giù le serrande dei propri negozi in segno di lutto, ma soprattutto in segno di protesta contro un sistema che li sta mettendo in ginocchio.

Casalesi, sequestrati al boss Setola appartamenti, aziende e una villa




CASERTA - Appartamenti, una villa, rapporti finanziari e aziende, per un valore complessivo pari a 5 milioni di euro, sono stati confiscati dalla Direzione Investigativa Antimafia di Napoli a Giuseppe Setola, capo dell'ala stragista del clan dei Casalesi, autore della Strage di Castel Volturno, detenuto in regime di carcere duro e più volte condannato all'ergastolo.

I beni, intestati ad alcuni suoi parenti, tra cui il fratello Pasquale, erano nella disponibilità del killer. Il provvedimento di confisca è stato emesso dalla Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere su richiesta del direttore della DIA di Napoli Arturo De Felice. I beni sono stati ritenuti di valore sproporzionato rispetto ai redditi dichiarati dal killer, dai suoi parenti e dalle persone a lui vicine.

Le indagini si sono avvalse anche delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Alfonso Diana, Domenico Bidognetti e Gaetano Vassallo. Gli accertamenti patrimoniali e l'attività investigativa, coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli, hanno consentito di accertare che Giuseppe Setola investiva i proventi delle attività criminali in immobili e attività commerciali che poi intestava prestanome tra cui figurano parenti e amici, con l'obiettivo di eludere le sottrazioni da parte di magistratura e forze dell'ordine. Tra questi figura anche il fratello Pasquale, peraltro suo complice in gravi reati.

mercoledì 19 febbraio 2014

"Concorso esterno in associazione mafiosa"

Lombardo condannato a 6 anni e 8 mesi
"Me lo aspettavo, ma io sono innocente"



. «Una sentenza storica». È nel  commento del procuratore Giovanni Salvi la valutazione della  condanna a 6 anni e 8 mesi di reclusione che il Gup di Catania  ha comminato all'ex governatore della Sicilia e leader del Mpa,  Raffaele Lombardo, per concorso esterno all'associazione  mafiosa, accusa che assorbe anche la contestazione del voto di  scambio con Cosa nostra. Per il giudice sarebbero quindi provati  10 anni di contatti con il clan Santapaola-Ercolano, ma non  quelli con il clan Cappello, reato dal quale Lombardo è assolto.  È la prima volta che per un presidente della Regione Siciliana  è emessa una sentenza di condanna per concorso esterno  all'associazione mafiosa.      Quando l'inchiesta Iblis dei carabinieri del Ros viene a  galla, nel novembre del 2010, Lombardo è un politico in ascesa,  da possibile ministro del governo Berlusconi passa alla guida  della Regione e con il suo Mpa è corteggiato dal centrodestra,  col quale vince le elezioni nel 2008, e dal centrosinistra, col  quale fa un accordo e vara una giunta 'tecnica appoggiata dal  Pd ricevendo l'accusa di 'ribaltonista dai suoi ex alleati.    

Forte di consensi popolari, che per i suoi detrattori sono  frutto di 'clientele, Lombardo ottiene voti in crescendo. Per  la Procura di Catania in parte arrivano anche da Cosa nostra.  Nata da uno stralcio dell'indagine Iblis dei carabinieri del  Ros di Catania su presunti rapporti tra Cosa nostra, politica e  imprenditori, l'inchiesta era sfociata in un processo per reato  elettorale davanti al giudice monocratico per Raffaele Lombardo  e suo fratello Angelo, deputato nazionale del Mpa. La Procura ha  poi presentato una richiesta di archiviazione per concorso  esterno all'associazione mafiosa che il Gip Luigi Barone, in  camera di consiglio, ha rigettato disponendo l'imputazione  coatta. Nel frattempo i pm hanno contestato l'aggravante mafiosa  per il reato elettorale, atto che ha di fatto concluso il  processo davanti al giudice monocratico. Così le accuse dei due  fascicoli sono confluite in un unico procedimento davanti al Gip  Marina Rizza, dove la Procura ha depositato nuove accuse.    

Per l'ex governatore Raffaele Lombardo la Procura di Catania  aveva chiesto la condanna a 10 anni reclusione «ritenendo che ci  siano elementi solidi per affermare la sua responsabilità  nell'avere contribuito all'organizzazione Cosa nostra per circa  10 anni, fino al 2009». E oggi, osserva il capo dell'ufficio  Giovanni Salvi, raccogli i frutti di «un lavoro importante»,  fatto da una «procura unita» . Il procuratore parla di «fatto  storico». «Per la prima volta - spiega - arriva la condanna per  concorso esterno in associazione mafiosa per un presidente della  Regione Siciliana». Lombardo commenta la sentenza con laconico «me l'aspettavo».  «È l'epilogo naturale - sostiene - del primo grado di giudizio,  ma io sono sereno. Il giudice, oltre che onesta, per bene,  imparziale, indipendente, non poteva avere un coraggio sovrumano  da schierarsi con una sentenza di assoluzione». L'ex governatore  riconosce ai suoi legali di avere «condotto una battaglia  veramente straordinaria dal punta di vista professionale» e si  richiama a «Sciascia, conoscendo il contesto». «Man mano che la  tensione si attenuerà - ritiene Lombardo - nei passaggi  successivi affermeremo la verità anche perché i reati che mi  vengono contestati sono assurdi e ridicoli».     

Nell'inchiesta Iblis era entrato anche il fratello dell'ex  governatore, Angelo Lombardo, deputato nazionale del Mpa, che ha  seguito l'iter giudiziario tradizionale e per il quale il Gup ha  disposto il rinvio a giudizio per gli stessi reati. La prima  udienza del processo sarà celebrata il prossimo 4 giugno davanti  alla prima sezione penale del Tribunale di Catania. Il suo  legale, Piero Granata è certo di «potere dimostrare la sua  innocenza in aula». Dove Angelo Lombardo cercherà di continuare  a separare, oltre che politicamente anche giuridicamente, il suo  cammino da quello del fratello.   


Ascesa e declino di Lombardo: dalla Dc all'Mpa, poi le accuse e il processo

CATANIA. Raffaele Lombardo, 63 anni, è  stato sempre un democristiano. E, a modo suo, lo ha ribadito  nell'accogliere la sentenza di condanna a 6 anni e 8 mesi di  reclusione per concorso esterno all'associazione mafiosa: «me  l'aspettavo, è l'epilogo naturale del primo grado di giudizio,  ma non finisce qui: seguiremo tutte le strade legali per  dimostrare la mia innocenza».   Nato a Catania nel 1950, Raffaele Lombardo, riceve  un'istruzione cristiano-democratica dai padri salesiani e si  iscrive alla facoltà di Medicina e chirurgia laureandosi con una  tesi in Psichiatria forense sul «nesso tra tradizioni popolari e  costruzioni deliranti».    

Negli anni '70 inizia la sua attività politica con il  Movimento della Gioventù della Dc catanese. Consigliere,  assessore al Comune di Catania, deputato alla Regione Siciliana  e assessore regionale agli Enti locali, alla fine degli anni '90  è eletto per due volte al Parlamento Europeo per il Centro  cristiano democratico. Nel 2000 è vice sindaco di Catania. Nel  2003 è eletto presidente della Provincia di Catania.  Nel 2005, dopo essere stato segretario generale regionale  dell'Udc fonda il Movimento per l'autonomia (Mpa). In occasione  delle elezioni politiche dell'aprile del 2008 il Mpa  ufficializza l'alleanza con il Popolo delle libertà e la Lega  Nord. La coalizione vince con il 46,81% dei voti alla Camera e  con il 47,32% dei voti al Senato e il Mpa elegge otto deputati e  due senatori. È in predicato più volte di diventare ministro  del governo Berlusconi.    

Nell'aprile del 2008, dopo le dimissioni di Salvatore Cuffaro  per problemi giudiziari, Lombardo diventa governatore della  Regione Sicilia ottenendo il 64% delle preferenze, avendo la  meglio sulla senatrice del Pd Anna Finocchiaro.  In quattro anni vara diversi governi regionali. Nel settembre  del 2010 cambia maggioranza che lo sostiene, e forma un governo  con 12 assessori tecnici e d'area del Pd.  Il 31 luglio del 2012, indagato dalla Procura di Catania  nell'inchiesta Iblis per presunti rapporti con esponenti di Cosa  nostra che lo avrebbero appoggiato in cambio di voti, si dimette  dall'incarico di governatore e successivamente annuncia il  ritiro dalla vita politica. Adesso la sua battaglia continua sul  piano giudiziario.