mercoledì 30 giugno 2010

"Minchia di Malu Versu" Regione Siciliana


Alla Regione un dirigente ogni 5,6 dipendenti

PALERMO – La regione siciliana ha 1428 dirigenti in più, contro i 528 previsti dalle tabelle allegate alla Legge regionale numero 41 del 1985. E’ quanto ha sostenuto il procuratore generale Giovanni Coppola durante la sua requisitoria nella relazione presentata dalla Corte dei Conti allo Steri di Palermo. Diminuiscono, invece, i dipendenti a tempo indeterminato, ora 13.528 contro i 13.986 del 2008, mentre resta “emblematico il rapporto tra personale e dirigenti”: nel 2008, infatti, c’era un dirigente ogni 5,6 dipendenti, dato rimasto invariato nel 2009. Determinanti, secondo Coppola, i presupposti che si sono creati con la nuova dotazione organica: i dipendenti a tempo indeterminato sono 4.808, per un aumento pari al 45% del totale. Duro, infine, il giudizio del procuratore sui criteri di assunzione, “forse frutto del sistema della stabilizzazione e comunque dai dubbi profili di legittimità costituzionale ed eticamente scorretta, poiché rappresenta una mortificazione per le centinaia di migliaia di giovami disoccupati ignorati a beneficio di soggetti che sono stati selezionati senza concorso, non per maggior merito o intelligenza, ma solo in ossequio a logiche clientelari che hanno avuto di mira le prossime elezioni, anziché le prossime generazioni”. Secondo Coppola, la stabilizzazione pura toglierebbe definitivamente a tutte le centinaia di migliaia di giovani disoccupati anche la “speranza, almeno per i prossimi 30 anni, di un futuro nella pubblica amministrazione siciliana”.

Mafia. Caselli: “Il rapporto col potere dà forza ai clan”


Mafia. Caselli: “Il rapporto col potere dà forza ai clan”

ROMA- Il ‘valore aggiunto’ della mafia sono ‘i rapporti con pezzi di politica, di istituzioni, di economia, di informazione’, che fungono vera e propria ’spina dorsale’ per l’organizzazione criminale. Lo afferma in un’intervista a Repubblica il procuratore capo di Torino, Giancarlo Caselli, che denuncia: ‘la politica ha rinunciato da anni a dirsi la verita’ sulle collusioni tra se stessa e la criminalita”.
In tutto il mondo, prosegue, ‘quel tipo di realta’ criminale durano al massimo 30-40 anni, da noi la mafia esiste da 200 anni e continua ad agire’: la sua ‘forza’ e’ il ‘rapporto’ con la politica.
Caselli non entra nel merito delle inchieste sulle stragi del ‘92-’93, ‘un magistrato, anche se non segue piu’ queste cose, deve solo stare zitto’, ma sottolinea che ’se in quel contesto qualcuno remo’ contro o addirittura condusse delle trattative, e’ banale dire che sarebbe un fatto gravissimo’. Altrettanto ‘evidente’, aggiunge, ‘che se cio’ avvenne doveva essere qualcosa di inconfessabile e nessuno ci riferi’ nulla’.
E’ ‘difficile’ indagare, conclude, perche’ ‘quando si affronta questo tema prima o poi si scatenano campagne violentissime di aggressione e di delegittimazione di chi indaga’.

Messina, beni per 50 milioni confiscati a imprenditori


Messina, beni per 50 milioni confiscati a imprenditori

MESSINA- La sezione misure di prevenzione del tribunale di Messina ha disposto, su richiesta della Dia, la confisca di beni per un valore complessivo di 50 milioni di euro di proprieta’ dei fratelli Nicola e Domenico Pellegrino, ritenuti esponenti di spicco di un gruppo criminale affiliato al clan del boss mafioso Giacomo Sparta’. Grazie a questi rapporti i due fratelli avrebbero costruito un impero economico, attraverso il monopolio nel settore della produzione di calcestruzzo e movimento terra a Messina, incrementando il proprio volume di affari del 1000% in pochi mesi.
I beni confiscati erano stati sequestrati il 24 giugno del 2009 dalla Dia di Messina. Si tratta di quote sociali di cinque societa’, 39 immobili, tra cui terreni, ville e appartamenti, 40 mezzi, tra cui camion, betoniere, trattori, fuoristrada, autovetture e moto di grossa cilindrata, due impianti di produzione di calcestruzzo completi di silos, nastri trasportatori ed altri macchinari, 20 rapporti bancari e polizze assicurative per oltre 200 mila euro, un terreno con annessa una lussuosa villa.
Nel corso delle indagini, agenti della Dia hanno scoperto anche gravi irregolarita’ legate alle forniture di calcestruzzo, che in molti casi sarebbe stato ‘depotenziato’.
I particolari sull’operazione verranno illustrati in una conferenza stampa che si svolgera’ alle 10 nella sede della Dia di Messina

Stragi '92-'93, Pisanu: ci fu "groviglio" tra mafia e politica


Stragi '92-'93, Pisanu: ci fu "groviglio" tra mafia e politica

Dietro alle stragi del '92-'93 ci fu un "groviglio" tra mafia, politica e pezzi deviati dello Stato. Lo ha detto oggi il presidente della Commissione parlamentare antimafia Beppe Pisanu, che ha sottolineato come Cosa Nostra non abbia "rinunciato alla politica". Continua a leggere questa notizia

"E' ragionevole ipotizzare che nella stagione dei grandi delitti e delle stragi si sia verificata una convergenza di interessi tra Cosa Nostra, altre organizzazioni criminali, logge massoniche segrete, pezzi deviati delle istituzioni, mondo degli affari e della politica", ha detto Pisanu presentando la relazione dell'Antimafia sul periodo delle stragi.

Pisanu ha spiegato che "la spaventosa sequenza del '92 e del '93 ubbidì a una strategia di stampo mafioso e terroristico" che produsse due "effetti divergenti": da una parte un senso di "smarrimento politico-istituzionale che fece temere al presidente del Consiglio di allora l'imminenza di un colpo di Stato", dall'altra "un tale innalzamento delle misure repressive che indusse Cosa Nostra a rivedere le proprie scelte e prendere la strada dell'inabissamento".

"Nello spazio di questa divergenza si aggroviglia quell'intreccio tra mafia, politica, grandi affari, gruppi eversivi e pezzi deviati dello Stato che più volte abbiamo visto riemergere dalle viscere del paese", ha proseguito il senatore del Pdl.

Pisanu ha ricostruito gli "omicidi eccellenti" di quegli anni, e ha precisato che i fatti sono stati rivisti alla luce dei nuovi elementi emersi negli ultimi due anni che hanno riacceso l'attenzione sul periodo delle stragi, il cui obiettivo "era quello di costringere lo Stato ad abolire il 41 bis e a ridimensionare tutte le attività di prevenzione e repressione".

Ma se dopo la repressione seguita a quella fase Cosa Nostra "ha forse rinunziato all'idea di confrontarsi da pari a pari con lo Stato, ... non ha certo rinunziato alla politica. Al contrario, con l'espandersi del suo potere economico ha sentito sempre più il bisogno di proteggere i suoi affari e i suoi uomini", ha detto ancora Pisanu.



GRASSO: "TEORIE SONO BELLE MA SERVONO PROVE"

"Le teorie sono belle, ma abbiamo bisogno delle prove giudiziarie", ha commentato il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso.

"Le ipotesi costruite su tanti fatti - ha aggiunto Grasso - non hanno mai consentito di trovare la prova penale, che deve essere personale e individualizzata. Questo è il problema dal punto di vista giudiziario".

Al commento del procuratore nazionale antimafia, Pisanu ha replicato di aver chiarito, fin dall'inizio della sua relazione, che di fronte a periodi drammatici e complessi come quello delle stragi del '92-'93 "ci sono tre verità diverse, difficili da contemperare: quella giudiziaria, quella politica e quella storica".

martedì 29 giugno 2010

Casalesi, blitz della Dia: tre arresti


Casalesi, blitz della Dia: tre arresti
Uno degli affiliati gestiva hotel confiscato

In manette anche un assicuratore residente a Posillipo
Dia e Finanza hanno posto l'albergo sotto sequestro


CASERTA (29 giugno) - La Dia di Napoli ha eseguito un'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal gip di Napoli su richiesta dei sostituti procuratori della Dda Raffaello Falcone e Alessandro Milita, nei confronti di tre presunti affiliati al clan dei Casalesi.

Coinvolto assicuratore di Posillipo. Le ordinanze riguardano Francesco Borrata, di 57 anni, il figlio Giuseppe, 27 anni, entrambi di Casal di Principe e Luciano Molfini, 64 anni, assicuratore residente nel quartiere napoletano di Posillipo, accusati in merito alle vicende relative ad una struttura alberghiera di Castel Volturno, nel Casertano, sotto amministrazione giudiziaria in quanto sequestrata nel 2004 e confiscata nel 2005 dalla sezione applicazione della misure di prevenzione del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ritenuta nella disponibilità di Francesco Borrata, già noto per associazione mafiosa, vicino al clan dei casalesi, e in precedenza sottoposto alla sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno.

Hotel sequestrato da Dia e Finanza. Il gip ha anche disposto, inoltre il sequestro di una struttura alberghiera, il Royal King (valore 1 milione di euro), che è stato eseguito sempre questa mattina dalla Dia e dalla Guardia di Finanza della tenenza di Mondragone.

Pizzo imposto all'affittuario. Non solo continuava a gestire il suo albergo, che gli era stato confiscato, imponendo il pizzo all'affittuario e addirittura ai dipendenti dai quali pretendeva il pagamento di un terzo dello stipendio ma Francesco Borrata, accusato di essere affiliato ai Casalesi e destinatario di una delle tre ordinanze di custodia cautelare emessa dal gip di Napoli «contro ogni logica, ha anche potuto scontare gli arresti domiciliari per una pregressa condanna» nello stesso immobile. A sottolinearlo è la nota della Dia di Napoli che ha eseguito le ordinanze.

Indagato l'amministratore giudiziario dell'hotel. Nell'ambito dell'inchiesta risulta indagato anche l'amministratore giudiziario dell'albergo, Gianluca Del Giudice. È accusato di non avere svolto le proprie funzioni pur ricevendo il relativo compenso e di avere lasciato a Francesco e Giuseppe Borrata, due dei tre arrestati l'amministrazione sostanziale dell'azienda. Le vessazioni dei due riguardavano sia i dipendenti della struttura sia i titolari della della società che aveva preso in fitto dall'amministrazione giudiziaria una parte dell'immobile per organizzare corsi di formazione professionale riservati ai marittimi. I titolari della società non solo hanno ricevuto numerose minacce da parte di Francesco Borrata, come loro stessi hanno denunciato, ma sono stati addirittura pedinati dall'arrestato, che è considerato vicino al clan dei casalesi.

«Se continui così ti distruggo». Il contenuto delle minacce è riportato nell'ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip Vincenzo Caputo: «Non ti credere che potrai goderti l'albergo se non ci entro anche io in società. Se lo devo lasciare a te o ad altri, lo faccio cadere a terra, ma non lo lascio a nessuno. Se continui così, io ti distruggo, ti faccio chiudere la struttura; ho amici dappertutto, anche nell'antidroga, e posso rovinarti in qualsiasi modo, legalmente o illegalmente. Se non mi fai prendere i soldi, io fermo tutte le attività connesse alla gestione del ristorante; faccio saltare in aria l'albergo».

POVERA ITALIA


POVERA ITALIA

Aggredì Berlusconi a Milano

MILANO

Il Gup di Milano, Luisa Savoia ha assolto Massimo Tartaglia «perchè non imputabile in quanto incapace di intendere e volere al momento del fatto» per l’aggressione a Silvio Berlusconi contro il quale l’uomo scagliò una statuetta-souvenir del Duomo, al termine di un comizio il 13 dicembre a Milano. Il giudice ha, inoltre, disposto la misura di sicurezza della libertà vigilata per un anno che Tartaglia dovrà scontare nella comunità terapeutica dove si trova attualmente in cura. All’imputato è stato anche inflitto il divieto di partecipare a manifestazioni pubbliche. «Tartaglia è in cura, ora sta molto meglio», ha detto il suo legale, Daniela Insalaco.

Il pm Armando Spataro aveva chiesto oggi al gup Luisa Savoia il proscioglimento. Il procuratore aggiunto aveva richiesto che nei confronti dell’uomo venisse applicata una misura di sicurezza che comporta il ricovero per un anno presso la stessa comunità terapeutica nella quale già si trova.

La difesa di Tartaglia davanti al giudice aveva contestato la pericolosità sociale del suo assistito e aveva chiesto la remissione in libertà.

Mafia, pena ridotta a 7 anni in appello a Dell'Utri


Mafia, pena ridotta a 7 anni in appello a Dell'Utri

La seconda sezione della Corte d'Appello di Palermo ha condannato oggi il senatore del Pdl Marcello Dell'Utri a 7 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa, a parziale riforma della sentenza di primo grado in cui era stato condannato a nove anni. Continua a leggere questa notizia

La sentenza è stata letta nell'aula bunker del carcere Pagliarelli dal presidente della sezione, Claudio Dall'Aqua, al termine di una camera di consiglio iniziata giovedì 24 giugno e a quattro anni dall'inizio del processo di secondo grado. Le motivazioni saranno depositate fra 90 giorni

Dell'Utri, stretto alleato del premier Silvio Berlusconi e cofondatore di Forza Italia, è stato condannato al pagamento delle spese processuali e a quelle di costituzione delle parti civili -- Provincia e Comune di Palermo --, mentre la Corte lo ha assolto "perché il fatto non sussiste" per tutti gli episodi a partire dal 1992.

Un particolare di non secondaria importanza, secondo fonti legali, perché proprio dal 1992 in poi è concentrato il racconto all'interno del processo da parte di diversi collaboratori di giustizia, fra i quali Gaspare Spatuzza, di episodi di rapporti fra politica e la mafia stragista, dopo gli attentati del '92 e del '93.

Spatuzza (condannato all'ergastolo per 6 stragi e 40 omicidi), escluso recentemente dal programma di protezione dei testimoni da parte del Viminale, aveva messo a verbale nel processo di essere stato a conoscenza che Dell'Utri e Berlusconi fossero i referenti politici della cupola mafiosa al tempo delle stragi di mafia del '92 e '93.

Il 16 aprile scorso il pg Antonino Gatto -- che nel corso del processo ha sostenuto di aver evidenziato l'esistenza di un "patto di scambio fra Cosa nostra e Dell'Utri" -- aveva chiesto la condanna del senatore a 11 anni di reclusione. La difesa aveva chiesto la piena assoluzione.

Dell'Utri, oggi non presente in aula, al momento delle richieste dell'accusa aveva commentato: "Qui non c'è un fumus persecutionis, qui c'è una vampa, un incendio".

Nel corso dei due processi -- il primo grado iniziò nel 1997 e si concluse nel 2004 -- sono stati sentiti oltre 270 testimoni, più di 40 dei quali collaboratori di giustizia.

Dopo diciotto anni hanno un volto i killer del sindaco Vincenzo Napolitano



Dopo diciotto anni hanno un volto
i killer del sindaco Vincenzo Napolitano


Primo cittadino di Riesi, nel Nisseno, tra l'89 e il '91, fu ucciso davanti al Municipio un anno dopo il suo ritiro dalla scena politica locale

Mafia, svolta a 18 anni dall'omicidio

Dopo diciotto anni, hanno un volto i mandanti e gli esecutori dell'omicidio di Vincenzo Napolitano, l'ex sindaco democristiano di Riesi (Caltanissetta) vittima di un agguato nel 1992, ritenuto vicino al clan Riggio, contrapposto a quello dei Cammarata. Sono cinque pregiudicati esponenti di Cosa Nostra, tutti già detenuti: Pino e Vincenzo Cammarata, Davide Emmanuello, Salvatore Fiandaca e Nunzio Cascino.


I cinque detenuti raggiunti da custodia cautelare in carcere si trovano reclusi nei penitenziari di Ascoli Piceno, Terni, Milano e Avellino.

Dalle indagini, coordinate dalla DDA di Caltanissetta, è emerso che i mandati dell'omicidio sarebbero stati i Cammarata e Salvatore Fiandaca. Emmanuello, esponente di spicco dell'omonimo clan di Gela, avrebbe invece messo a disposizione il gruppo di fuoco. Mentre l'esecuzione materiale del delitto sarebbe stata affidata a Cascino.

Vincenzo Napolitano, sindaco di Riesi tra l'89 e il '91, fu ucciso davanti al municipio un anno dopo il suo ritiro dalla scena politica locale. I Cammarata, secondo quanto ricostruito, ritenevano che egli favorisse la latitanza di due pericolosi esponenti del clan Riggio, Carlo Marchese e Francesco Annaloro, che loro volevano eliminare. Lo accusavano anche di convogliare i proventi delle estorsioni pagate dalle imprese destinatarie degli appalti pubblici nelle tasche del clan rivale. Così si rivolsero agli Emmanuello per eliminarlo.

"L'omicidio Napolitano - sottolineano gli inquirenti - si inquadra, quindi, nel contesto della guerra di mafia che imperversò per Riesi e dintorni tra la fine degli anni '80 e la fine degli anni '90", e che vide contrapposti il clan Riggio e quello dei Cammarata, capeggiato dai fratelli Pino e Vincenzo.

lunedì 28 giugno 2010

Beni confiscati e enti locali: un rapporto da rafforzare


Beni confiscati e enti locali: un rapporto da rafforzare

Lo evidenzia il sottosegretario all'Interno Mantovano che annuncia l'apertura di nuclei presso le prefetture collegati con l'Agenzia nazionale


«Non si può immaginare che le forze di polizia, l'autorità giudiziaria, l'Agenzia per la gestione dei beni confiscati possano sostituirsi agli enti territoriali». Ad evidenziarlo è il sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano che recentemente ha più volte ribadito, sia a Bari che a Napoli dove ha partecipato a diverse manifestazioni contro il pizzo e a favore di una più stretta interazione tra enti locali e strutture dello Stato, la necessità di una sinergia per l’utilizzo di beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata.

La nuova configurazione dell'art. 143 del Testo unico sugli enti locali che permette lo scioglimento del consiglio comunale per infiltrazioni mafiose se viene accertato un colpevole ritardo nella destinazione di un bene e l’istituzione dell'Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, vanno in questa direzione.

Mantovano - che a Bari è intervenuto in prefettura ad un seminario sul ruolo e le funzioni degli enti locali nella gestione dei beni confiscati alla criminalità, organizzato dalla Scuola superiore della pubblica amministrazione locale - ha sottolineato la differenza di carattere qualitativo e di impostazione tra l'Agenzia nazionale e l'Agenzia del demanio, che li gestiva in precedenza. I problemi per il riutilizzo di questi beni – secondo il sottosegretario - sono sia di ordine tecnico, legati spesso alla presenza all'interno di questi beni di familiari di colui al quale sono stati confiscati, sia di ordine economico-finanziario a causa della scarsa disponibilità di risorse per procedere alle ristrutturazioni dei beni e sia per problemi di intimidazioni, soprattutto in alcune zone. «La presenza oggi di un ufficio centrale pienamente funzionante, qual è l'Agenzia - ha aggiunto - permetterà di superare larga parte di questi problemi a condizione che ci sia una collaborazione piena e totale delle amministrazioni del territorio».

Per questo, si sta lavorando – ha annunciato Mantovano - «non soltanto all'individuazione delle sedi periferiche, ma anche per organizzare, nelle prefetture nel cui territorio rientrano beni confiscati, nuclei appositi che si collegheranno con l'Agenzia e saranno una sorta di sua presenza stabile sul territorio».

Sulla scarsa sensibilità dimostrata da alcuni amministratori locali sul tema della confisca dei beni alla criminalità, Mantovano, intervenendo a Napoli nella sede della Provincia a Santa Maria La Nova ad un seminario sul ruolo degli enti locali promosso dalla Scuola superiore della pubblica amministrazione locale, ha ribadito che la Magistratura e le Forze di polizia «possono aiutarli, possono sostenerli, possono consigliarli ma non possono sostituirli, per il minimo di decoro istituzionale che impone a ciascuno di svolgere il proprio ruolo fino in fondo».

Cuffaro, pm chiedono 10 anni




Cuffaro, pm chiedono 10 anni

L'ex presidente della Regione
Sicilia è imputato per concorso
esterno in associazione mafiosa
PALERMO
Mani sul viso, pochi sorrisi, niente baci. L’ex governatore della Sicilia, Salvatore Cuffaro, soprannominato «vasa vasa» per l’abitudine di salutare tutti con due sonori baci sulle guance, a cinque anni e mezzo dall’inizio del primo processo in cui è stato imputato, ha perso un po’ del suo tradizionale buonumore e ha ascoltato piuttosto teso la conclusione della requisitoria dei pm Nino Di Matteo e Francesco Del Bene al termine della quale i magistrati hanno chiesto la sua condanna a dieci anni per concorso in associazione mafiosa. Richiesta che tiene conto già dello «sconto» di un terzo previsto dal rito abbreviato scelto da Cuffaro. Un altro macigno per l’ex governatore, condannato a gennaio in appello a sette anni per favoreggiamento aggravato dall’aver agevolato la mafia nel processo «Talpe in Dda».



È una condanna pesante quella invocata dai pm che hanno deciso di non chiedere le attenuanti generiche per il senatore Udc «perchè i fatti di cui lo accusiamo sono veramente gravi anche per il suo ruolo di governatore regionale: per questa sua veste poteva partecipare in alcuni casi al Consiglio dei ministri». I pm hanno però sottolineato l’irreprensibile condotta di Cuffaro durante il giudizio che l’ex senatore ha seguito per intero. Alla fine l’amarezza non riesce comunque a prevalere sull’ottimismo del senatore Udc. «La mia fiducia nelle istituzioni e nella giustizia mi impongono il rispetto per il ruolo dei pubblici ministeri - ha detto al termine della requisitoria - È chiaro che non condividiamo le loro conclusioni e che, insieme ai miei avvocati, porteremo il nostro contributo per fare emergere la verità».

Durante le cinque «puntate» della requisitoria i pm hanno ripercorso le accuse a Cuffaro, in grandissima parte analoghe a quelle contenute nel processo «Talpe» tanto da fare invocare ai legali dell’ex governatore il «ne bis in idem», istanza che il gup Vittorio Anania valuterà al momento di emettere la sentenza.

All’ex governatore non si contesta soltanto la fuga di notizie che portò alla scoperta delle microspie piazzate dal Ros a casa del boss Giuseppe Guttadauro, oggetto del primo dibattimento, ma l’avere contribuito, durante tutta la sua carriera politica, al «sostegno e al rafforzamento dell’associazione mafiosa» con comportamenti e rapporti «che configurano il concorso e non solo il favoreggiamento». Un apporto, quello assicurato alle cosche, che per l’accusa avrebbe fruttato all’ex governatore i voti della mafia. Per i pm, dunque, Cuffaro, che avrebbe avuto rapporti con diversi uomini d’onore - da Guttadauro, ad Angelo Siino, dall’agrigentino Maurizio Di Gati, all’ex manager della sanità privata Michele Aiello - avrebbe messo a disposizione di Cosa nostra il proprio ruolo consentendole di influenzare l’andamento della vita politica siciliana e di assicurare l’impunità ai propri esponenti.

A queste accuse si aggiunge l’ultimo tassello fornito da Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo Vito, che ha consegnato ai pm un pizzino di Bernardo Provenzano risalente al 2001. Sarebbe stato lui stesso a fare da postino tra il boss e il padre. Nel pizzino, si parla di un provvedimento di clemenza per i detenuti mafiosi che doveva essere agevolato dal «nuovo presidente». Per Massimo Ciancimino sarebbe proprio Cuffaro.



Mafia, chiesti dieci anni di carcere
per l'ex governatore della Sicilia Cuffaro

Per il pm, fra lui e Cosa Nostra esisteva un vero e proprio «patto economico-politico-mafioso»


ROMA (28 giugno) - Dieci anni di reclusione per l'ex presidente della Regione Sicilia, Salvatore Cuffaro, senatore dell'Udc. Questa la pena richiesta dal pubblico ministero Nino Di Matteo nel processo davanti al giudice dell'udienza preliminare di Palermo Vittorio Anania. Cuffaro è imputato per concorso in associazione mafiosa. Al centro della requisitoria del magistrato ci sono i rapporti tra Cuffaro e Michele Aiello, imprenditore della sanità condannato per mafia.

Secondo la tesi del pm: «Aiello costituiva un importante anello di congiunzione tra Cosa nostra e Salvatore Cuffaro. Aiello ha stabilito negli anni un vero e proprio patto di protezione con Cosa nostra che garantiva e tutelava l'espansione della sua attività imprenditoriale. Il rapporto tra Aiello e Bernardo Provenzano prevedeva una serie di prestazioni e controprestazioni di cui si agevolano entrambi. La ditta Aiello si è occupata, grazie alla volontà mafiosa, della costruzione di numerose strade interpoderali. Da parte sua Aiello assumeva personale indicato da Cosa nostra, ovviamente pagava la “messa a posto”. Ma soprattutto Aiello aveva dei rapporti con rappresentanti istituzionali che interessavano a Cosa nostra e che gli consentivano di avere informazioni riservate su alcune
indagini in corso».

Tra questi rapporti, secondo l'accusa, c'era anche quello con Cuffaro che, ha spiegato Di Matteo, «in cambio aveva la possibilità di avere a disposizione le strutture sanitarie di Aiello per fare favori ad amici ed elettori. Possiamo sospettare quindi, anche se questo punto non è dimostrato, che ci fosse un rapporto societario di fatto tra Aiello e Cuffaro. È provata invece l'introduzione di un nuovo nomenclatore tariffario di radioterapia per le struttura convenzionate che includeva, guarda caso, le cinque principali prestazioni eseguite nelle cliniche di Aiello, prima non presenti nel tariffario».

Il pm ha parlato di un vero e proprio patto tra Cuffaro e Cosa Nostra: «Francesco Campanella, diventato collaboratore di giustizia, chiarisce come il rapporto tra Cuffaro e Cosa nostra non sia stato un evento sporadico e casuale ma piuttosto interno al patto politico-elettorale-mafioso. Come racconta Campanella Giuseppe Acanto venne inserito nella lista Biancofiore nelle elezioni 2001 per venire incontro alle richieste di Nino Mandalà. Sempre Campanella dice che Cuffaro lo avvertì che nei confronti di Antonino e Nicola Mandalà e dello stesso Campanella c'erano indagini in corso. Le dichiarazioni del collaboratore sono ampiamente dimostrate».

Il pm ha poi raccontato della comune militanza di Cuffaro e Campanella nell'Udeur e dello stretto rapporto tra i due, tanto che l'ex governatore fu testimone alle nozze del collaboratore. Secondo Di Matteo: «A conferma delle affermazioni di Campanella c'è la testimonianza dell'avvocato Giovanbattista Bruno, figlio di Franco, ex capo di gabinetto del sottosegretario alla Giustizia Marianna Li Calzi. Giovanbattista Bruno era amico sia di Cuffaro che di Campanella e ha riferito di un colloquio nel 2003 con il collaboratore di giustizia che gli confidava di sapere dal governatore di essere indagato».

La replica di Cuffaro. In una pausa del processo, l'ex presidente della Regione siciliana, Salvatore Cuffaro, si difende così dalla ricostruzione fornita oggi in aula dal pm: «Ma quale rapporto societario con Michele Aiello? Non è mai esistito. Io facevo solo delle segnalazioni per alcuni esami diagnostici, così come facevano anche altri politici e magistrati. Per questo devo essere considerato socio di Aiello?».

Il pm ha affermato che la moglie del senatore Cuffaro «è stata per poche ore socia di Aiello», avendogli ceduto quote di una società di un laboratorio di analisi. Ma Cuffaro si difende: «Se mai si può parlare di soci lo sono stati per un minuto, dal notaio».

Sul tariffario di alcune prestazioni delle aziende di Aiello e di cui Cuffaro si sarebbe personalmente interessato, il senatore spiega: «Aiello aveva in azienda un macchinario particolare che c'era solo a Milano. Ha chiesto solo l'inserimento di alcune prestazioni che nel tariffario non c'erano. Altrimenti si doveva pagare la prestazione indiretta che costava molto di più alla Regione».

E sulle fughe di notizie: «Ho solo difeso me stesso perché ero preoccupato che si parlasse di me al telefono quando ero già indagato».

Duro colpo alla mafia cinese



Blitz della GdF contro la mafia cinese
Arresti e perquisizioni in tutta l'Italia


Oltre mille militari della Gdf hanno condotto l'operazione in otto regioni: Toscana, Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia Romagna, Lazio, Campania e Sicilia

La Guardia di finanza ha arrestato oggi 17 cinesi e sette italiani per associazione di stampo mafioso dedita al riciclaggio di denaro -- pari a 2,7 miliardi di euro -- proveniente da evasione fiscale, contraffazione, sfruttamento della prostituzione e ricettazione. Continua a leggere questa notizia

Una nota delle Fiamme gialle aggiunge che 22 arrestati sono finiti in carcere e 2 ai domiciliari, mentre 134 persone sono indagate a piede libero.

Sono state sequestrate inoltre 73 aziende, 181 immobili, 300 conti correnti e 166 auto di lusso, per un valore complessivo di circa 80 milioni di euro. Sottoposti a sequestro anche 13 milioni di euro in contanti rinvenuti nel caveau di un istituto di vigilanza.

Mille uomini della Gdf del Comando regionale Toscana hanno eseguito gli arresti, le perquisizioni e i sequestri in Toscana, Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia Romagna, Lazio, Campania e Sicilia.

Secondo gli inquirenti, l'associazione composta da italiani e cinesi riciclava il denaro tramite una rete di agenzie di money transfer. Sono oltre 100 le aziende coinvolte, tutte riconducibili a cinesi residenti tra Prato e Firenze. Altro canale per riciclare il denaro verso la Cina è risultato essere San Marino, tramite una finanziaria con sede centrale nel piccolo Stato e filiali in Italia ed Europa.

La nota precisa che i reati contestati sono l'associazione mafiosa finalizzata al riciclaggio di proventi illeciti derivanti dai reati di evasione fiscale, favoreggiamento dell'ingresso e della permanenza in Italia di cinesi clandestini per lo sfruttamento nel lavoro, sfruttamento della prostituzione, contraffazione, frode in commercio e vendita di prodotti industriali che violano il made in Italy, ricettazione.

Secondo la Gdf, dal 2006 ad oggi sono stati riciclati oltre 2,7 miliardi di euro.

PROCURATORE NAZIONALE ANTIMAFIA: CINA INFLUENZERA' CRIMINALITA' ORGANIZZATA

Il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso ha commentato il blitz dichiarando che la Cina, a causa della posizione geografica e del crescente potere politico ed economico, potrebbe attirare e canalizzare diverse attività criminali, compreso il traffico di droga.

"La potenza economica e commerciale della Cina è un fenomeno geopolitico che influenzerà la criminalità organizzata nei prossimi anni... che porterà le organizzazioni criminali a favorire i canali cinesi per le attività criminali", ha detto Grasso illustrando l'operazione della Gdf.

Grasso ha sottolineato anche che, pur avendo rafforzato gli strumenti legislativi per il money transfer, le intercettazioni telefoniche e ambientali rimangono uno strumento valido e necessario per combattere a pieno questo tipo di criminalità organizzata.

"Abbiamo rafforzato gli strumenti legislativi per il money transfert ma dobbiamo stare attenti a non indebolire gli strumenti come le intercettazioni telefoniche e ambientali che nel caso di gruppi criminali organizzati, laddove non sempre si può contestare l'intimidazione o l'associazione mafiosa, verrebbero ad essere limitate", ha aggiunto Grasso.

INDAGINI INIZIATE NEL 2008

Le indagini sono iniziate nel 2008, quando le Fiamme gialle di Firenze hanno individuato un "sodalizio criminale" composto da una famiglia cinese e una famiglia bolognese attraverso un'agenzia di money transfer con filiali in tutta Italia.

"L'attività illecita si è sviluppata con le caratteristiche mafiose", spiega la nota, aggiungendo che la struttura verticistica, che faceva capo alla famiglia cinese, "controllava, con forme di intimidazioni psicologiche ed a volte violente, le attività illecite della comunità cinese".

La principale attività illegale delle aziende cinesi in Italia è consistita nella produzione di merce contraffatta -- principalmente capi ed accessori di pelletteria -- e nell'evasione fiscale.

Le indagini hanno portato anche al sequestro di 780mila articoli contraffatti o prodotti in violazione alla norme che tutelano il made in Italy e la sicurezza.

Durante le indagini è emerso inoltre che nelle operazioni di riciclaggio erano coinvolti anche importatori di prodotti contraffatti, mentre dalla Cina arrivavano clandestini da impiegare in "case chiuse camuffate da centri estetici e massaggi orientali" o in laboratori dove "lavoravano in nero in condizioni disumane".

Camorra, preso reggente clan Gionta Era appena tornato dalla Grecia



Camorra, preso reggente clan Gionta
Era appena tornato dalla Grecia


Umberto Onda, latitante dal 2007, fermato al porto di Brindisi
Era inserito nell'elenco dei 100 ricercati più pericolosi d'Italia


NAPOLI (28 giugno) - I carabinieri di Napoli hanno catturato il latitante Umberto Onda, 38 anni, considerato reggente del clan camorristico dei "Gionta" operante a Torre Annunziata: latitante dal luglio del 2007 è inserito nell'elenco dei 100 ricercati più pericolosi d'Italia.

A Onda i militari hanno notificato 3 provvedimenti restrittivi: una ordinanza di custodia cautelare in carcere del 2007 conseguente a condanna in primo grado a 17 anni di reclusione per associazione mafiosa, omicidio, rapina, ricettazione ed altro e 2 altre ordinanze, del 2008 e 2009, per associazione mafiosa ed estorsioni e per estorsioni e legge droga.

L'uomo è stato bloccato e tratto in arresto dai carabinieri di Torre Annunziata subito dopo che era sbarcato a Brindisi da un traghetto proveniente dalla Grecia.

Dolomiti, isole, spiagge, palazzi In vendita i "tesori" del demanio


Dolomiti, isole, spiagge, palazzi
In vendita i "tesori" del demanio


Ecco la lista dei beni dei quali gli
enti locali possono fare richiesta:
sono 19mila tra fabbricati e terreni.
Spunta anche il cinema di Moretti


ROMA

Non colmerà esattamente i tagli della Finanziaria per i quali sono sul piede di guerra ma con il federalismo demaniale agli enti locali può arrivare di certo un bel tesoretto. Dalle isole ai mercati, dalle montagne agli ex aeroporti, il valore di inventario di tutto il patrimonio che diventa disponibile per le autonomie che potranno "scegliere" alcuni di questi beni con un progetto di valorizzazione, è di poco oltre i tre miliardi. Ma è chiaro che può diventare molto di più. Anche perchè a disposizione, a titolo gratuito, di Comuni, Province e Regioni c’è un patrimonio consistente di beni, messi nero su bianco dall’agenzia del demanio in un elenco al momento ancora provvisorio.

L’ente diretto da Maurizio Prato metterà infatti sul suo sito online a fine luglio l’elenco ufficiale e aggiornato dei beni. Intanto, mercoledì ci sarà la relazione del ministro del Tesoro sui numeri del federalismo fiscale in Consiglio dei ministri. Per quanto riguarda il federalismo demaniale si va, al momento, da Porta Portese all’intero Idroscalo a Roma, da San Pietro in Vincoli alla facoltà di Ingegneria della Sapienza, dalla montagne delle Dolomiti alla piazza d’Armi dell’Aquila, al faro di Mattinata sul Gargano fino all’ex forte Sant’Erasmo a Venezia. Ecco, in pillole, una sintesi dei beni dello Stato che potrebbero andare in mano alle autonomie che, per legge devono prioritariamente valorizzarli ma eventualmente anche ’alienarlì a patto che gli introiti vadano a riduzione del debito.

PALAZZI STORICI
Roma la fa da padrona. C’è il museo di Villa Giulia, dal quale potrebbe essere sfrattata la famosa coppia di sposi Etruschi, presente in tutti i libri di storia dell’arte antica e il cui valore di inventario è poco più di quattro milioni e mezzo di euro. Sempre nella Capitale risultano a disposizione, tra gli altri, un immobile a piazza delle Coppelle, in pieno centro e attualmente in uso al Senato che vale oltre 22 milioni e mezzo di euro; l’Archivio generale della Corte dei Conti alla Bufalotta (quasi 67 milioni di euro); un complesso immobiliare (che risulta tra i più preziosi dell’intero faldone) a via della Rustica del valore di quasi 90 milioni di euro. In centro a Bologna c’è l’ex convento della Carità a 330mila euro, mentre a Trieste c’è l’Archivio di Stato (del valore di inventario di quasi 5 milioni di euro). A Genova c’è l’ex cinta fortilizia detta "Mura degli angeli". Mentre a Venezia è reso disponibile l’ex forte di Sant’Erasmo (quasi 7 milioni di euro).

A RISCHIO VENDITA IL SACHER DI NANNI MORETTI E L’IDROSCALO DI PASOLINI
Ma ce ne è anche per il mondo del cinema: nella lista dei beni a disposizione degli enti locali entrano il fabbricato del cinema Nuovo Sacher di Nanni Moretti, stimato 4 milioni e mezzo di euro, e l’intero Idroscalo di Ostia, dove morì Pier Paolo Pasolini, per circa 6 milioni e settecento mila euro di valore di inventario.

DOLOMITI, DA TOFANE A SORAPIS
Anche le montagne entrano a far parte dei beni trasferibili alle autonomie: si va dalle Tofane al monte Cristallo alla Croda Rossa el Sorapis, all’Alpe di Faloria, tutti nel bellunese, in zona Cortina.

CAMPO DA GOLF NEL "REGNO" DELLA MARCEGAGLIA
Sull’isola di Albarella, di proprietà del gruppo della presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, è a disposizione il campo da Golf a 18 buche per un valore di 4 milioni 650mila euro.

FARI, FERROVIE E ACQUEDOTTI
Potrebbe andare ai "foggiani" il faro di Mattinata sul Gargano, così come il vecchio faro di punta Palascia a Otranto o ancora, tra l’altro, il faro Spignon di Venezia. Ma sono anche trasferibili pezzi di ex ferrovie come l’antico tracciato della direttissima Roma-Napoli fino a un pezzo del raccordo ferroviario a Briosco (in provincia di Milano). In lista ci sono anche acquedotti come quello di Castellammare di Stabia, in provincia di Napoli.

CAMPI PROFUGHI ED EX CASE DEL FASCIO
Nell’elenco, l’ex campo prigionieri di guerra in provincia di Ragusa ma anche diverse ex case del fascio, da quella di Desio in provincia di Milano a quella di Lentini in provincia di Siracusa.

EX CASERME SUL CONFINE
Anche se le caserme fanno storia a sè con la "Difesa Spa" incaricata in primis (prima degli enti locali) della loro valorizzazione, nell’elenco del Demanio ce ne sono numerose, in particolare nelle zone di confine, dal Piemonte al Friuli Venezia Giulia.

ISOLE E SPIAGGE DALLA SPIGOLATRICE DI SAPRI AL LAGO DI COMO
Ci sono gli isolotti in prossimità di Caprera ma anche l’isola di Santo Stefano vicino a Ventotene, ceduta ’pezzo per pezzò dall’ex carcere all’attracco agli arenili; poi diversi terreni e fabbricati nell’isola di Palmaria vicino a Portovenere. Ma c’è anche un pezzo di spiaggia a Sapri come la ’spiaggia del lago di Comò di manzoniana memoria a Lecco.

EX AEROPORTI, RIFUGI E BASI MISSILISTICHE
Si va dall’ex aeroporto di Bresso (Milano) a quello di Bagno Piana all’Aquila; c’è l’ex base missilistica di Zelo in provincia di Rovigo e i numerosi rifugi ’anti-aereì della città di Siena. Domani sul sito dell’Ansa sarà pubblicato l’elenco completo del patrimonio demaniale italiano che potrebbe essere trasferito alle autonomie locali.

domenica 27 giugno 2010

Esibizioniste nude amatoriali

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Umiliati dai boss e dallo Stato


Umiliati dai boss e dallo Stato
Luigi e Giuseppina Orsino, la coppia costretta a vivere di carità

Denunciarono il racket, imprenditori napoletani in miseria: «Le istituzioni ci hanno abbandonati»

FRANCESCA PACI
C’è il sole alto sul Golfo di Napoli che s’intravede dai vicoli di San Sebastiano al Vesuvio, la Svizzera partenopea dove professionisti e uomini d’affari ristrutturano ruderi da 4 mila euro al metro quadrato. Ma in casa Orsino le luci sono accese. Luigi e la moglie Giuseppina, 56 e 51 anni, aspettano con le persiane serrate l’ufficiale giudiziario che da un giorno all’altro verrà a cambiare la serratura della villa in cui vivono dal 1979, come se trincerarsi dentro l’ultima delle proprietà rimasta loro dopo l’assedio di camorristi, usurai, creditori, ritardasse almeno un po’ la consapevolezza d’aver perduto la guerra cominciata 18 anni fa. «Non finiremo a rovistare nella spazzatura, c’è un limite all’umiliazione della dignità umana: se vengono a buttarci fuori ci facciamo saltare in aria» dice Luigi, camicia gialla e jeans lisi, seduto nel salone senza più quadri né suppellettili dove un paio di computer Ibm Ps2 e un sofisticato mangianastri d’epoca pre-cd rivelano il momento esatto in cui le sue finanze, fino ad allora cospicue, hanno smesso di prosperare.

L’orologio è fermo al 1992: «Lavorando sodo avevamo trasformato un negozio di mobili di Portici da 50 mq in uno spazio venti volte più grande, ad avviarne un altro a Sant’Anastasia, più tre punti vendita abbigliamento». Sono anni di passaggio. Sebbene il boom economico italiano cominci a sgonfiarsi e Maradona sia già un eroe del passato, gli affari vanno e gli Orsino, oltre ai locali commerciali e l’abitazione di San Sebastiano, vantano una villa a Diamante, una barca da dieci metri, un loft a Roccaraso. Non resterebbe loro che da godersi la vita se in agguato non ci fosse Gomorra, il regno delle tenebre di cui il tredicenne Saviano inizia a prendere coscienza. A ripensarci ora sembra un film. Luigi versa il tè freddo, lusso estivo del pacco Caritas che don Enzo gli consegna ogni mattina in parrocchia: «Un giorno un sedicente amico mi propone l’acquisto dei 180 mq con parco al centro di Ercolano cedutigli da un mio parente che aveva un debito con lui e io, per non lasciare in mezzo alla strada quel poveretto, sborso subito trecentotrenta milioni di lire in contanti». I vampiri fiutano il sangue: «Dopo una settimana vengono da me due gorilla dei Vollaro, un clan potente e feroce che fino allora mi aveva ignorato. Sapevo che tanti commercianti pagavano in silenzio anche un milione di lire al mese». Omertà obbligata: la legge a sostegno degli imprenditori sotto usura sarebbe arrivata solo sette anni dopo. Il tempo di morire: «Un pizzo contenuto l’avrei sopportato, ero benestante. Ma quelli chiedono subito 5 milioni, 10, 15, un’escalation con raffiche di mitra sulle vetrine e nel giardino di casa, dove una sera trovo morto il nostro cane pastore Dark. In pochi mesi eccomi ostaggio del mio ex amico, ormai rivelatosi uno strozzino, che dopo avermi consigliato di non oppormi ai Vollaro si offre di prestarmi i soldi a tassi fino al 300%». Il gioco si fa duro, Luigi Orsini prova a giocare ma è stretto tra estorsori e usurai, le forze svaniscono rapidamente con il patrimonio. Prima che decida di rivolgersi alla Procura di Nola passano 12 anni durante i quali, incalzato dalla rate, cede una dopo l’altra tutte le attività, licenzia i 19 dipendenti, con la pistola puntata firma finti atti di trasferimento di proprietà delle ville di Ercolano, Diamante e Roccaraso: «Impossibile opporsi. Un pomeriggio dopo che avevano minacciato mio figlio all’uscita da scuola mi portano a casa del boss Vollaro, un tipo con la vestaglia di seta e i capelli impomatati. Ho preso schiaffi, pugni, sono stato gettato dalle scale, nel 2001 ho avuto un infarto e oggi ho 3 bypass. Pensavo che denunciando, come mi incoraggiava a fare lo Stato, sarei riemerso, invece sono solo».

La legge segue il suo corso. Intanto le banche chiudono i conti degli Orsini, i fornitori ricorrono al pignoramento, il listino dell’asta fallimentare svende negozi e case compresa l’ultima - la villa adorna di sfacciatamente rigogliosa bouganville dove abitano mamma, papà, l’unico figlio prossimo alla laurea in Economia con le tasse universitarie pagate dal sindaco Giuseppe Capasso e due gatti macilenti - venduta il 13 ottobre scorso nonostante, grazie all’associazione antiracket di Portici, la Prefettura avesse avviato la procedura di sospensione del sequestro prevista dalla legge 44. Causa burocrazia, l’ok arriva il 25 novembre: troppo tardi per il giudice che, a discrezione, ordina agli ufficiali giudiziari di procedere. Fosse vissuto a Londra, meno di tre ore d’aereo a nord della stessa Europa, sarebbe bastato che Luigi Ursini dichiarasse bancarotta per lasciarsi i creditori alle spalle e ripartire. Qui gli resta solo di raccomandarsi al Paternostro che sta nei cieli perché gli rimetta i suoi debiti. Almeno lui. Luigi stringe a se la moglie che una volta a settimana accompagna le vecchine in chiesa per 5 euro l’ora: «Se un imprenditore sbaglia investimento è colpa sua, ma quando cade perché la criminalità controlla il territorio al posto dello Stato è diverso. Avrei voluto poter lavorare come fossi nato a Bergamo o a Torino». Ma è nato sotto il Vesuvio e , giura, ci resterà: «Con gli ultimi soldi ho comprato due taniche di benzina, se siamo condannati a morte, facciamo da soli».

Fisco, i furbetti di San Marino


Fisco, i furbetti di San Marino


San Marino l’impero dell’evasione fiscale dentro casa: spunta lista di 1200 nomi


Andavano tutti alla Smi Bank di San Marino, il paradiso degli evasori. 1200 i nomi che spuntano da una lista frutto di una rogatoria, datata 2009, del Pm romano Perla Lori, a cui la magistratura sammarinese ha detto sì. La Smi Bank stava saltando tre anni fa, ma viene salvata dalla San Marino Investment (Smi), a sua volta controllata dalla Anphora, del conte Enrico Maria Pasquini, ambasciatore sammarinese in Spagna e Malta, imparentato tramite la moglie con gli Agnelli, capo della barese Ferrotramviara Spa e probabilmente, stando alle indagini, mediatore della malavita organizzata nel riciclaggio; il Gruppo Anphora tramite la Smi dà luogo anche a una holding costituita da una finanziaria e da una società di leasing, e su tutto ciò punta la Procura romana, che ha indagato il conte Pasquini, controllore, diretto o indiretto, anche degli istituti di credito.

La lista di nomi spiega chiaramente quanto sia aperto il mercato dell’evasione sammarinese, ci sono salumieri, macellai, cantanti, imprenditori di ogni risma, azionisti Fiat, pasticcieri, titolari di supermarket. E certo fra tutti spicca il nome del cantante Adelmo Fornaciari, meglio noto come Zucchero, poi i Berloni, re delle cucine. Ma anche il presidente del Cesena Calcio, Igor Campedelli, o Adolfo Guzzini amministratore delegato della marchigiana Guzzini Spa; altro a.d. è quello della Teuco, Mauro Guzzini. Poi Sante Levoni, imprenditore e titolare della Alcar 1 che produce salumi. Ancora: Giancarlo Morbidelli, fondatore della casa motociclistica che porta il suo nome, Emer Borsari del gruppo Borsari, l’immobiliarista Walter Mainetti. Imprenditori edili come Massimo Pessina e Matteo Pelley, quest’ultimo ai vertici della fondazione Carispe. Evadevano dal conte Pasquini, tutti, per somme ancora da chiarire, ma di certo oscillanti su decine di milioni di euro.

Secondo la Gdf gli evasori portavano i soldi alla Smi e quest’ultima li restituiva puliti ai propri clienti. Le accuse per Pasquini e un’altra cinquantina di persone, sono di associazione per delinquere finalizzata al riciclaggio, trasferimento fraudolento di valori, appropriazione indebita ed aggravata e attività abusiva d’intermediazione finanziaria.

Alcuni nomi della lista invece potrebbero aver già saldato, con la latta, il loro conto verso il fisco italiano, grazie al jolly governativo dello scudo fiscale, e rimpatriato così il loro nero, pagando un’accisa insignificante del 5%, e per di più anonimamente. Altri potrebbero aver fruito dei servizi della holding per scontare assegni postdatati, aprire leasing e godere totalmente di agevolazioni fiscali, frutto dell’intestazione fittizia del bene. Altri ancora avrebbero potuto reinvestire il denaro riciclato in azioni, sempre tramite intestazioni fiduciarie, godendo così di una tassazione sammarinese sulle rendite più bassa. Così è San Marino, un dedalo finanziario in black list, cui tal volta la magistratura sammarinese apre le porte.



San Marino. Fra i 1200 che sguazzavano nel paradiso dell'evasione fiscale


Sono tanti i nomi illustri presenti nella lista di conti correnti depositati a San Marino: anche se questo di per sé non rappresenta certamente un reato, l'attenzione mediatica di questi giorni si è concentrata tutta sul Titano e sulle ragioni di questi conti correnti depositati all'estero.

Ci sono il cantante Zucchero, C'è Giovanni Di Giorgi, consigliere regionale del Lazio del Pdl, Valter Mainetti, amministratore di "Sorgente" e immobiliarista", proprietario della galleria Alberto Sordi a Roma. E ancora Giuseppe Gazzoni Frascara, l'ex presidente del Bologna calcio, in lista insieme al figlio Tommaso. Poi il presidente del Cesena Calcio, Igor Campedelli.

E i "capitani" d'industria, Berloni e Guzzini, cinque componenti della famiglia Nasi, azionisti Fiat imparentati con gli Agnelli, Luigi De Simone Niquesa, figlio di Francesco, il re delle acque minerali (Uliveto e Rocchetta). E l'ex calciatore Lorenzo Marronaro, oggi procuratore.

ROGATORIA. La «lista che scotta» è il frutto di una rogatoria (la numero 85 del 2009), con la quale il pubblico ministero romano Perla Lori ha chiesto alle autorità sanmarinesi documenti relativi al Gruppo Anphora, controllore della Smi, quell’h olding, ipotizzando un maxi-riciclaggio di decine di milioni di euro che sarebbero sfuggiti al fisco italiano. Nell’elenco figurano imprenditori (come Antonio Berloni, la cui azienda produce cucine), cantanti (come Adelmo «Sugar» Fornaciari, in arte Zucchero), personaggi dell’ambiente sportivo (come il presidente del Cesena Igor Campedelli), ma pure artigiani e impiegati. Ora la Procura della Repubblica della capitale e l’Agenzia delle entrate li passeranno al setaccio. L’obiettivo di quest’analisi è capire chi abbia portato regolarmente i suoi soldi sul Titano; chi abbia regolarizzato la sua posizione denunciando. attraverso lo scudo fiscale, i capitali detenuti all’estero; chi infine possa essere definito evasore fiscale tout court.

I PADOVANI. Il più noto della lista è Roberto Rigodanzo, di Montegrotto, esponente del Partito Democratico delle Terme, già capogruppo Ds ad Abano. Ma certo sono pure molto conosciuti i fratelli Giampietro e Giorgina Garbo, che gestiscono in città l’i mmobiliare Edil Garbo. Della lista fa parte anche Ivano Baggio, nato a Loreggia, che il primo luglio 1959 festeggerà cinquantun anni, imprenditore edile, che costruisce alloggi un po’ in tutto il Padovano. «Non riesco davvero a capire - afferma al telefono Baggio - come sono finito in quest’elenco». Di Loreggia è pure Silvia Marangon. Di Terrassa Padovana è invece originario Vittorio Baraldo, che lunedì scorso ha compiuto 70 anni. A Rovolon, il 26 dicembre 1956, è nato Gianfranco Bellin, titolare di un’azienda agricola a Selvazzano. «Sì, credo di essere io, i dati anagrafici corrispondono - puntualizza Bellin - Non sapevo nulla di quest’e lenco, nessuno mi ha avvisato di niente. I soldi a San Marino? Mah, io fisicamente non ho portato alcunché sul Titano. Comunque lunedì (domani, ndr) chiederò informazioni al mio avvocato».


GLI ALTRI. Nella lista troviamo ancora Renzo Benetti, nato a Vigonza il 16 aprile 1948. E pure Carlo Borghesan, Padova, 17 aprile 1957. Sono nati nel capoluogo anche Alfonso Miotto, Michela Rigato, Fiorenza Rossi e Claudio Zuliani (che chiude la lista dei 1200). Nell’elenco figurano pure Gianluca Furlan di Borgoricco, Giuseppe Ferraro e Giorgio Giraldo (Vigodarzere), Vittorio Frison (Montagnana), Claudio Rossi, Maurizio Rossi e Giorgio Schiavon (Este), Walter Varotto (Cadoneghe), Gabriele Zanella (Cittadella). Tutti, almeno pare, titolari di un conto nella Repubblica più antica del mondo, che i collezionisti ben conoscono per i suoi francobolli e le sue monete.

sabato 26 giugno 2010

Playboy vintage foto sexy

foto amatoriali. Il sogno di molte ragazze di essere guardate, ammirate, desiderate da occhi sconosciuti è facilmente realizzabile: è sufficiente indossare un intimo sexy, guardare verso il fotografo, lanciare sguardi ammicanti e sorridere.









Droga e armi, otto arresti da Lecco alla Calabria


Droga e armi, otto arresti
da Lecco alla Calabria


Le persone destinatarie dei provvedimenti sono accusate di detenzione a fini di spaccio di sostanze stupefacenti e di detenzione illegale di armi

26/06/2010 Operazione antidroga questa mattina, della Squadra Mobile di Genova, che ha portato alla scoperta di un traffico di stupefacenti che andava da Lecco alla Calabria. Emessi otto provvedimenti di custodia cautelare in carcere, da parte del Gip del tribunale di Genova, Massimo Cusatti, su richiesta del pm Biagio Mazzeo, nei confronti di italiani di origine genovese e calabrese, accusati a vario titolo del reato di detenzione a fini di spaccio di sostanze stupefacenti del tipo ectasy, cocaina, hashih e marijuana, nonchè di detenzione illegale di armi, anche clandestine e corredate da relativo munizionamento e silenziatore. Nel corso delle indagini, avviata ad aprile 2009 e concluse nel novembre dello stesso anno, sono stati effettuati numerosi arresti in flagranza di reato anche nei confronti di tre individui non colpiti oggi da provvedimento restrittivo in quanto tuttora detenuti; sequestrati ingenti quantitativi di sostanza stupefacente, anche in territorio estero e con l'apporto dei collaterali organismi investigativi. I provvedimenti restrittivi sono stati adottati a seguito di una laboriosa attività di indagine, principalmente consistente in appostamenti e pedinamenti effettuati a Genova, a Lecco ed in territorio calabro.

Mafia, preso il superlatitante Falsone Era tra i diciotto ricercati più pericolosi


Mafia, preso il superlatitante Falsone
Era tra i diciotto ricercati più pericolosi


È stato catturato dalla polizia a Marsiglia mentre tornava dalla spesa. Maroni: un altro colpo alla criminalità organizzata

ROMA (25 giugno) - La polizia ha arrestato nel Sud della Francia il capomafia di Agrigento Giuseppe Falsone, che compirà 40 anni il 28 agosto, considerato il latitante più importante dopo Messina Denaro. Falsone, a cui si è giunti grazie anche all'attività informativa dell'Aisi, era tra i 18 latitanti più ricercati. Era sfuggito a un mandato di cattura del 1999 per associazione mafiosa, omicidi e traffico internazionale di sostanze stupefacenti. Dopo la notizia dell'arresto gruppi di agrigentini sono andati davanti la questura per applaudire la polizia gridando «Viva la legalità abbasso la mafia». Il questore di Agrigento è sceso per ringraziare: «Lo seguivamo da almeno un paio di mesi e non lo perdevamo mai di vista. Viveva da solo in quella casa di Marsiglia e stava per mettere su un'impresa di costruzioni edili. È un successo enorme della polizia di Stato e delle squadre mobili di Agrigento e Palermo. Sembrava che non producesse risultati la nostra Mobile, quelli che tutti avremmo voluto vedere, e questo perchè lavorava, per oltre metà del suo tempo a disposizione, proprio per la ricerca e cattura del latitante».

Preso in Francia con la spesa in mano. Falsone è stato catturato dalla mobile di Palermo e da quella di Agrigento insieme agli uomini dello Sco, mentre tornava dalla spesa, con i sacchetti in mano, nella stessa città dove nel 2003 il padrino Bernardo Provenzano si recò per un intervento chirurgico.



Irriconoscibile, più magro, col volto che sembra ritoccato e il naso certamente rifatto, documenti falsi, intestati forse a un favoreggiatore, Falsone continua a negare ai poliziotti che lo hanno fermato di essere il ricercato dal '99 per mafia, omicidio, estorsioni, traffico di droga, gestione illecita di appalti, ha negato di essere quel giovanottone con la camicia a quadretti e la faccia paonazza raffigurato nell'elenco dei 18 latitanti più ricercati nel sito del Ministero. Per avere la conferma definitiva i poliziotti lo hanno sottoposto ai rilievi dattiloscopici: l'esame ha confermato che si tratta del latitante mafioso Giuseppe Falsone. L'arrestato dopo la conferma si è chiuso in un rigido silenzio.

Uomo di fiducia di Provenzano. Falsone, mafioso di Campobello di Licata (Ag), è considerato il capomafia di Agrigento, molto vicino a Bernardo Provenzano, che lo preferì a Maurizio Di Gati, poi divenuto collaboratore di giustizia. Appena tre mesi fa, nell'ambito dell'operazione antimafia Apocalisse, i carabinieri di Agrigento e di Palermo hanno sequestrato beni e società riconducibili al boss Falsone per circa 30 milioni di euro. Il padre del boss, Vincenzo Falsone, è stato il reggente di Cosa nostra ad Agrigento per molti anni e fu ucciso durante la guerra di mafia con gli "Stiddari" agrigentini il 24 giugno del '91 assieme al figlio Angelo, fratello maggiore di Giuseppe.

Secondo alcune inchieste sulla mafia agrigentina, Giuseppe Falsone avrebbe gestito dalla latitanza grossi interessi in diversi settori. Il pentito Giuseppe Sardino, lo scorso ottobre al processo Hiram celebrato nel carcere di Rebibbia, ha riferito in aula che Falsone voleva stabilire rapporti con la massoneria siciliana e romana, ritenendoli utili per Cosa nostra.

Falsone soprannominato il «ragioniere», «gira rigorosamente armato, non si separa mai da palmare e pc portatile. E nella ventiquattrore porta la bibbia e testi di filosofia», ha anche raccontato Sardino che era stato braccio destro e vivandiere di Falsone. Il boss Bernardo Provenzano aveva indicato nei pizzini Falsone col numero 28.

La soddisfazione di Maroni. «Grazie al lavoro straordinario della Polizia oggi è stato inferto un altro eccezionale colpo alla criminalità organizzata con l'arresto del venticinquesimo superlatitante inserito nella lista dei trenta dall'insediamento del Governo». Così il ministro dell'Interno, Roberto Maroni, ha commentato l'arresto del boss. Il ministro ha telefonato al capo della Polizia, prefetto Antonio Manganelli, per congratularsi dell'operazione.

Mantovano: si assottiglia lista latitanti. «Si assottiglia con rapidità fuori dall'ordinario la lista dei 30 latitanti più pericolosi grazie alla efficacia dell'azione di contrasto alla criminalità organizzata delle forze di polizia». Così il sottosegretario all'Interno, Alfredo Mantovano, ha commentato l'arresto del boss Giuseppe Falsone.

DI GATI E FALSONE In guerra per la leadership


DI GATI E FALSONE In guerra per la leadership

Per molti anni, Maurizio Di Gati (attualmente detenuto e collaboratore di giustizia, ndr) e l’ex latitante Giuseppe Falsone, si sono contesi la leadership provinciale di “cosa nostra”. Antonino Giuffrè (attualmente detenuto e collaboratore di giustizia, ndr) era stato incaricato da Bernardo Provenzano di mettere ordine nella cosca in provincia di Agrigento. Il nodo da sciogliere era la nomina del “numero uno”. E a contenderla erano proprio Di Gati e Falsone.

Giuffré più volte aveva indicato Di Gati quale ideale capo mandamento e si era arrivati all’elezione nel summit di Santa Margherita di Belice, nel luglio del 2002, quando l’irruzione dei poliziotti fece saltare tutto. Falsone, dall’altro lato, aveva già iniziato a muovere i primi passi, spalleggiato un mandamento palermitano e da quello di Caltanissetta, nonché dai Capizzi di Ribera.

Ma l’arresto di Giuffré e dei capi mandamento agrigentini, indebolì la posizione di Di Gati. E così Falsone avrebbero deciso di “calcare la mano”, facendo uccidere Carmelo Milioti (freddato a Favara, nel 2003, mentre si trovava dal barbiere) e Giuseppe Bruno (ucciso a Sant’Angelo Muxaro nello stesso anno), appartenente alla cosca dei Fragapane di Santa Elisabetta. Entrambi facevano parte della “squadra” dei fedelissimi di Maurizio Di Gati.



Fu l’arresto di quest’ultimo, avvenuto nel novembre del 2006 ad opera dei carabinieri, a sancire l’ormai certa superiorità di Giuseppe Falsone. Ad incoronarlo ufficialmente capo del mandamento della provincia Agrigentina, fu però Gianni Nicchi, boss palermitano emergente, ed oggi in carcere, arrestato dopo una lunga latitanza. A rivelarlo è stato Giuseppe Sardino, interrogato dai pubblici ministeri della Direzione distrettuale antimafia di Palermo e dai giudici che stanno celebrando con il rito abbreviato il processo “Agorà”. Sardino, interrogato a Milano all’interno dell’aula bunker, ha spiegato le dinamiche che hanno portato alla definitiva elezione di Falsone.

Queste le sue parole:
Sardino - Falsone una volta fa un appuntamento a Naro nella mia campagna, e vengono gente di Palermo.
Giudice – Chi di Palermo?
S – Viene... Gianni Nicchi assieme... Assieme a un altro, So...
G – Ma il Falsone glielo presenta dicendo: “Questo è Gianni Nicchi”?
S – “Questo è Gianni Nicchi”, sì. Era mandato da Palermo, avevano mandato lui.
G – Quindi era mandato come rappresentante di Palermo già...
S – Di Pale... era mandato da parte di Palermo, sì, portava i pizzini lui.
G – E Lei ha visto i pizzini?
S – Sì, li ho visti, ma non so il contenuto.
G – Sì, ma li ha visti uscire da dove? Dalle tasche, così?
S – Sì.
G – E consegnare?
S – Al Falsone. Nicchi allora, era il 2003, non era latitante, allora. Io non so che cosa loro si dicessero, non mi ricordo perfettamente se fu la prima volta che è venuto il Nicchi, o la seconda volta, quando il Nicchi se ne è andato il Falsone mi ha detto che gli avevano dato il mandato che era il rappresentante della provincia di Agrigento.

L’ex latitante, catturato oggi dalla polizia, non è comunque l’unico dalle nostre parti ad occupare importanti ruoli in “cosa nostra”. Gerlandino Messina, il giovane empedoclino tutt’ora latitante, sarebbe, infatti, l’indiscusso numero “2” del mandamento della provincia di Agrigento.

Arrestato in Francia il boss Falsone



Preso a Marsiglia il boss Falsone

Il capomafia di Agrigento stava
tornando a casa da fare la spesa.
Ricchisimo, si era rifatto il naso

AGRIGENTO


Anche il latitante mafioso Giuseppe Falsone, 40 anni il prossimo 28 agosto, «il ragioniere» di Campobello di Licata, diventato più boss di suo padre nella provincia agrigentina, è caduto come un birillo colpito dagli investigatori delle squadre mobili di Agrigento e Palermo, dallo Sco, con la collaborazione dell’Aisi.



È stato preso con i sacchetti della spesa in mano mentre rientrava a casa a Marsiglia, in Francia, cittadina marinara cara a Bernardo Provenzano, il padrino che lì si operò alla prostata, e che chiamava nei pizzini il suo uomo nella zona dei Templi col numero «28». Irriconoscibile, più magro, col volto che sembra ritoccato e il naso certamente rifatto, documenti falsi, intestati forse a un favoreggiatore, Falsone continua a negare ai poliziotti che lo hanno fermato di essere il ricercato dal ’99 per mafia, omicidio, estorsioni, traffico di droga, gestione illecita di appalti, nega di essere quel giovanottone con la camicia a quadretti e la faccia paonazza raffigurato nell’elenco dei 18 latitanti più ricercati nel sito del Mininterno.

Per avere la conferma definitiva i poliziotti lo hanno sottoposto ai rilievi dattiloscopici: le impronte saranno confrontate con quelle in archivio. «Lo seguivamo - dice il questore di Agrigento Girolamo Di Fazio - da almeno un paio di mesi e non lo perdevamo mai di vista. Viveva da solo in quella casa di Marsiglia e stava per mettere sù un’impresa di costruzioni edili. È un successo enorme della polizia di Stato e delle squadre mobili di Agrigento e Palermo. Sembrava che non producesse risultati la nostra Mobile, quelli che tutti avremmo voluto vedere, e questo perchè lavorava, per oltre metà del suo tempo a disposizione, proprio per la ricerca e cattura del latitante». Dopo la notizia dell’arresto gruppi di agrigentini sono andati davanti la questura per applaudire la polizia gridando «Viva la legalità abbasso la mafia». Di Fazio è sceso in strada ringraziandoli.

Ricchissimo, ha subito diversi sequestri di beni, tra cui uno da 30 milioni di euro, Falsone godeva appieno dell’appoggio di tutta la sua famiglia di sangue tant’è che anche la madre, la sorella, il fratello, il cugino erano stati arrestati. La sua carriera in Cosa nostra non poteva non svilupparsi considerato che è figlio di Vincenzo Falsone, reggente di Cosa nostra ad Agrigento per molti anni che fu ucciso durante la guerra di mafia con gli ’Stiddarì agrigentini il 24 giugno del ’91 con l’altro figlio Angelo, fratello maggiore di Giuseppe. Il ragioniere vendicò il delitto uccidendo Salvatore Ingaglio, che lui considerava uno degli assassini del padre o sicuramente uno dei componenti della Stidda che ordinò il delitto. Condannato all’ergastolo per omicidio ha subito altre condanne per decenni di carcere. Falsone «gira rigorosamente armato, non si separa mai da palmare e pc portatile. E nella ventiquattrore porta la bibbia e testi di filosofia», ha raccontato l’ex consigliere comunale di An a Naro (Ag) Giuseppe Sardino che era stato braccio destro e vivandiere di Falsone prima di pentirsi. Nell’inchiesta che portò all’arresto di Sardino emerge che un «alto esponente della polizia giudiziaria» aveva fornito notizie al boss sulle indagini per la sua cattura attraverso l’avvocato Luisa Maniscalchi, anche lei arrestata. Se Falsone si pentisse i magistrati alzerebbero il velo su decenni di rapporti tra mafia e politica nell’agrigentino. Intanto la politica ha fatto i complimenti agli investigatori. Tra gli altri il plauso è arrivato dai ministri Maroni («Un colpo eccezionale a Cosa Nostra») e Alfano («giornata felice per l'Italia»), dal presidente del Senato Schifani e dal governatore Lombardo.

venerdì 25 giugno 2010

Napoli, false indennità di disoccupazione Scoperta maxitruffa ai danni dell'Inps


Napoli, false indennità di disoccupazione
Scoperta maxitruffa ai danni dell'Inps


In migliaia hanno percepito le indennità dopo essere stati assunti e poi licenziati da piccoli imprenditori e negozianti

NAPOLI (25 giugno) - È una truffa di proporzioni enormi quella delle finte indennità di disoccupazione su cui indaga la Procura di Napoli dopo una segnalazione dell'Inps. È stato accertato che migliaia di persone hanno percepito indebitamente le indennità dopo essere state assunte e poi licenziate fittiziamente da centinaia di piccoli imprenditori e negozianti. Molte di loro sarebbero risultate destinatarie dei sussidi a loro insaputa.

L'inchiesta, coordinata dai pm Ettore La Ragione e Giancarlo Novelli, ruota intorno alla figura di un consulente del lavoro, titolare di un patronato e di un caf, centro di assistenza fiscale. Quest'ultimo, grazie alla possibilità di accedere alla banca dati dell'Inps, avrebbe «costruito» le migliaia di false assunzioni e avrebbe poi provveduto ai relativi licenziamenti, per fare in modo che l'istituto di previdenza erogasse le indennità di disoccupazione.

Nel corso di una perquisizione avvenuta nei giorni scorsi, la polizia ha sequestrato computer e materiale cartaceo così copioso che per trasportarlo è stato necessario un furgone. A giudizio degli investigatori, quel materiale non solo «incastra» l'artefice della truffa, ma consente di ricostruire con precisione l'iter seguito e l'identità dei beneficiari degli indennizzi. Sequestrate anche carte d'identità contraffatte.

L'intervento della polizia ha impedito che venissero perfezionate altre pratiche già pronte; è stato calcolato che, se il piano fosse stato attuato, il danno complessivo sarebbe stato di cento milioni di euro. Meno imponente, ma comunque ammontante a decine di milioni di euro, la somma effettivamente erogata. Il record delle assunzioni appartiene a un negozio di scarpe, per il quale risultano assunti un centinaio di dipendenti. Tutti però stati licenziati dopo poche settimane.

Camorra, nel Casertano sequestro e confisca beni dei clan dei Casalesi


Camorra, nel Casertano sequestro e confisca beni dei clan dei Casalesi

Caserta (25 giugno) - La Direzione Investigativa Antimafia di Napoli ha eseguito un decreto di confisca ed uno di sequestro di beni, nei confronti di due esponenti del clan camorristico dei Casalesi, emessi dalla Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere.

Ad Antonio Santamaria, di 35 anni, di Cancello Arnone, sono state confiscate le disponibilità finanziarie ed è stata notificata l'applicazione della misura di prevenzione della Sorveglianza Speciale della Pubblica Sicurezza, con obbligo di soggiorno nel comune di residenza per due anni e mezzo. A Rocco Veneziano, di 57 anni, di Castel Volturno, la Dia ha sequestrato beni per un valore complessivo stimato di un milione di euro. Si tratta, in particolare, di un appezzamento di terreno e di un fabbricato a Casal di Principe, nonchè di una quota del capitale sociale della srl «Immobiliare Colle Vertè, con sede a Terni. Veneziano è stato di recente condannato a due anni e otto mesi di reclusione per associazione per delinquere di tipo mafioso. È infatti considerato appartenente al clan dei Casalesi (gruppo Bidognetti). In particolare l'uomo è stato considerato il punto di riferimento per la gestione di interessi economici del sodalizio camorrista. Infatti Veneziano, di professione geometra ed imprenditore edile, sfruttando la sua figura di insospettabile professionista, si prestava a garantire assistenza, a predisporre la documentazione per indire gare di appalto ed a fornire i nomi delle imprese 'pulitè, alle quali poter assegnare lavori per favorire gli interessi del clan. La richiesta dei provvedimenti nei confronti dei due esponenti del gruppo camorristico casertano è stata avanzata, al termine di lunghe indagini, dal direttore della Dia, gen. Antonio Girone

giovedì 24 giugno 2010

Antimafia, direttiva ai prefetti contro le infiltrazioni negli appalti sul calcestruzzo


Antimafia, direttiva ai prefetti contro le infiltrazioni negli appalti sul calcestruzzo

È firmata dal ministro Maroni, riguarda le attività legate agli impianti di estrazione. Il documento prevede la creazione di white lists e valorizza i protocolli con le associazioni di imprese


Il ministro dell'Interno Roberto Maroni ha firmato una direttiva sui controlli antimafia indirizzata ai prefetti. Lo ha comunicato lui stesso questa mattina a Palazzo Chigi al Consiglio dei ministri, illustrandone in conferenza stampa contenuti e obiettivi.

Il documento riguarda i controlli sulle attività imprenditoriali soggette ad appalto pubblico legate alle cave, ossia gli impianti di estrazione: gestione del ciclo del calcestruzzo e degli inerti, trasporto terra, smaltimento in discarica dei residui di lavorazione e dei rifiuti, servizi di guardiania, cottimi, noli a caldo e a freddo.
Si tratta di attività, ha spiegato il ministro, «a valle della fase di aggiudicazione» ma particolarmente esposte al rischio di infiltrazione da parte delle cosche locali che, soprattutto in determinate zone, esercitano di fatto una specie di monopolio, in ciò condizionando tutti gli aspetti dell'approvvigionamento dei materiali.

La direttiva emanata da Maroni - proposta nel corso dell'ultima sua audizione in Commissione parlamentare Antimafia - si muove sul terreno della prevenzione e proprio per questo consentirà«un'azione precisa e forte per la formazione delle cosiddette white list», già impiegate per gli appalti legati alla ricostruzione dopo il terremoto in Abruzzo e all'Expo 2015 a Milano.

Fondamentale per l'individuazione di queste imprese affidabili è, secondo Maroni, la collaborazione, già avviata, tra ministero dell'Interno, prefetture e associazioni di imprese attraverso il sistema pattizio dei protocolli, che la direttiva punta a valorizzare.

L'impianto della direttiva si aggiunge al complesso di strumenti messi in campo dal Piano straordinario contro le mafie approvato dalla Camera dei Deputati nel maggio scorso. E consente, ha sottolineato Maroni al termine della conferenza stampa, di «guardare con ottimismo alla lotta alla criminalità organizzata soprattutto attraverso l'aggressione ai patrimoni mafiosi, la frontiera che intendiamo presidiare».

Questi i risultati della strategia al 31 maggio: beni sequestrati per un totale di circa 12 miliardi; 2 miliardi in titoli già confluiti nel Fondo unico giustizia, a disposizione della Forze dell'ordine per il contrasto al crimine organizzato.



La mafia si combatte anche con la formazione
Seminario sull'aggressione ai patrimoni mafiosi alla Scuola superiore dell'amministrazione dell'Interno. Tra i relatori il capo dell'Agenzia nazionale beni confiscati Morcone. Prossimo appuntamento l'8 luglio


Cosa c'è dietro la strategia di contrasto alla criminalità organizzata basata sull'aggressione ai patrimoni mafiosi che negli ultimi 3 anni ha portato al sequestro di beni illegali per oltre 11 miliardi?

All'attività investigativa si affiancano procedure e meccanismi tecnico-giuridici oggi al centro della prima giornata del percorso formativo 'antimafia' che si è svolta a Roma presso la Scuola superiore dell'amministrazione dell'Interno (Ssai). Il seminario ha avuto come relatori d'eccezione il direttore dell'Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, prefetto Mario Morcone, il direttore della direzione investigativa antimafia, generale dei carabinieri Antonio Girone, e il capo dell’ufficio analisi criminale del dipartimento della pubblica sicurezza del ministero dell'Interno Enzo Calabria.

Interventi qualificati necessari per spiegare quello che il direttore dell'Agenzia nazionale Morcone ha definito nel suo intervento il «complesso ingranaggio» che sta dietro alla sottrazione dei beni 'criminali', una delle priorità del Governo. Perché l'aggressione ai patrimoni illeciti delle organizzazioni mafiose - ha proseguito Morcone 'citando' il ministro dell'interno Maroni - ha un duplice valore: simbolico, come messaggio forte dello Stato che persegue a 360° i criminali, ma anche concreto e sostanziale «perché toglie alla criminalità organizzata stessa risorse economiche fondamentali per lo sviluppo dei suoi traffici illegali».

Morcone ha illustrato il percorso che ha portato alla creazione dell'Agenzia, pensata per governare in modo più organico la gestione dei beni sequestrati. L'Agenzia, infatti, svolge un’attività di affiancamento e supporto all’autorità giudiziaria durante tutta la fase del sequestro, perché non ci sia soluzione di continuità tra sequestro, confisca e fasi successive. L'organismo si configura, inoltre, come «ente di programmazione» dell’utilizzo dei beni confiscati, una sorta di «cabina di regia nazionale» per orientare in questo campo l'azione istituzionale e delle varie componenti della società civile.

La prossima giornata formativa, in programma per l’8 luglio sempre alla Ssai, sarà dedicata all'attività amministrativa di prevenzione, in particolare rispetto ai tentativi di infiltrazione mafiosa negli appalti di opere pubbliche.

Pozzuoli, maxiblitz dei carabinieri in corso contro i Longobardi-Beneduce: 84 arresti


Pozzuoli, maxiblitz dei carabinieri in corso
contro i Longobardi-Beneduce: 84 arresti


Con l'operazione «Penelope» azzerata l'organizzazione dei clan Beneduce e Longobardi. I Pm: essenziali le intercettazioni

Pozzuoli: maxiblitz contro i clan flegrei 84 arresti, affari anche nel mercato ittico

POZZUOLI (24 giugno) - Ottantaquattro arresti eseguiti nell'area flegrea, tra Pozzuoli, Quarto e Monterusciello. È il bilancio dell'operazione «Penelope» portata a termine stamattina dai carabinieri del comando provinciale di Napoli e della compagnia di Pozzuoli contro affiliati al clan Beneduce-Longobardi.


Associazione mafiosa, estorsioni, detenzione di armi, tentato omicidi sono i reati contestati a vario titolo ai destinatari dei provvedimenti emessi su richiesta dei pm della Dda di Napoli Antonello Ardituro, Gloria Sanseverino e Raffaella Capasso. L'operazione rappresenta il completamento di una indagine che nel 2003 portò all'arresto di 40 esponenti della cosca per estorsioni al mercato ittico di Pozzuoli.

Sono coinvolti esponenti delle due «famiglie» che presero il sopravvento nell'area flegrea nel 1997 a conclusione di un sanguinoso scontro con i rivali del clan Sebastiano-Bellofiore. Alla pax mafiosa fece seguito un contrasto tra i Longobardi e i Beneduce (con i primi alleati al gruppo dei «quartesi») per il controllo di una serie di attività illecite come le estorsioni, il traffico di stupefacenti e la gestione dei videopoker negli esercizi commerciali della zona, con l'intrusione del clan cittadino dei Sarno (poi sgominato da arresti e pentimenti dei boss).

I dissidi tra i Beneduce e i Longobardi si sono poi ricomposti nel tempo e le due famiglie hanno continuato a gestire le attività illegali. Con gli arresti di oggi, come hanno spiegato gli investigatori, l'organizzazione è stata praticamente «azzerata». Tra gli arrestati figura anche Giuseppe Del Giudice, noto assicuratore della zona con rapporti di frequentazione con numerose persone «insospettabili» e con legami con il boss Gaetano Beneduce.

Destinatari dei provvedimenti restrittivi lo stesso Gaetano Beneduce (per la prima volta in un atto giudiziario accusato come capo e promotore dell'associazione), nonchè affiliati impegnati in imprese commerciali (i titolari di un ristorante, di una gioielleria e di un ormeggio) e in aziende che operano nel settore dell'edilizia. Nell'ambito dell'inchiesta è stata sequestrata la Groess Gel che opera nel settore del commercio all'ingrosso di prodotti ittici e che sarebbe direttamente riferibile a Gaetano Beneduce.

L'indagine si fonda in particolare su intercettazioni telefoniche, uno strumento di indagine che gli inquirenti giudicano essenziale per scoprire le attività delle cosche. Lo ha sottolineato il procuratore della Repubblica Giovandomenico Lepore. «La criminalità organizzata non si combatte con i testimoni, che non ci sono, nè con documenti perchè i clan non fanno “atti costitutivi”», ha detto Lepore. «Se il ministro della Giustizia e il ministro dell'Interno possono vantarsi di grandi operazioni contro la criminalità organizzata - ha aggiunto - è perchè ci sono intercettazioni telefoniche, senza intercettazioni non ce la faremmo mai». Il procuratore di Napoli ha sostenuto che con la riforma le inchieste contro i clan subirebbero danni in quanto sussisterebbero comunque «lacci e lacciuoli che impediscono di fare quello che dobbiamo fare».

Nel corso di indagini sul clan camorristico dei “Longobardi-Beneduce” operante nell’area di Pozzuoli coordinate dalla Procura Distrettuale Antimafia partenopea i militari dell’Arma hanno scoperto il controllo del clan “Longobardi-Beneduce” sulle attività imprenditoriali e commerciali, un vasto giro di estorsioni ed il controllo delle “piazze di spaccio” della zona nonché documentato una scissione del sodalizio criminale e l’alleanza delle due fazioni risultanti con gruppi criminali di Napoli.

Secondo gli inquirenti, guidati dal capitano Lorenzo D'Aloia, il capo dell'organizzazione è il boss Gaetano Beneduce, in carcere e raggiunto da un'ordinanza di custodia cautelare. In cella anche i due figli, Massimo e Rosario, arrestati questa mattina. In manette sono finiti anche un ristoratore, un assicuratore e altri imprenditori legati a vario titolo al clan. Sequestrata anche una società di grossisti che lavorava all'interno del mercato ittico di Pozzuoli, il più grande della zona.