giovedì 30 maggio 2013

Monaco, difende fidanzata ucciso ingegnere potentino




di FABIO AMENDOLARA Lei guarda la scena a distanza. Sente i due che si scambiano poche parole, a voce neanche troppo alta. Poi vede l’aggressore allungare un braccio e sferrare un colpo. Uno solo. «Sembrava un pugno», riferirà alla polizia la ragazza, testimone della morte del suo fidanzato. In realtà era una coltellata. È morto poco dopo in ospedale l’ingegnere Domenico Lorusso, 31 anni, di Potenza. Per aver reagito alla provocazione di un folle. Lunghi interrogatori per tentare di ricostruire le fasi di un omicidio capitato per caso, forse per troppo alcol e violenza repressa, frustrazione e rabbia sfogata su degli sconosciuti colpevoli solo di passare nel posto sbagliato al momento sbagliato.

La notte di sangue, secondo una prima ricostruzione della polizia, comincia quando sono da poco passate le dieci di sera. Domenico è con Gilda (28 anni). Anche lei è di Potenza. I due fidanzati sono dei professionisti e si trovavano a Monaco per lavoro. Dopo cena hanno deciso di fare un giro in bicicletta nel centro. Secondo le testimonianze raccolte dalla polizia bavarese erano sulla pista ciclabile che costeggia il fiume Isar, nell’area Nord della città. All’altezza dell’Erhardstrasse, una strada neanche molto isolata, i due hanno incrociato uno sconosciuto che camminava verso di loro.

L’uomo - di 35 anni circa, vestito con abiti scuri, capelli corti scuri e corporatura media (è questa la descrizione fornita alla polizia tedesca dai presenti) - avrebbe sputato verso la ragazza. Lei avrebbe riferito l’accaduto al fidanzato. L’ingegnere ha quindi deciso di fare retromarcia per chiedere spiegazioni del gesto a quello strano passante. Dalla discussione è nata la colluttazione, cui la giovane ha raccontato di aver assistito da una certa distanza. L’aggressore ha impugnato improvvisamente un coltello e ha colpito Lorusso. Secondo la Bayrische Rundfunk (una delle più importanti emittenti radiofoniche tedesche), l’ingegnere è morto per una ferita al cuore. La ragazza ha subito chiamato i soccorsi, chiedendo anche aiuto ai passanti. Quando Lorusso è stato raggiunto dai soccorritori dell’ospedale era ancora in vita, ma è morto dopo il ricovero nell’unità di rianimazione. La polizia tedesca nel pomeriggio ha lavorato su un identikit dell’aggressore e non esclude che possa trattarsi di un italiano.

Gli investigatori stanno cercando di rintracciare le persone che alle 22 dell’altra notte erano nelle vicinanze del «Corneliusbrücke », il Museo Tedesco, luogo non lontano dalla scena del crimine. È da lì che partono le indagini per rintracciare l’assassino.

Bari, operazione contro affiliati del clan Parisi




BARI – I Carabinieri del comando Provinciale di Bari stanno conducendo da qualche ora un’operazione, coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia finalizzata a disarticolare un presunto gruppo criminale, di cui farebbero parte – secondo quanto accertato dagli investigatori – persone ritenute vicine al clan Parisi, tutte accusate di essere dedite all’usura ed alle estorsioni, commesse con l’aggravante del metodo mafioso, ai danni di imprenditori dell’area di Triggiano (Bari). Sono in corso di esecuzione una decina di provvedimenti cautelari, emessi dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bari.

L’indagine ha già consentito di eseguire il 20 dicembre 2012 un decreto di fermo del pubblico ministero nei confronti di Savino Parisi, 52enne, ritenuto capo dell’ organizzazione mafiosa radicata nel quartiere Japigia di Bari, al quale è stata contestata un’estorsione con l’aggravante di aver agito avvalendosi delle condizioni previste dall’art.416 bis c.p., per aver costretto gli stessi imprenditori a consegnargli monili in oro, preziosi e orologi di pregio, per un valore complessivo di 100mila euro, a fronte di pregressi debiti a tasso usurario non corrisposti.

Agguato a Taranto ucciso esponente del «clan Modeo»


Fermati due fratelli


TARANTO – E' morto nella sala rianimazione dell’ospedale Santissima Annunziata di Taranto Antonio Santagato, di 57 anni, il pregiudicato ferito con alcuni colpi di pistola in un agguato avvenuto questa mattina, poco prima delle 9, in via Mazzini. Uno dei proiettili aveva raggiunto la vittima alla spina dorsale. La polizia sarebbe già sulle tracce del killer.

Al vaglio degli agenti della squadra mobile della Questura di Taranto che indagano sull'omicidio ci sono i filmati delle telecamere di videosorveglianza posizionate nei pressi di una tabaccheria, che avrebbero ripreso l’agguato.

Santagato stava scendendo dal marciapiede quando è stato colpito alle spalle. A sparare sarebbe stato un uomo che è poi fuggito a piedi. Il 57enne negli anni Ottanta era ritenuto un personaggio di spicco della criminalità tarantina. E’ stato condannato nel maxiprocesso Ellesponto, che ha ricostruito gli anni della guerra di mala tra il clan dei fratelli Modeo e il clan De Vitis.

In seguito all'omicidio s
ono in corso a Taranto perquisizioni e interrogatori di persone informate sui fatti e pregiudicati sospettati di aver preso parte all’agguato in cui è stato ucciso oggi Antonio Santagato.

Secondo le prime ricostruzioni ad agire sarebbero state due o tre persone che hanno atteso l'uomo all’uscita della sua abitazione di via Mazzini. Secondo quanto hanno accertato sinora, gli investigatori ritengono che gli aggressori sapessero che il 57enne si sarebbe recato a piedi in uno studio medico. Sono stati sparati cinque colpi con una pistola di piccolo calibro, uno dei quali ha raggiunto l’uomo ad una spalla, provocandogli la perforazione di un polmone. Santagato stava scontando una condanna per omicidio ed era agli arresti domiciliari per motivi di salute.

IN SERATA FERMATI DUE FRATELLI
Due fratelli, commercianti ambulanti, sono stati fermati dalla polizia per l’omicidio di Santagato, ucciso con colpi di pistola questa mattina in via Mazzini angolo via Pupino, nel centro cittadino. Uno dei due fermati avrebbe confessato cercando di scagionare il fratello. I due sospettati, che erano stati condotti in Questura nel primo pomeriggio, sono stati interrogati dal procuratore aggiunto, Pietro Argentino.

In carcere sono finiti Giovanni e Salvatore Pascalicchio, di 24 anni e 20 anni, residenti al quartiere Paolo VI.
Salvatore, a quanto si è saputo, avrebbe confessato, facendo ritrovare l’arma del delitto e sostenendo l'estraneità del fratello. I due sono titolari di una bancarella di cozze e, a quanto pare, avevano litigato più volte, in passato con la vittima.

IL QUESTORE: UNA RISPOSTA ALL'EMERGENZA
“Abbiamo dato una risposta immediata a un episodio che poteva generare allarme sociale” ha detto il questore di Taranto Enzo Mangini nel corso di una conferenza stampa tenutasi in serata e a cui ha partecipato anche il procuratore Franco Sebastio. I due fermati rispondono di concorso in omicidio volontario, porto e detenzione illegale di pistola. L’arma è stata ritrovata e sequestrata. “La metodica dell’omicidio – ha sottolineato Sebastio - ricorda gli anni bui della guerra di mala”.

Caserta, la città abusiva svenduta alle giovani coppie napoletane




Otto fabbricati, 1440 appartamenti, non uno straccio di
servizio: tutti abusivi e sequestrati in provincia di Caserta



Caserta. «Una città fantasma» venuta su in pochi anni con una maxi-speculazione e senza uno straccio di servizio per i cittadini, palazzine costruite a ridosso dei tralicci dell'alta tensione con evidenti rischi per la salute dei residenti. Così il pm di Santa Maria Capua Vetere, Patrizia Dongiacomo, parla nella sua inchiesta di Orta di Atella, il comune del Casertano dove oggi i carabinieri di Aversa hanno sequestrato otto fabbricati per un totale di 1440 appartamenti, tutti abusivi, costruiti in base a permessi amministrativi illegittimi.

Ventinove le persone indagate. Dovranno rispondere di concorso in abuso d'ufficio e lottizzazione abusiva, in particolare responsabili e dipendenti dell'ufficio tecnico del comune, imprenditori edili del Casertano e del Napoletano alcuni dei quali, è emerso, in rapporti con i clan della camorra. Non ci sarebbero politici indagati: gli stessi magistrati hanno esplicitamente escluso il coinvolgimento dell'attuale sindaco Angelo Brancaccio, primo cittadino anche tra la fine degli anni '90 e gli inizi del 2000.

L'amministrazione atellana comunque, proprio in questi giorni, proverà a riportare la situazione nell'alveo della legalità. La giunta dovrebbe approvare il nuovo Puc (Piano Urbanistico Comunale, ndr), per il cui varo bisognerà attendere ancora qualche mese. Le abitazioni, è emerso dalle indagini coordinate anche dal procuratore aggiunto Luigi Gay, sono state acquistate in particolare da persone provenienti dal Napoletano, soprattutto giovani coppie, attirate dal basso prezzo, in media 100 mila euro (1000 euro a metro quadro, ndr); così in pochi anni la popolazione è raddoppiata attestandosi a quota 20mila residenti.

Un'urbanizzazione selvaggia su suoli su cui il Prg emanato negli anni '90 prevedeva solo insediamenti con destinazione produttiva, commerciale o turistica, come è possibile constatare dai tralicci dell'alta tensione che spuntano tra i fabbricati. Eppure tra la consapevolezza di tanti sono venuti su centinaia di appartamenti. «Mancano le scuole, le fognature, i giardini, ci sono difficoltà di raccordo tra le strade» ha spiegato il pm Dongiacomo in conferenza stampa.

I permessi sono stati rilasciati in mancanza di un piano di lottizzazione ma in base a delibere di giunta emanate tra il 2001 e il 2005 che recavano varianti al Prg; si trattava però di provvedimenti illegittimi in quanto mai portati, come prescrive la legge, all'attenzione della Provincia per l'approvazione finale. «Sicuramente ci dispiace per i tanti inquilini che hanno acquistato le case in buona fede - ha affermato il procuratore aggiunto Gay - ma non potevamo restare fermi di fronte a illegittimità così gravi». Per il momento i residenti resteranno nelle loro abitazioni. Tra gli immobili sequestrati per un valore di 75 milioni di euro anche dei negozi e una grande sala giochi.

Napoli, Cassazione annulla due condanne per omicidio

 «Non sono i killer della pescheria»



di Leandro Del Gaudio
 Assolti dopo dieci anni, ritenuti innocenti in extremis, al termine dell'ultimo snodo giudiziario. È stata la sesta sezione della corte di cassazione a scagionare i fratelli Luigi e Salvatore Luongo, condannati in primo e in secondo grado a ventinove anni ciascuno, come i killer che entrarono in azione in una pescheria del rione Mercato.

Un annullamento delle due condanne depositato la scorsa notte in Cassazione, che non prevede il rinvio ad un'altra udienza. Le due assoluzioni vanno ritenute definitive. Dieci anni fa - era il 16 febbraio del 2003 - furono massacrati per errore Filippo Ciletti e Gennaro Manfredi, due impiegati della pescheria del rione Mercato, che non erano il vero obiettivo dei killer.

Riuscì infatti a sfuggire ai proiettili il titolare del negozio, grazie alla prontezza di riflessi e a un vetro blindato che proteggeva il vano interno dell'esercizio commerciale. Da allora furono arrestati i fratelli Luongo, ritenuti affiliati ai Reale-Rinaldi e condannati come esecutori materiali del duplice delitto in assise e in assise appello. Difesi dal penalista Saverio Senese, ieri i due imputati Luongo sono stati scagionati.

Decisivo un interrogatorio del pentito Giuseppe Misso jr (nipote omonimo dell'ex boss della Sanità), che spiegò un retroscena inedito: fu la camorra dei Mazzarella a spingere un testimone ad accusare i due Luongo, attraverso un riconoscimento informale poi finito a dibattimento. Un retroscena che venne rivelato a Misso jr da Edoardo Bove, ex boss di forcella, ucciso qualche anno fa in vico Sant'Agostino alla zecca: la camorra - ha spiegato il pentito - voleva sbarazzarsi di quei due, costruendo una finta prova da dare in pasto ai giudici.

Maltrattamenti nell'asilo, maestra arrestata


 Filmata mentre picchia a trascina i bimbi come sacchi della spazzatura



BARLETTA - Li colpisce, li trascina come sacchi, li scaraventa sui banchi, pesta i loro piedini e le mani se camminano carponi e, davanti a un gesto affettuoso fra due bambini, reagisce con una tirata di orecchie.
Basta poco a infastidirla. Mentre, seduta a un banco, aiuta a dipingere un bambino, un altro avvicina il suo foglio. Questo le fa perdere la calma al punto da lasciare il pennello per colpire al petto il bimbo, sfilargli la sedia con violenza e lasciarlo disteso sul pavimento a piangere. Con l'altra mano tiene un panino e appena può lo morde, tanto non la turba quello che ha fatto. A questo si riferisce il capo della procura di Trani, Carlo Maria Capristo, quando raccontando ai giornalisti dell'arresto della maestra d'asilo di Barletta, 43 anni, parla di atti di una «gravità inaudita».
Il video che documenta gli abusi

L'arresto della donna è avvenuto dopo che i carabinieri, in seguito alla denuncia di alcuni genitori, hanno piazzato le telecamere nell'asilo: immagini che non lasciano dubbi. I segni di quelle percosse e del clima in cui trascorrevano il tempo a scuola, gli alunni di tre e quattro anni che hanno avuto la sfortuna di averla come insegnante, non li hanno potuti nascondere. Le mamme non avevano mai dato peso a graffi o altre tracce sul corpo dei piccoli, perchè si sa, i bambini giocano, sono vivaci e poi non si pensa, nè si immagina, che possa essere un adulto, con le sue grandi mani a tirare un braccio o colpire con forza il corpo fragile di un bambino di tre anni. La paura, però, non si confonde, e per uno di quei bambini, a gennaio scorso, ha avuto un nome, un ruolo, un volto. Quel bambino, tre anni e mezzo, ha raccontato tutto ai suoi genitori. Loro lo hanno riferito e denunciato ai carabinieri.

A quel bambino e alle sue paure, si sono aggiunte quelle di alcuni suoi compagni di classe. Una psicologa li ha ascoltati e le telecamere hanno fatto il resto. Ieri pomeriggio, i militari hanno arrestato la maestra, una 43enne del posto che insegna da oltre dieci anni, la maggior parte dei quali trascorsi in una scuola dell'infanzia privata. Era da soli tre anni che aveva cominciato a lavorare per il pubblico, ogni volta in scuole diverse, da settembre scorso in quella, alla periferia della città, dove si sono concentrate le indagini dei carabinieri. I genitori dei suoi alunni, attuali ed ex, trattengono a stento la rabbia, le colleghe dicono di non avere capito, perché - spiegano - per tre ore, ogni giorno, i bambini restano in classe con una sola maestra. Eppure le sedie fanno rumore quando cadono e anche il pianto di un bambino si sente e gli oggetti scaraventati. Tutte circostanze sulle quali saranno le indagini a fare luce.

Quattro ergastoli in Appello per la morte di Lea Garofalo


I giudici vanno oltre le richieste del pm: un solo assolto

Nel processo di secondo grado a Milano confermato il carcere a vita all'ex compagno della testimone di giustizia calabrese uccisa e bruciata in Lombardia. Massimo della pena anche per Vito Cosco, Rosario Curcio e Michele Sabatino. Giudicato credibile il pentito Venturino: per lui sconto di pena
 


QUATTRO ergastoli, una assoluzione e lo "sconto di pena" per il pentito Carmine Venturino. È questa la decisione dei giudici della Corte d’Assise d’Appello di Milano che hanno così parzialmente modificato la sentenza di primo grado nel processo per il sequestro e l’omicidio della testimone di giustizia calabrese, Lea Garofalo, uccisa a Milano il 24 novembre 2009.
Confermato il carcere a vita per Carlo Cosco, l'ex compagno di Lea. Con lui anche il fratello Vito e Rosario Curcio. Sconterà l'ergastolo anche Michele Sabatino, che secondo l'accusa era invece stato scagionato dalle dichiarazioni del pentito Carmine Venturino. I giudici non sono stati d'accordo. Assolto invece, come richiesto, Giuseppe Cosco, con la formula della "vecchia" insufficienza di prove. Per Venturino, la corte ha deciso una pena di 25 anni, accogliendo lo sconto di pena e ritenendolo quindi credibile nelle sue dichiarazioni che hanno permesso di trovare i resti del corpo di Lea.
La sentenza, in sostanza, va anche al di là delle richieste formulate dal pg Michele Tatangelo, che aveva invocato solo tre condanne a vita. In primo grado erano state sei le condanne all'ergastolo per l'omicidio della testimone di giustizia crotonese uccisa a Milano il 24 novembre 2009 e poi bruciata.
Per Denise Garofalo, la figlia di Lea, con la sentenza di secondo grado per l’omicidio della madre è stata scritta «un’altra pagina di giustizia» dopo il verdetto di primo grado del marzo 2012. Lo ha spiegato l’ avvocato Vincenza Rando, legale della ragazza che da anni vive sotto protezione dopo aver aiutato gli inquirenti nelle indagini, e che oggi ha assistito al verdetto nascosta in un corridoio vicino all’aula e dietro un paravento.   «Con i quattro ergastoli – ha spiegato l’avvocato – è stata scritta un’altra pagina di verità e in relazione all’ assoluzione di Giuseppe Cosco attendiamo di leggere le motivazioni». Il legale ha voluto ribadire inoltre che «questo non è un delitto passionale, ma si inserisce all’interno di una cultura 'ndranghetista». Infine, l’avvocato ha sottolineato ancora una volta come il pentito Carmine Venturino «ha fatto un passo importante facendo ritrovare il corpo di Lea». 

Lamezia, 4 arresti e sequestri per 25 milioni


In manette imprenditori vicini al clan Giampà

Quattro imprenditori del settore edile sono stati arrestati dagli agenti dell Dia con l'accusa di essere vicini alla cosca Giampà di Lamezia Terme e di aver messo a disposizione della 'ndrangheta le proprie aziende. Oltre agli arresti la Dia ha posto i sigilli a beni per 25 milioni di euro tra cui sei aziende riconducibili agli arrestati


LAMEZIA TERME - Alle prime luci dell’alba gli uomini della Direzione investigativa antimafia (Dia) di Catanzaro hanno fatto scattare in un’articolata operazione, denominata 'Piana', contro l’organizzazione mafiosa facente capo ai Giampà e ritenuta egemone nel comprensorio di Nicastro (Lamezia Terme). Tale attività, scaturita a seguito di indagini esperite utilizzando i contributi resi da noti collaboratori di giustizia dissociatisi dall’organizzazione, ha permesso di far luce sugli interessi economici che legano certa imprenditoria, in questo caso attiva nel comparto edile, alle consorterie mafiose. «Trattasi – spiega un comunicato della Dia – di uno scellerato accordo nel quale il modus operandi proprio della 'ndrangheta, intriso di coercizione e violenza, ha scardinato le più elementari manifestazioni di autodeterminazione degli individui, così da realizzare sulla collettività sottomessa un controllo totale ed asfissiante». La Dia ha, quindi, arrestato quattro imprenditori del settore edile accusati di essere organici alla cosca Giampà di Lamezia Terme, che ha il controllo delle attività illecite nella stessa zona. Gli imprenditori arrestati, accusati di associazione per delinquere di tipo mafioso, sono Davide Orlando (di 31 anni); Roberto Piacente (di 43 anni); Francesco Cianflone (58 anni) e Antonio Gallo (di 40 anni). Sequestrati anche beni per 25 milioni di euro. Secondo l’accusa i quattro imprenditori arrestati avrebbero messo a disposizione della cosca Giampà le aziende a loro riconducibili, operanti nel settore del calcestruzzo.
C'è anche Giuseppe Giampà, figlio di Francesco detto «il professore» e considerato il boss dell’omonima cosca, tra i collaboratori di giustizia che con le loro rivelazioni hanno contribuito all’operazione condotta dalla Dia. Giampà ha iniziato a collaborare con gli inquirenti lo scorso anno, dopo essere stato arrestato in una delle tante operazioni coordinate dalla Dda contro le cosche del Lametino.
Gli arrestati, secondo l’accusa, attraverso le attività commerciali a loro riconducibili, avrebbero «consapevolmente scelto di fare affari con la famiglia dei Giampà, stipulando, in effetti, un vero e proprio accordo sinallagmatico, foriero di positivi effetti economici per le parti». L’accordo, secondo quanto riferito in una conferenza stampa, avrebbe permesso alla cosca di insinuarsi nel mercato delle forniture edili e di controllare il settore. L’inchiesta è scaturita dalle dichiarazioni rese da alcuni collaboratori di giustizia che hanno rivelato gli interessi economici che l’imprenditoria deviata condivide con la criminalità. Il quadro che ne è scaturito evidenzia, si legge nell’ordinanza, «una dirompente anomalia, consistente nella pratica, messa in atto da taluni imprenditori, specie nel campo dell’edilizia, di rivolgersi ad un referente mafioso operante su di un determinato territorio, per ottenerne l’aiuto necessario per sbaragliare eventuali concorrenti». Sono gli stessi imprenditori, evidenziano gli inquirenti, a cercare la 'ndrangheta, realizzando un regime di monopolio che, agevolandoli, finisce per arricchire le organizzazioni criminali. Il clan Giampà sarebbe così riuscito, facendo ricorso ad attività imprenditoriali compiacenti, a penetrare il tessuto economico cittadino, divenendone incontrastata protagonista, estromettendo dal mercato tutte le realtà imprenditoriali non colluse. 

Palermo, beni per otto milioni sequestrati a 4 presunti esponenti mafiosi



PALERMO. Beni per otto milioni di euro sono stati sequestrati a Palermo a quattro presunti esponenti mafiosi coinvolti l'anno scorso nell'operazione "Atropos" culminata con 41 arresti. In carcere erano finiti uomini delle cosche dei quartieri Noce, Altarello e Cruillas accusati tra l'altro di associazione mafiosa, traffico di droga, estorsione. Ora il tribunale di Palermo ha disposto il sequestro di beni per Fabio Chiovaro, Giovanni Matina, Gaspare Bonura e Giovanni Seidita: un'impresa di costruzioni, sette agenzie di scommesse, appartamenti, magazzini, quote di società.

Le indagini hanno accerto che alcune attività facevano capo a soggetti con redditi esigui. Gli investimenti erano orientati soprattutto verso sale gioco, agenzie di scommesse, internet point, caratterizzati da una elevata velocità di circolazione del denaro. L'inchiesta ha ricostruito i nuovi assetti all'interno del mandamento della Noce affidato al reggente Franco Picone. Tra le vittime del racket c'era la casa di produzione Magnolia, realizzatrice della fiction "Il segreto dell'acqua", ma anche un'attività commerciale molto nota, quella di "Ninù 'u ballerino'', specializzata nel cibo di strada, che operava nelle adiacenze del palazzo di giustizia.

Ciancimino arrestato per evasione fiscale


Reati per circa 30 milioni di euro

E' accusato anche di associazione a delinquere ma il gip che ha disposto l'arresto non avrebbe ritenuto sussistente l'aggravante mafiosa. Ecco i nomi dei 13 coinvolti

 
 
  
PALERMO. Massimo Ciancimino è stato arrestato su ordine del gip di Bologna con l'accusa di evasione fiscale. I pm gli contestano anche l'aggravante di aver favorito Cosa Nostra. Tuttavia, secondo quanto si apprende, Bruno Perla, il gip di Bologna che ha disposto l'arresto, non avrebbe ritenuto sussistente l'aggravante dell'avere agevolato la 'ndrangheta contestata inizialmente a Ciancimino  dalla Dda di Bologna. L'aggravante traeva origine da alcune intercettazioni tra il figlio dell'ex sindaco mafioso di Palermo e Girolamo Strangi, considerato legato alla cosca Piromalli di Gioia Tauro. Nelle conversazioni Ciancimino e Strangi parlavano di affari e giri di denaro. Ciancimino adesso è stato portato al carcere Pagliarelli di Palermo.

Le indagini sono state svolte dalla guardia di finanza di Ferrara: l'operazione ha portato a 13 ordinanze di custodia cautelare, di cui nove in carcere e quattro ai domiciliari nei confronti dei componenti di un sodalizio criminoso accusato di aver posto in essere una frode fiscale nel settore della commercializzazione di metalli ferrosi. Secondo quanto si apprende a Ciancimino vengono contestati reati fiscali riferiti al periodo in cui viveva in Emili Romagna, con un'evasione calcolata in circa 30 milioni di euro.

Secondo l'accusa Ciancimino sarebbe stato titolare di fatto di alcune società che avrebbero evaso l'Iva per decine di milioni di euro. Ciancimino è uno dei testimoni chiave del processo sulla trattativa tra lo Stato e la mafia in cui è anche imputato di concorso in associazione mafiosa e calunnia all'ex capo della polizia Gianni De Gennaro. Il figlio dell'ex sindaco mafioso di Palermo è anche indagato a Palermo per detenzione di esplosivo.

I NOMI DEI 13 COINVOLTI. Sono decine i reati contestati alle persone coinvolte nella frode fiscale per la quale è finito in carcere Massimo Ciancimino. Tra questi: evasione e frode fiscale, bancarotta fraudolenta, contrabbando, mendacio bancario, sostituzione di persona, falso in scritture private, falso commesso da incaricato di pubblico servizio. Queste le tredici persone arrestate, di cui nove in carcere e quattro ai domiciliari. Quattro i promotori dell'associazione a delinquere individuati dagli inquirenti: oltre a Ciancimino, le altre menti sarebbero Patrizia Gianferrari di Riccione, sedicente rappresentante di affari, e Gianluca Apolloni di Roma, il presunto commercialista che si occupava di far "scomparire" le aziende a Panama. Con loro anche Paolo Signifredi di Parma. Gli altri cinque sono Mario Carlomagno e Mario Paletta di Potenza, Massimiliano Paletta di Ferrara, Valter Lotto di Reggio Emilia e Ennio Ferracane di Bergamo. Ai domiciliari sono finiti Giulio Galletto di Rovigo, Armido Manzini di Modena (che era l'uomo incaricato di cercare aziende inattive da riutilizzare per le frodi dell'associazione), Elena Rozzanti di Ferrara e la marocchina Etois Safà.

PALERMO. «L'indagine nell'ambito della quale Ciancimino è stato arrestato è del 2009 e il mio cliente ha collaborato con i magistrati all'epoca». Lo ha detto l'avvocato Roberto D'Agostino legale di Massimo Ciancimino, arrestato dal Gip di Bologna per evasione fiscale. «Ciancimino - ha aggiunto - non è il titolare delle società finite sotto inchiesta, ma svolgeva semplicemente attività di intermediazione nella vendita dell'acciaio e ha aiutato i magistrati nelle indagini sull'evasione». «Originariamente - ha spiegato - l'indagine era del Pm di Ferrara, poi, sulla base di una mera ipotesi dell'esistenza di rapporti con la 'ndrangheta, è stata trasmessa alla Dda di Bologna che ha fatto la richiesta di misura cautelare al Gip. Il Gip l'ha accolta, ma è caduta l'aggravante mafiosa: per questo il giudice si è spogliato del procedimento che tornerà, per competenza, alla procura di Ferrara che ha 20 giorni per reiterare la richiesta di arresto».

"Violentati e venduti due nipoti di 7 e 8 anni", arrestati nonni-orchi a Messina



MESSINA. Li avrebbero violentati, venduti per pochi euro ad amici e conoscenti, fotografati durante questi squallidi incontri, segregati in casa e ridotti ad essere dei piccoli schiavi del sesso. Un bambino di sette anni e la sorellina di otto sarebbero le vittime di questo ennesimo caso di pedofilia tra le mura domestiche. Sì, perché gli «orchi» che li avrebbero costretti a subire abusi di ogni genere erano i nonni dei due fratellini. A mettere fine a questa incredibile storia di violenze è stata la polizia, che ha arrestato a Messina i due coniugi, lui di 65 anni e lei di 50, insieme a un loro complice di trent' anni. Le accuse nei loro confronti sono pesantissime: oltre alla violenza sessuale nei confronti dei minori vengono infatti contestati i reati di pedopornografia e riduzione in schiavitù. L'ordinanza di custodia cautelare in carcere è stata emessa dal gip del tribunale di Messina Maria Vermiglio su richiesta del pm Liliana Todaro. L'inchiesta, scattata in seguito alle segnalazioni dei docenti della scuola e dei servizi sociali, ha messo in luce lo stato di miseria e di profondo degrado in cui vivevano i due fratellini, affidati ai nonni materni dopo la morte della madre perché il padre aveva problemi di droga. A cominciare dall'abitazione fatiscente del centro storico di Messina, priva dei più elementari requisiti igienico sanitari, dove abitava la famiglia. È questo lo scenario che avrebbe fatto da sfondo a violenze continue e ripetute. Secondo gli investigatori, i piccoli sarebbero stati costretti per diverso tempo dai nonni e dall'uomo di trent'anni, conoscente della coppia, ad avere rapporti sessuali completi. I due coniugi avrebbero inoltre «offerto» i nipotini, in cambio di denaro, anche ad altre persone, scattando delle foto durante gli abusi. Le indagini sono state avviate nel 2009 quando i due fratellini manifestarono disagi comportamentali rilevati prima dagli insegnanti della scuola che frequentavano e poi dagli assistenti sociali. Dopo queste segnalazioni, nel corso di una serie di incontri con alcuni psicologi, i due bambini hanno cominciato a confidarsi rivelando a poco a poco gli abusi che avevano subito. Violenze poi confermate anche dagli esami medici. Oggi gli arresti che hanno portato in carcere quegli «orchi» cattivi, come li descrivevano i fratellini nei loro racconti.

Baby-squillo ad Enna: la lista del peccato

Dettagli sui clienti della ragazzina sfruttata dalla zia per mantenere casa in affitto, vizio delle sigarette e delle sale da gioco

 
  di JOSE' TROVATO
ENNA. La lista dello squallore, l'elenco dei clienti che sarebbero andati a letto con una baby prostituta di Enna, indotta a vendere il proprio corpo con alcuni di loro a soli 15 anni, si chiude con tredici nomi. A loro, e alla presunta sfruttatrice, il sostituto procuratore della Dda di Caltanissetta Maria Pia Ticino ha fatto notificare l'avviso di conclusione delle indagini preliminari. L'indagine, condotta dalla squadra mobile, si chiude con quattordici indagati, ma non è l'unica novità arrivata dall'avviso di fine indagine. Gli incontri sessuali a pagamento si sarebbero consumati a Enna, Calascibetta, Villarosa, Campobello di Licata, nell'Agrigentino, a Misterbianco e Catania, dal dicembre del 2011 al settembre dell'anno successivo, quando scattò l'operazione degli uomini della sezione crimini sessuali della Mobile, diretta dal vicequestore Giovanni Cuciti.

A settembre la ragazzina fu allontanata dalla "zia" e portata in comunità, in un'altra provincia. Lei, spiegarono gli inquirenti, la sfruttava per mantenere un tenore di vita "regolare", con tanto di casa in affitto, vizio delle sigarette e delle sale da gioco, benché formalmente vivesse solo di alcuni sussidi comunali. La ragazzina, insomma, sarebbe finita al centro di un lenocinio gestito da una maitresse quarantenne, sua lontana parente, che l'avrebbe avviata al mestiere più antico facendola partecipare agli incontri e poi mandandola sola. Così l'indagine "Pandemia", che portò inizialmente in carcere la presunta sfruttatrice, oggi ai domiciliari, e all'emissione di numerosi avvisi di garanzia, si chiude con quattordici indagati, tra cui due ultrasettantenni. E ci sono anche quattro clienti provenienti dalle province di Catania e Agrigento.

Fra i quattordici, com'è ovvio, c'è anche la presunta sfruttatrice, L.B., ennese di 41 anni, difesa dall'avvocato Franco Puzzo del foro di Catania. Gli altri indagati sono gli ennesi L.A. di 51 anni, P.T. di 70, L.P. di 58, G.T. di 62, A.C. di 56, S.P. di 41, L.F. di 43 e G.C. di 67, lo xibetano C.B. di 77 anni; i catanesi F.A., 56 anni di Ramacca e F.M., 65 anni di Belpasso; e gli agrigentini C.C. di 49 anni e M.A. di 74 di Campobello di Licata. In quattro, L.A., G.T., P.T. e L.P., sono accusati di esser stati con la ragazzina prima ancora che compisse i sedici anni. I presunti clienti sono difesi dagli avvocati Michele Baldi, Gabriele Cantaro, Giuliana Conte, Mario Costa, Francesco Costantino, Michela Lapertosa, Giovanni Lo Leggio, Salvatore Ganci, Giovanni Palermo, Alessandro Faraci, Salvatore Manganello e Mario Mangiapane. La maggior parte degli indagati, perlopiù operai, camerieri, pensionati e agricoltori, ma c'è anche un sindacalista, poche settimane fa sono stati riconosciuti direttamente da lei, la ragazzina, che ha fatto il loro nome o li ha descritti, nel corso di un incidente probatorio. Adesso gli indagati hanno 20 giorni di tempo per depositare memorie difensive, chiedere al pm di essere interrogati o di rilasciare spontanee dichiarazioni o chiedere nuovi atti di indagine.

Incendiavano terreni del Calatino, due arresti per estorsione


CATANIA. Appiccavano incendi a proprietà di imprenditori del Calatino per convincerli ad affidarsi al  loro sistema di 'guardiania'. E' l'accusa contestata da carabinieri della compagnia di Palagonia che hanno arrestato due persone per estorsione.

Sono Felice Cicero, di 28 anni, di Caltagirone, e Roberto Saitta, di 36, di Castel di Iudica, destinatari di un'ordinanza di custodia cautelare in carcere emesso dal Gip di Catania su richiesta della Procura distrettuale etnea. Analogo provvedimento è stato notificato a due persone già detenute per analoghi reati: Febronio Olivia, di 52 anni, di Palagonia, e Francesco Compagnino, di 39 anni, di Ramacca.

Le indagini dell'operazione, denominata 'Venom 2', era stata avviata da carabinieri nel maggio del 2012 dopo la denuncia di una delle vittime. Il gruppo per convincere le vittime a pagare le minacciavano pesantemente, passando in alcuni casi alle vie di fatto con furti di automezzi e incendiando strutture e veicoli dei malcapitati.

Traffico internazione di droga, 15 arrestati e altri due irreperibili



CATANIA. Sono diciassette le persone destinatarie dell'ordinanza di custodia cautelare emessa dal Gip su richiesta della Procura distrettuale di Catania. La squadra mobile ha arrestato quindici delle persone indagate, mentre due sono al momento irreperibili. I provvedimenti restrittivi sono stati eseguiti dalla polizia nei confronti di: Antonino Aurichella, di 33 anni, di Catania, già detenuto; dei fratelli catanesi Domenico e Santo Querulo, di 44 e 35 anni, ritenuti ai vertici dell'associazione, residenti a Carpi (Modena); del napoletano Antonio Carbone, di 50 anni, già agli arresti domiciliari; Rocco Saverio Lo Sasso, 64 anni, di Salerno, già detenuto; Federico Sepe, di 37 anni, di Melito di Napoli; Gianpaolo Chianese, 33 anni, di Qualiano (Napoli); Errico Di Palma, di 29 anni, di Napoli, già detenuto; Gaetano Bagnato, di30 anni, di Catania; Giuseppe Bosco, di 35, di Catania; Gennaro Daniele, di 34, di Napoli, già ai domiciliari; Maurizio Feleppa, di 53 anni, di San Leucio del Sannio (Benevento), già detenuto; Concetto Anthony Gagliano, di 23 anni, di Catania; Antonio Parisi, di 42 anni, di Giugliano in Campania, già detenuto; e Giuseppe Soriato, di 41 anni, di Mugnano di Napoli, già detenuto. Tutti sono indagati per associazione per delinquere finalizzata al traffico e allo spaccio di sostanze stupefacenti. A Antonino Aurichella e ai fratelli Domenico e Santo Querulo è contestata anche l'aggravante di avere agevolato il clan mafioso Cappello-Bonaccorsi di Catania. A casa di Bosco sono stati trovati 43mila euro in contanti e circa 1,6 chili di cocaina. Agli atti dell'inchiesta della Dda della Procura etnea sono confluite le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Vincenzo Fiorentino. A seguito di indagini e accertamenti la polizia ha compiuto due grossi sequestri di cocaina: 30 chili nel giugno del 2009 e altri sei chili nel dicembre dello stesso anno.

Traffico di droga sull’asse Spagna-Napoli-Catania

Sgominata una banda: arresti anche a Caserta, Modena e Perugia. Per alcuni degli indagati l’aggravante di avere agevolato l'attività del clan Cappello-Bonaccorsi

 


CATANIA. Una banda di presunti trafficanti internazionali di droga che secondo le indagini agiva sull'asse Spagna-Napoli-Catania è stata sgominata da un'operazione della squadra mobile coordinata dalla Procura Distrettuale della Repubblica etnea. Arresti, in esecuzione di un'ordinanza di custodia cautelare in carcere tra Catania, Napoli, Caserta, Modena e Perugia. Il reato contestato, a vario titolo, è di associazione per delinquere finalizzata al traffico internazionale di sostanze stupefacenti con l'aggravante, per alcuni degli indagati, di avere agevolato l'attività dell'associazione mafiosa del clan Cappello-Bonaccorsi.
Sono diciassette le persone destinatarie dell'ordinanza di custodia cautelare emessa dal Gip su richiesta della Procura distrettuale di Catania. La squadra mobile ha arrestato quindici delle persone indagate, mentre due sono al momento irreperibili. Al centro dell'inchiesta, denominata 'Bisonte II', un traffico internazionale di cocaina importata dalla Spagna in Italia attraverso canali napoletani, e dalla Campania poi rivenduta in Sicilia, attraverso collegamenti con la cosca Cappello-Bonaccorsi.    L'operazione rappresenta lo sviluppo delle indagini della squadra mobile della Questura di Catania sul sequestro, avvenuto il 19 giugno del 2009, di 30 chilogrammi di cocaina e 4 pistole.
Secondo gli investigatori le armi erano un 'omaggio' dei Marano, gruppo scissionista di Scampia, per ringraziare il clan catanese dei Cappello che era uno dei loro migliori clienti. Cocaina e pistola erano nascoste nel sottofondo di un rimorchio di un Tir, che doveva trasportare agrumi, guidato dal napoletano Rocco Saverio Lo Sasso, di 60 anni, incensurato ,che in quell'occasione fu arrestato in flagranza di reato dalla polizia.

Mafia, maxi-operazione «Apocalisse»


Un’assoluzione e quattro condanne

La corte ha assolto Giancarlo Buggea, 44 anni, di Canicattì, che era stato condannato in primo grado, dal Gup di Palermo, a 3 anni e 4 mesi di reclusione

 

di GERLANDO CARDINALE
AGRIGENTO. Cinque condanne e due assoluzioni: la Corte d’appello modifica ampiamente la sentenza del processo "Apocalisse", scaturito dall'inchiesta su mafia e riciclaggio in alcuni comuni della Provincia. In primo grado furono condannati solo in tre: a Salvatore Paci, 61 anni, erano stati inflitti quattro anni per l'accusa di intestazione fittizia di beni: secondo la Dda aveva favorito l'investimento del boss Giuseppe Falsone nella discarica di Campobello. Era stata pure disposta la confisca dell'ottanta per cento del capitale sociale della ditta Laes. Condanne pure per altri due imputati ma non per tutti i capi di accusa. Giancarlo Buggea, 40 anni, di Campobello, già condannato per mafia, era stato ritenuto colpevole (3 anni e 4 mesi è la pena) di avere fatto un investimento occulto in un'azienda agricola. Tre anni e otto mesi erano stati inflitti a Gioacchino Francesco Cottitto, 44 anni, di Palma di Montechiaro, accusato di intestazione fittizia di beni e riciclaggio. In primo grado era stata decisa l'assoluzione per gli altri quattro imputati: Pino Gambino, 40 anni, di Ravanusa, era stato prosciolto dall'accusa di associazione mafiosa e intestazione fittizia di beni. In particolare era ritenuto il capomandamento di Campobello di Licata, paese di cui è originario il boss Falsone. L'assoluzione "per non avere commesso il fatto" era stata decisa anche per Giovanni Marino, 44 anni, originario di Canicattì ma residente a Campobello di Licata; e Calogero Paci, 36 anni, di Campobello di Licata. La Corte presieduta dal giudice Marraffa ha modificato sensibilmente il verdetto. Gambino è stato condannato a 8 anni di reclusione. Quattro anni e quattro mesi per Bonanno; due anni e otto mesi a Marino. Pena ridotta a 3 anni per Cottitto: la Corte ha accolto in parte le tesi dei difensori, gli avvocati Antonino Gaziano e Giuseppe Vinciguerra, e ha escluso l'aggravante del favoreggiamento a Cosa Nostra. Assoluzione parziale anche per Salvatore Paci (difeso dagli avvocati Gaziano e Manganello) la cui pena finale diventa di 2 anni e 8 mesi. Assoluzione da tutte le accuse per Buggea: la Corte ha accolto l'appello dei difensori Giovanni Castronovo e Lillo Fiorello e ha cancellato la condanna. Confermata l'assoluzione di Calogero Paci, figlio di Salvatore. L'inchiesta, sfociata il 26 marzo del 2010 nel blitz dei carabinieri, avrebbe accertato la presenza invasiva di Cosa nostra in settori strategici dell'economia.

Casteltermini, mafia: sequestrati beni per 4 milioni a imprenditore


AGRIGENTO. Terreni, appartamenti, fabbricati rurali e varie beni finanziari, del valore complessivo di oltre 4 milioni di euro, sono stati sequestrati dalla Guardia di Finanza, in esecuzione di un provvedimento antimafia emesso dal Tribunale di Agrigento su richiesta della Procura della
Repubblica di Palermo. I sigilli sono stati apposti al patrimonio di un imprenditore agricolo, Vincenzo Scavetto, già titolare di un allevamento di bovini, arrestato nel 2011 per associazione mafiosa e poi rinviato a giudizio e condannato in primo grado nel 2012, per lo stesso reato, a dieci anni di reclusione, per aver fatto parte, in concorso con i boss Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella, Michele Traina della cosca agrigentina di Casteltermini.

Secondo collaboratori di giustizia,  l'imprenditore  avrebbe favorito la latitanza di diversi esponenti di Cosa nostra, come Salvatore Fragapane, già rappresentante provinciale di Agrigento, arrestato nel 1995 dopo una latitanza durata tre anni, di Giuseppe Cammarata di Riesi e Raimondo La Mattina di Campofranco. Dopo l'arresto di Fragapane, l'imprenditore avrebbe consolidato, secondo l'accusa, la propria posizione diventando per il territorio di Casteltermini uno dei "punti di riferimento" dell'organizzazione, per conto della quale avrebbe anche mediato nella gestione del "pizzo" imposto ad una impresa edile di Favara, impegnata nelle opere di ammodernamento della strada provinciale Casteltermini - San Biagio".

domenica 26 maggio 2013

L'omicidio di Corigliano

«L'ho uccisa io», confessa il fidanzato di Fabiana
La sedicenne accoltellata e bruciata dopo una lite

Drammatica soluzione per la scomparsa della giovane sparita dopo essere stata a scuola a Corigliano. Il fidanzato diciassettenne ammette le sue responsabilità dopo un lungo interrogatorio e parla di un rapporto travagliato 

 
di SAVERIO PUCCIO
CORIGLIANO (Cosenza) - Una lite, forse per gelosia, comunque innescata in un rapporto logorato che aveva, come è giusto che sia soprattutto in adolescenza, i suoi momenti alti e quelli più grigi. Fabiana Luzzi, sedicenne studentessa di ragioneria, è morta per questo. Per una follia. Per l'ennesima violenza da parte di un uomo, in questo caso un giovane diciassettenne che da qualche tempo frequentava la sua coetanea. Qualcosa non è andato per il verso giusto nel primo pomeriggio di venerdì. Fabiana è uscita da scuola, a Corigliano Calabro, ha salutato le amiche e poi più nulla. I genitori hanno atteso prima di lanciare l'allarme. Avevano pensato ad un ritardo come tanti. D'altronde, Fabiana non era nuova a qualche momento "di sana follia". Lo scorso anno aveva raggiunto alcuni amici a Bologna, ma poi tutto era rientrato. Quando, però, il ritardo è cresciuto, è scattato l'allarme. Immediate le ricerche dei carabinieri della locale Compagnia.
 
Ed è a questo punto che i militari incrociano alcuni dati. Fabiana era scomparsa venerdì, e proprio quel pomeriggio un giovane diciassettenne si era presentato in ospedale con alcune ustioni. Prima aveva detto di essere caduto con il motorino, poi altre scuse. Le ricostruzioni sui rapporti personali della sedicenne offrono uno spaccato diverso. Il ragazzo ha una relazione con quella giovane scomparsa. Ed allora, inizia un lungo interrogatorio. Durante il quale il giovane parla di un'aggressione subita. Fa anche i nomi, ma poco dopo crolla sotto il peso delle sue responsabilità. Al pm della Procura di Rossano Maria Vallefuoco, che lo ha interrogato su delega della Procura dei Minori, alla presenza dei legali di fiducia e dei carabinieri, ha detto di avere accoltellato la fidanzatina al termine di una lite nata per il rapporto travagliato che esisteva tra loro. Un rapporto ripreso da poco e caratterizzato da gelosie reciproche. Dopo averla accoltellata, avrebbe detto il giovane, studente in un istituto diverso da quello della vittima, ha dato fuoco al corpo della ragazzina. È stato lui a indicare il luogo di campagna dove è avvenuto il macabro ritrovamento.
Là dove qualcuno è arrivato per depositare un fiore e piangere quella giovane vita spezzata. «Fabiana amava tanto la vita», dicono tra i singhiozzi i suoi amici. Qualcuno critica invece i comportamenti del giovane amore che si è trasformato in omicida e parla di violenze. Ricostruzioni segnate da rabbia e dolore, ma anche da tanta incredulità. Nelle prossime ore il magistrato deciderà su come proseguire rispetto alla misura da applicare al giovane minorenne, che intanto è stato sottoposto a fermo con l'accusa di omicidio volontario. Intanto, Corigliano vive una pagina drammatica della sua storia, con le foto di Fabiana che descrivono con chiarezza la semplicità e la dolcezza di quella sedicenne morta carbonizzata.

Una città sotto shock, rabbia davanti la caserma
L'incredulità degli amici della sedicenne uccisa

Una folla si è radunata davanti la Compagnia dei carabinieri per avere notizie sull'accaduto, qualcuno ha anche urlato imprecazioni contro il ragazzino responsabile del gesto. Tra la folla tanti giovanissimi, molti dei quali in lacrime
 


CORIGLIANO CALABRO (Cosenza) - «Dovrebbero ammazzarlo. È troppo grave quello che ha fatto». La rabbia di Corigliano Calabro contro il sedicenne che ha ucciso a coltellate la fidanzata coetanea, bruciandone poi il cadavere, si esprime attraverso le grida di uno degli abitanti che davanti al bar centrale del paese esprime tutto il suo rancore. 
La popolazione di Corigliano è traumatizzata per quanto è accaduto. Un dolore che si esprime attraverso le imprecazioni contro l’omicida. Ci sono capannelli di persone che commentano l’omicidio della minorenne lungo via Nazionale, il corso del paese che brulica di gente anche per la coincidenza con la giornata elettorale visto che a Corigliano oggi e domani si vota per il sindaco ed il rinnovo del Consiglio comunale. «Sono rimasta shoccata – commenta una ragazza romena che riferisce di lavorare in un locale vicino l’abitazione della vittima – perchè quello che è accaduto è terribile, una vera tragedia». 
Nella serata di sabato, una folla di alcune centinaia di persone si era radunata davanti la sede della Compagnia dei carabinieri di Corigliano Calabro, dopo che in città si era diffusa la voce del ritrovamento della sedicenne Fabiana Luzzi scomparsa venerdì pomeriggio dopo l’uscita da scuola. Inizialmente sono stati i compagni di scuola ed amici della ragazzina a presentarsi, soprattutto per avere notizie, poi la folla è cresciuta e, quando sono cominciate a circolare le prime voci sul fatto che la sedicenne era stata uccisa, sono state sentite grida di imprecazione e ci sono stati momenti di tensione. 
La situazione, comunque, è rimasta sostanzialmente tranquilla. Tra l’altro, il fidanzatino della ragazza, fermato e sottoposto ad un lungo interrogatorio, è stato sentito in una caserma dei carabinieri diversa da quella che ospita la Compagnia. Col passare delle ore, la gente ha poi cominciato ad allontanarsi. La famiglia della vittima è stata definita "di persone per bene" da quanti erano presenti nello spiazzo della caserma. C'è soprattutto rabbia, ma anche incredulità tra la gente di Corigliano che si è svegliata domenica mattina anche con l'incombenza delle elezioni comunali, fissate dopo un lungo periodo di commissariamento per infiltrazioni mafiose. Un appuntamento che doveva coinvolgere l'intera popolazione, che invece è stata travolta da una notizia a cui molti, a partire dagli amici della giovane vittima, molti dei quali in lacrime, che dicono di non riuscire a credere.
 

sabato 25 maggio 2013

Mega-sequestro da 8 miliardi ai Riva.


Lo scandalo Ilva è il doppio dell'Imu

Sigilli a 8,1 miliardi di euro. "Accumulati ai danni dei tarantini". Il Gip: "L'azienda ha ottenuto negli anni un indebito vantaggio economico a scapito di popolazione e ambiente"


di ADRIANO SOFRI

TANTO piovve, che diluviò. In applicazione di una legge del 2001 che prevede "la confisca del profitto che l'ente ha tratto dal reato, anche nella forma per equivalente", la Gip Patrizia Todisco, accogliendo la richiesta della Procura di Taranto, ha deciso un sequestro senza precedenti: non degli impianti o dei prodotti, come già avvenuto, ma del patrimonio dei Riva, nella misura enorme di 8 miliardi e 100 milioni. Per intenderci, il doppio della restituzione dell'Imu... Qualunque decisione prenda il consiglio d'amministrazione convocato per stamattina, non c'era e non c'è un futuro per l'Ilva con la proprietà dei Riva. Il decreto "salva-Ilva", in vigore da dicembre, prevedeva, in caso di inadempienza, fino al passaggio all'amministrazione straordinaria. Fumo negli occhi, allora, diventato ora reale e urgente, e passato da Clini e Passera a Orlando e Zanonato.

Un'amministrazione straordinaria con una ridotta continuità produttiva e una effettiva bonifica costa. I miliardi sequestrati (ammesso che la Finanza li trovi tutti) non sono comunque disponibili, e il saldo dei materiali dissequestrati  -  circa 800 milioni  -  non basta. Se l'imminente piano europeo, cui lavora l'italiano Tajani, prevedesse uno speciale finanziamento bancario, non lo attuerebbe comunque, con lo spauracchio di un sequestro così enorme, senza un impegno del governo. Intanto nelle 46 fitte pagine del decreto di sequestro si trova una raccapricciante illustrazione del funzionamento di una grandissima fabbrica, e

della sua influenza sull'umanità di dentro e di fuori. La città di Taranto è la piccola appendice di un gigantesco monnezzaio.

Il provvedimento tocca i responsabili delle misure di prevenzione degli "incidenti rilevanti" (che mettono a repentaglio immediato o futuro persone e ambiente dentro e fuori da uno stabilimento, coinvolgendo più sostanze pericolose), della sicurezza dei lavoratori, e della tutela di ambiente e popolazione. Sono Emilio Riva e i figli Nicola e Fabio, l'ex direttore Capogrosso, il dirigente Archinà (indagati anche per associazione a delinquere, tutti già agli arresti, salvo Fabio latitante a Londra), il presidente Ferrante, i dirigenti Andelmi, Cavallo, Di Maggio, De Felice, D'Alò, Buffo, Palmisano, Dimastromatteo.

Fra i reati loro imputati, commessi fra il 1995 e oggi, si cita l'omissione di un piano di emergenza nell'eventualità di un incidente rilevante: a un'obiezione su questo punto, responsabili dell'Ilva replicarono che il rischio di incidente rilevante equivaleva a zero, e questo avvenne alla vigilia del giorno del tornado! Si sottolinea come l'azienda abbia ignorato le disposizioni dei custodi nominati dal giudice. Si ricorda la morte di tre operai nel giro di pochi mesi. La lista è lunga: emissioni cospicue nell'area dei rottami ferrosi; sversamento delle scorie liquide di acciaieria sul terreno non pavimentato; rilascio di sostanze tossiche dovute allo "slopping" e al "sovradosaggio ossigeno" (è il fenomeno che provoca i fumi di colore rosso cupo, per gli ossidi di ferro non smaltiti nell'impianto di aspirazione); frequenti emergenze all'acciaieria, ai rottami e agli altoforni, per le emissioni vaste e prolungate convogliate (le "torce", i camini coi bruciatori in testa) e diffuse (tetti degli altoforni); inadeguata manutenzione dei sistemi di recupero del gas in torcia ai convertitori; mancata comunicazione alle autorità delle gravi conseguenze degli incidenti; costante smaltimento di emissioni gassose equivalenti a rifiuti attraverso i sistemi di emergenza; scarico di rifiuti liquidi nel deposito fossili, immettendo inquinanti dal suolo non pavimentato alla falda superficiale e al mare; recupero di fanghi contaminati da diossine, furani e idrocarburi policiclici aromatici, o dei liquami derivati dalla pulizia dei nastri trasportatori, nel processo di sinterizzazione (la compattazione delle polveri); l'incredibile smaltimento di polvere di catrame e fanghi attivi, oltre che di loppa (il residuo della produzione di ghisa in altoforno) nei forni delle cokerie; miscelazione illegale di catrame con benzolo e naftalene, col doppio vantaggio di venderla e risparmiare le spese di smaltimento di rifiuti speciali; attuazione di vere discariche abusive di rifiuti pericolosi e di pneumatici su suoli non impermeabilizzati, nelle acque superficiali e sotterranee; scarichi di acque reflue industriali pericolose, oltre che nelle aree industriali, "in tutte le superfici esterne destinate a residenze e servizi, nelle strade, piste, rampe, piazzali" - cioè dovunque; e così via. Le cokerie, che già sono, con l'agglomerazione, il reparto siderurgico più nocivo, vengono abitualmente adibite a immondezzai di incinerimento di solfuri, scaglie di laminazione, fanghi di depurazione delle polveri di desolforazione ("anche da stabilimenti esterni"!). Il lessico non è fatto per essere padroneggiato dal lettore profano, ma non offusca la sostanza: praticamente tutta l'attività produttiva si svolge secondo l'accusa in modi dolosamente illegittimi.

Ciascun addebito menziona le prescrizioni impartite dai custodi, e inattuate: ai parchi minerari, ai modi di bagnatura dei cumuli, alla chiusura nastri trasportatori - e agli effetti sugli abitanti del rione Tamburi. I Gestori (poi decaduti) Ferrante e Buffo, denunciando un "allarmismo" seminato da magistrati e custodi, imputavano a questi ultimi di aver causato effetti devastanti, riducendo gli sbarchi di materie prime: in realtà impedendo la speculazione sulle tariffe e dimezzando le giacenze dei parchi minerari, con un sensibile miglioramento dentro e fuori lo stabilimento.
"Tutto ciò ha procurato negli anni un indebito vantaggio economico all'Ilva, ai danni della popolazione e dell'ambiente". È questo indebito profitto che la magistratura decide di confiscare, escludendone però quello che serve alla prosecuzione della produzione. L'onere, calcolato sommando gli interventi necessari alle varie aree, ammonta a 8.100.000.000 di euro, cui andrà aggiunto il costo per bonifica di acqua e suolo ai parchi minerari, impossibile da stimare oggi.

L'alleanza fra Ilva e governo Monti credeva di aver segnato punti decisivi: lo scorporo dell'Ilva dall'Ilvafire e dalla cassaforte della famiglia Riva, la sentenza della Consulta sulla legge salva-Ilva. Intanto però la Cassazione, che già aveva dato seccamente ragione a procura e gip di Taranto sugli arresti per i Riva e i dirigenti, aveva confermato anche l'esclusione di Ferrante dal ruolo di custode giudiziario. Proprio attorno al lavoro dei custodi - tre ingegneri, Barbara Valenzano (39 anni, gestore delle aree a caldo), Manuela Laterza (26) e Claudio Lofrumento (39), e un commercialista, Mario Tagarelli - e della Guardia di Finanza e dei carabinieri del Noe, gira la prosecuzione dell'azione di procura e gip di Taranto. Per giunta, alla vigilia era stata la procura di Milano a sequestrare ai Riva un miliardo e cento milioni per frode fiscale e truffa allo Stato. A quello Stato che aveva deliberato su misura dei Riva una legge così controversa. L'affiancamento della procura (e della guardia di Finanza) di Milano metterà in imbarazzo quelli secondo cui a Taranto i magistrati sono strani e matti.

Intanto, l'Ilva ha consegnato all'operaio Stefano Delli Ponti, che ha contratto per due volte un carcinoma al collo, il primo versamento di ventimila euro, corrispettivo di novemila ore di lavoro devolute dai suoi compagni. La loro solidarietà per equivalente.

"Testimoni come i parenti delle vittime di mafia"



Il governatore Crocetta: "Nel giorno di Falcone approveremo un ddl che estende le misure previste in Sicilia per i familiari delle vittime della mafia ai testimoni di giustizia".



PALERMO - "Nel giorno di Falcone, il governo regionale approverà un ddl che estende le misure previste in Sicilia per i familiari delle vittime della mafia ai testimoni di giustizia, nel corso della giunta di governo prevista per le ore 17:00". Lo dice il Presidente della Regione siciliana Rosario Crocetta. "Abbiamo le immagini di quella voragine spaventosa negli occhi, che ha troncato la vita di una delle personalità più importanti della storia siciliana e più impegnate nella lotta alla mafia - aggiunge -. E' necessario dare segni tangibili dell'attualità di quella lotta, con il sostegno a quanti, esponendosi con il rischio della vita, si battono per l'affermazione dei principi di legalità e giustizia. Spesso chi si espone rimane solo. Sono note le vicende di imprenditori che magari hanno denunciato e sono stati costretti a chiudere le proprie attività, rimanendo a volte persino senza lavoro né risorse economiche. Il governo regionale intende garantire queste persone, cittadini che si sono ribellati e che hanno bisogno di sentire la forza delle istituzioni e la loro vicinanza. Molto spesso si tratta di eroi solitari, che continuano a testimoniare l'attualità dell'impegno antimafia che non può vivere solo nel ricordo e nella memoria. Credo che Falcone ne sarà contento".

 

Prostituzione, giovane romena gestiva giro di «squillo» grazie al web: arrestata


La 23enne in manette a Varcaturo. Gli incontri avvenivano in un appartamento privato. Sequestrati proventi per 1.450 euro


NAPOLI. A Varcaturo, in provincia di Napoli i carabinieri del nucleo operativo di Giugliano hanno arrestato in flagranza di reato Ionela Stroea, romena, 23 anni, residente a Quarto, incensurata.
I militari dell'arma hanno accertato che la giovane gestiva la prostituzione di 4 donne (tre straniere e una italiana di età dai 25 ai 35 anni), procacciando clienti attraverso inserzioni su giornali, siti internet e una promozione telefonica, riscuotendo il denaro delle prestazioni.

Gli incontri avvenivano in un appartamento che è stato perquisito dai carabinieri che hanno scoperto e sequestrato una dozzina di telefoni cellulari (usati per contatti erotici con i potenziali clienti) e la somma di 1.450 euro in denaro contante (tutte banconote da 50 euro) ritenuta provento di attività illecita. L'arrestata è stata condotta nella casa circondariale di Pozzuoli.

Droga party “a luci rosse” Tre arresti a Venezia


Sono un gallerista d’arte e un rappresentante di tulipani olandesi e un ex calciatore australiano:
importavano cocaina dal nord Europa. Tra i clienti esponenti
del mondo dell’arte lagunare

C’è anche un gallerista d’arte olandese, Hendrikus Holtkamp, 69 anni, da circa 20 anni residente in una villa all’isola delle Vignole, tra le persone arrestate dalla squadra mobile di Venezia in una indagine su un traffico di stupefacenti dall’Olanda alla città lagunare. Gli altri due arrestati sono un rappresentante olandese di tulipani, di 73 anni, e un ex calciatore australiano, 38, anch’egli da tempo residente a Venezia.

L’operazione, con la collaborazione del commissariato di San Marco, è scattata la notte scorsa al mondo della cessione di alcune dosi di cocaina a un veneziano. Gli agenti hanno scoperto nell’abitazione del gallerista olandese circa 72 grammi di cocaina, due chilogrammi di sostanza da taglio e bilancini di precisione. Nel corso delle fasi dell’arresto del rappresentante e dell’australiano, la scorsa settimana a Mestre, erano stati sequestrati dieci chilogrammi di hashish, confezionati in Afghanistan e celati tra le confezioni di tulipani.

Secondo quanto è emerso dalle indagini, tra i “clienti” del gallerista anche persone gravitanti nel mondo dell’arte lagunare. Tra i sistemi per far girare la droga nel corso delle feste in villa, spesso segnate alla fine da risvolti “piccanti”, anche quello di celare la cocaina in piccoli vani ricavati all’interno di barattoli di birra olandese, che all’apparenza non presentavano alcuna anomalia. 

Fasano, si calano dal tetto e rubano gli ori dell'Assunta



Due mesi fa a Francavilla l’Addolorata fu spogliata



di MIMMO MONGELLI
FASANO - La Madonna Assunta derubata dei suoi ori. Un furto è stato messo a segno la notte scorsa all’interno della chiesa dell’Assunta, che è ubicata a lato della Chiesa Matrice, nel cuore del centro storico di Fasano. L’edificio sacro è di proprietà dell’omonima confraternita. Per arrivare in chiesa i ladri – tutto lascia pensare che un colpo del genere è opera di almeno un paio di persone, ma non ci sono elementi per escludere a priori che possa trattarsi di un furto messo a segno da un malvivente solitario, con ogni probabilità un “dilettante” allo sbaraglio – hanno fatto un ampio giro. Usando i ponteggi che in questo momento sono allestiti a lato del portone di ingresso principale della chiesa Matrice per lavori in corso, i malviventi sono arrivati sul tetto dell’edificio e di lì, dopo aver forzato una porta in ferro, sono penetrati nella chiesa dell’Assunta. Una volta dentro alla cappella, i ladri sapevano di essere al “sicuro”, lontani da occhi indiscreti e di avere tutto il tempo che necessitava per mettere a segno il furto.

I ladri si sono diretti verso la nicchia, protetta da un vetro, dove è allocata la statua della Vergine, a cui è intitolata l’omonima confraternita. Aperto il vetro, hanno fatto man bassa dei gioielli, ex voto donati alla Madonna dai fedeli, che adornavamo la statua della Vergine. Altro i malviventi non hanno portato via. Una volta presi i gioielli – il bottino del furto è ancora in corso di quantificazione, ma stando ad una prima ricognizione i ladri di sarebbero impossessati di sei collane e un paio di orecchini in oro giallo – i malviventi sono fuggiti percorrendo a ritroso lo stesso itinerario che avevano seguito per arrivare nella chiesa.

Il furto è stato scoperto nelle prime ore della mattina di ieri e subito è stato dato l’allarme ai carabinieri della compagnia cittadina. I militari dell’Arma si sono recati in chiesa e hanno effettuato una serie di sopralluoghi e di rilievo tecnico-scientifici alla ricerca di elementi utili per dare un volto e un nome agli autori del furto sacrilego. Non solo. Come da manuale in questi frangenti, una delle prime cose che gli investigatori hanno fatto è stato mettersi a caccia di fotografie della statua della Vergine Assunta. Quelle foto potrebbero essere molto utili alle indagini e, con un colpo di fortuna (ogni tanto capitano), potrebbero rivelarsi determinanti per recuperare i monili scippati alla Madonna. A caccia di foto e, contestualmente, a caccia di eventuali immagini registrate da telecamere di sicurezza in funzione nella zona.

I carabinieri – le indagini sono condotte dai militari dell’Ar ma della stazione cittadina e del nucleo operativo della compagnia di Fasano – sperano che un occhio elettronico (nella zona, ad onor del vero, non ce ne sono tanti e questo è, da sempre, uno dei nervi scoperti del borgo antico) possa aver ripresi i ladri mentre arrivavano o si allentavano dalla chiesa dove hanno messo a segno il furto notturno. Ladri – sempre ammesso che il colpo non sia opera di una sola persona – che avevano studiato con molta attenzione il tragitto da percorrere per arrivare nella chiesa dell’Assunta essere scorti da nessuno. Cosa che è riuscita e che ha poi consentito loro di mettere a segno il furto degli ori della Madonna Assunta senza essere scoperti. Un furto che, manco a dirlo, non appena la notizia del colpo ieri mattina ha iniziato a diffondersi in città, ha suscitato unanime condanna.

Reggio Calabria, si torna a sparare per strada


Ferito un uomo davanti a un circolo cacciatori

La vittima, 59 anni, era seduta su una terrazza quando due persone, a bordo di una moto hanno esploso colpi di pistola e quattro di essi lo hanno raggiunto a una gamba. Sul posto i sanitari del 118 che hanno medicato e condotto in ospedale l'uomo. Le sue condizioni non preoccupano


REGGIO CALABRIA – Un uomo di 59 anni, Salvatore Saccà, è stato gambizzato questa sera a Reggio Calabria. L’uomo era seduto nella terrazza esterna di un circolo cacciatori nel quartiere di Vito, nella zona nord di Reggio Calabria, quando due persone a bordo di una moto sono sopraggiunte e uno dei due gli ha esploso contro alcuni colpi di pistola calibro 7,65, quattro dei quali hanno ferito l’uomo alle gambe. 
Medicato dai sanitari dell’ambulanza del 118 il ferito è stato trasportato agli ospedali Riuniti. Si tratta di una ex guardia giurata, ora in pensione. 
Sul posto sono intervenuti i carabinieri del nucleo radiomobile diretto dal maresciallo capo Romano con il coordinamento del tenente Antonio Di Mauro. I carabinieri sono stati assistiti anche da personale della Polizia di Stato. Sul posto hanno rinvenuto tre bossoli e un’ogiva.

Operazione "Non solo moda" nel Reggino


Sette persone arrestate per truffa e ricettazione

Sette persone sono state arrestate a Palmi con le accuse di truffa, ricettazione, falso in scrittura privata e altri reati connessi in relazione all'operazione denominata Non solo moda e condotta dalla Procura della repubblica di Palmi con l'ausilio dei carabinieri
 
di DOMENICO GALATA'
PALMI (RC) – I Carabinieri della Compagnia di Palmi, coordinati dai magistrati delle Procura delle Repubblica di Palmi, hanno eseguito questa mattina sette misure di custodia cautelare nei confronti di altrettante persone accusate di far parte di associazione a delinquere finalizzata alla commissione di truffe, ricettazioni e reati contro il patrimonio. Si tratta di Salvatore Condello, di Gioia Tauro, Claudia Carmelina Pisante, di Palmi, Gaetano Condello di Gioia Tauro, Francesco Sgrò, di Melito di Porto Salvo, Andrea Torre, di Gioia Tauro. Per loro è stata applicata la misura di detenzione in carcere, mentre ai domiciliari sono finti, Rosanna Pugliese, di Palmi e Domenico Antonio Pugliese, anch’egli palmese. Un’ulteriore persona, Limardo Maria Concetta, di Limbadi, è stata sottoposta alla misura cautelare dell’obbligo di dimora ne comune di residenza. Secondo gli investigatori, la presunta associazione avrebbe operato nell’intero territorio nazionale, dedicandosi al compimento di truffe ai danni di svariate aziende operanti nel settore della moda, delle automobili di lusso, dei gioielli, realizzando cospicui profitti che venivano reinvestiti nella presunta attività illecita. Dalle indagini sarebbe emerso che il gruppo operasse attraverso l’utilizzo di false generalità, utenze telefoniche intestate a prestanome, assegni privi di copertura finanziaria, la stipula di falsi contratti e fideiussioni. L’attività dei Carabinieri avrebbe permesso di sventare anche alcune truffe, tra cui una ai danni della Bmw Italia.

Gli inquirenti hanno quantificato in un paio di milioni di euro i proventi delle truffe accertate. Contestualmente, sono state eseguite delle ordinanze di sequestro preventivo di beni riguardanti cinque attività commerciali e due conti correnti. I particolari dell’operazione, denominata “Non solo moda” sono stati illustrati nel corso di una conferenza stampa tenutasi a Palmi nei locali della Procura. Gaetano Condello, 40 anni, originario di Rosarno, ma da tempo trasferitosi a Gioia Tauro fino all’agosto dello scorso anno, sedeva nella giunta comunale guidata dal sindaco Renato Bellofiore, da poco passato nelle file del Pd, ma che alle elezioni era alla guida di una lista civica, «Cittadinanza democratica». Condello aveva, tra l’altro, la delega alle Attività produttive ed è molto conosciuto non solo a Gioia Tauro, ma anche in provincia perchè riveste un ruolo di primo piano all’interno della compagine societaria della «Viola», la squadra di basket di Reggio Calabria

Faida dei boschi, 6 persone saranno processate


Per il triangolo di morte nelle Preserre vibonesi

Il giudice ha disposto il rinvio a giudizio per i fatti di 'ndrangheta collegati alla prima fase della guerra tra cosche, risalente a dieci anni fa. L'accusa è associazione mafiosa, duplice omicidio dei fratelli Loielo, tentato omicidio e detenzione d'armi
 
 

VIBO VALENTIA – E' stato il triangolo della morte del Vibonese, con numerosi delitti della fase finale della vecchia faida, quella avvenuta circa dieci anni fa nelle Preserre vibonesi. Ora, sei persone saranno processate con l'accusa di associazione mafiosa, detenzione illegale di armi (tra cui mitra, fucili e pistole), tentato omicidio e duplice omicidio.
Sono state individuate nell’ambito dell’operazione antimafia «Luce nei boschi». E per loro il rinvio a giudizio è stato disposto dal gup distrettuale di Catanzaro, Livio Sabatini, nei confronti di: Giovanni Loielo, 59 anni, Bruno Emanuele, 41 anni, Gaetano Emanuele, 38 anni, Pasquale De Masi, 32 anni, Vincenzo Bartone, 45 anni, Franco Idà, 48 anni, tutti di Gerocarne, in provincia di Vibo
Il processo si aprirà dinanzi alla Corte d’Assise di Catanzaro il 26 giugno prossimo. I fatti di sangue contestati riguardano le eliminazioni dei fratelli Vincenzo e Giuseppe Loielo – 22 aprile 2002 – ed altri tre tentativi di omicidio ai danni degli stessi Loielo avvenuti il 25 marzo 2002, l’8 aprile 2002 e il 15 aprile 2002.

Mafia, chiesta condanna ex comandante Ros per favoreggiamento Provenzano

 
 
PALERMO (Reuters) - Al processo sul favoreggiamento alla mafia in corso a Palermo la pubblica accusa ha chiesto oggi di condannare a nove anni di carcere l'ex comandante del Ros, Mario Mori, e a sei l'ex colonnello Mauro Obinu.
Il pm Nino Di Matteo ha anche chiesto l'interdizione perpetua dai pubblici uffici per entrambi gli ex militari, sotto processo con l'accusa di favoreggiamento aggravato per la mancata cattura, nel 1995, di Bernardo Provenzano, all'epoca capo di Cosa Nostra.
Al termine della requisitoria, il pm ha sostenuto che "questi imputati hanno tradito la fedeltà giurata alla Costituzione, alle leggi e all'Arma dei carabinieri".
Se condannerete gli imputati - ha detto Di Matteo rivolto ai giudici - renderete onore alla verità, all'impegno e al sacrificio di tanti carabinieri che quotidianamente combattono cosa nostra senza compromessi".
Secondo il pm, infatti, "non importa la finalità di Mori e Obinu: non hanno aiutato Provenzano perché collusi o intimoriti da Cosa Nostra, ma per una sciagurata scelta di politica criminale: quella cioè di assecondare le fazioni più moderate in seno a Cosa Nostra, rappresentate da Provenzano, favorendone la prosecuzione della latitanza, cosa che avrebbe garantito l'abbandono di uno scontro violento e la prosecuzione delle stragi. E' questa l'essenza del processo".

Noto, «Strage di cani continua in contrada Volpiglia»

Nuove denunce sullo stato di totale inadeguatezza della struttura: e Moscuzza minaccia di proseguire nella protesta

 

di VINCENZO ROSANA
NOTO. Una terrificante sfilza di cani ammazzati e abbandonati sul ciglio della strada. In contrada Volpiglia, prima di raggiungere la curva dove sorge il rifugio sanitario per cani, ogni giorno da dieci anni a questa parte si consuma il drammatico rito di animali ammazzati dalle auto in transito lungo la statale che da Noto porta a Rosolini. Vincenzo Moscuzza, l'operatore turistico titolare di "Terra di Pace", l'agriturismo che sorge a poca distanza dal canile, dopo le denunce - l'ultima, in ordine di tempo, è stata presentata sabato scorso - ora è passato all'attacco e per far chiudere per sempre "quella illegale struttura realizzata nel 2000". Dopo aver manifestato con tanto di cartello il sabato e la domenica dell'Infiorata ora, con l’ausilio di alcuni residenti della vasta zona come lui stanchi di sopportare notte e giorno i latrati dei cani, ha tempestato facebook di immagini per raccontare quella immane strage che si consuma quotidianamente.
"Contro il silenzio delle amministrazioni comunali che si sono succedute negli ultimi dieci anni - dice Moscuzza - i residenti delle contrade Volpiglia, Zisola e Spaccazza si ribellano. Abbiamo avviato una raccolta di firme e abbiamo già inviato il dossier a quanti hanno il dovere di far chiudere immediatamente quella struttura illegale. In questi anni nessun sindaco ha mai sentito il dovere di ascoltare i veri problemi della gente che vive intorno al rifugio. Ma è stata dimostrata anche una grande insensibilità: oltre al danno procurato ai residenti, c'è anche il dramma dei cani attirati e abbandonati da insensibili persone: tantissime cucciolate lasciate davanti al cancello del piccolo rifugio da chi pensa di aver fatto una buona azione, finiscono per essere schiacciate dalle autovetture in transito. Proprio così, perché quella struttura sorge a soli 50 centimetri dalla trafficata strada statale 115".
E c'è anche la denuncia per le piccole dimensioni del rifugio "con i cani, sempre in eccedenza, lasciati liberi di vagabondare nelle zone interne. Facile per le bestiole entrare nelle aziende vicine". E Moscuzza accenna anche ai sopralluoghi effettuati dai Nas "che nel 2011 hanno verificato l'esiguità dei box e l'alta presenza di cani. Allora se il sindaco Corrado Bonfanti non è disposto a chiuderla, nonostante le nostre continue denunce, che siano altri organi a prendere tale decisione".

Omicidio di mafia nel 2009, due ordinanze di custodia cautelare

Antonino Fichera e Roberto Giuseppe Campisi sono ritenuti i killer di Mario Mauceri, membro del clan Sciuto. Vendette personali alla base dell’assassinio

 

  
CATANIA. Agenti della squadra mobile di Catania hanno eseguito una ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di Antonino Fichera, di 68 anni, e Roberto Giuseppe Campisi, di 43, perché ritenuti gli autori dell'omicidio di Mario Mauceri, di 48, presunto affiliato al clan Santapaola ucciso con colpi d'arma da fuoco la sera del 13 settembre del 2009 in contrada Agnone Bagni, ad Augusta (Siracusa). La vittima all'epoca del delitto era passata al clan Sciuto. Secondo quanto accertato dalle indagini Fichera e Campisi sarebbero stati animati da sentimenti di vendetta nei confronti della vittima perché quest'ultima avrebbe avuto un ruolo attivo nell'assassinio di Sebastiano Fichera - esponente della cosca Sciuto-Tigna assassinato la sera del 26 agosto del 2008 - figlio di Antonino ed intimo amico di Campisi. Il provvedimento restrittivo, con l'accusa di omicidio e porto illegale di armi da fuoco, è stato emesso dal Gip di Catania. A Campisi è stato notificato nel carcere di Agrigento, dove si trova detenuto. A loro è stata inoltre contestata l'aggravante di avere commesso il fatto avvalendosi delle condizioni di assoggettamento e di omertà derivanti dalla loro contiguità ad ambienti del clan Cappello, per quanto riguarda Fichera, e al clan dei Cursoti milanesi per quanto riguarda Campisi. Antonino Fichera è stato rinchiuso nel carcere di Bicocca. La misura cautelare è scaturita da indagini, delegate dalla Dda di Catania, volte a riscontrare le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Gaetano D'Aquino, che ha parlato di Mauceri come di un soggetto che aveva avuto un ruolo attivo nell'uccisione di Fichera, avendo accompagnato la vittima all'appuntamento con coloro che lo avrebbero ucciso.