REGGIO CALABRIA - Dopo Roberto Moio, genero del boss Giovanni Tegano, decide di collaborare con la giustizia anche Antonino Lo Giudice, boss emergente e, dicono gli inquirenti, disposto a tutto pur di non perdere gli ingenti beni sequestrati nei mesi scorsi al fratello Massimo su richiesta della Dda reggina guidata da Giuseppe Pignatone. Una risposta dello Stato che Lo Giudice non ha sopportato proprio.
Nei prossimi giorni, quando partiranno le verifiche dopo i primi verbali sottoscritti la scorsa notte a Rebibbia dinanzi al Procuratore Pignatone ed ai suoi più stretti collaboratori, quanto accaduto negli ultimi dieci anni a Reggio Calabria potrà assumere contorni molto più nitidi. Il fenomeno del pentitismo comincia a fare breccia, dunque, anche nella 'ndrangheta.
Cade il mito della sua impenetrabilita' insieme alla convinzione dell'organizzazione "orizzontale" della criminalità calabrese, che non è composta da cosche tra loro indipendenti e scollegate, come si credeva un tempo, ma da una "cupola", sulla falsariga di Cosa nostra, con pieni poteri decisionali cui tutti gli affiliati devono attenersi. Ma il dato più significativo del pentimento di Antonino Lo Giudice è che il boss fermato il 7 ottobre perché accusato a sua volta da quattro collaboratori di giustizia, tra cui il fratello Maurizio, ha confessato di essere l'organizzatore delle intimidazioni compiute contro i magistrati di Reggio Calabria. A partire dalla bomba fatta esplodere il 3 gennaio scorso contro la Procura generale di Reggio Calabria. Cui sono seguiti l'attentato del 26 agosto contro l'abitazione del procuratore generale, Salvatore Di Landro, ed il ritrovamento il 5 ottobre scorso di un bazooka davanti gli uffici della Dda. A questo punto, tra l'altro, perde clamorosamente consistenza la pista che era emersa in un primo tempo in merito alle intimidazioni ai magistrati che faceva riferimento ad una presunta responsabilità della cosca Serraino e ad una sua reazione dopo la revoca di alcuni fascicoli processuali all'ex pg Franco Neri.
Resta da capire perché Antonino Lo Giudice abbia organizzato le intimidazioni ai magistrati reggini e cosa abbia spinto il boss ad avviare la sua collaborazione con la giustizia. Sul primo punto, in particolare, i magistrati della Dda e gli investigatori non si sbilanciano. I motivi del suo pentimento, invece, sarebbero da collegare alla consapevolezza da parte del boss della determinazione da parte dei magistrati nella lotta contro la 'ndrangheta. A Reggio Calabria ormai, ha detto un investigatore, l'aria è cambiata. L'impunità dei boss è finita e si registra una rapidità ed una concretezza nei processi decisionali un tempo sconosciute.
Una concretezza di cui la prima vittima è stato lo stesso Antonino Lo Giudice, nei confronti del quale il procuratore Pignatone e l'aggiunto, Michele Prestipino, una volta raccolti gli elementi di prova, hanno emesso un provvedimento di fermo senza attendere l'ordinanza di custodia cautelare ed evitando, così, oltre a perdite di tempo, che il boss potesse darsi alla fuga. In questo quadro già così incandescente s'inserisce l'arrivo a Reggio Calabria dell'Esercito, che da lunedì attuerà la vigilanza fissa negli uffici della Procura generale e della Dda, alla Corte d'appello e nell'abitazione di Di Landro per prevenire ulteriori intimidazioni da parte della 'ndrangheta. ''Una presenza - ha sottolineato il prefetto, Luigi Varratta - che consentirà alle forze dell'ordine di occuparsi esclusivamente delle indagini e che sarà limitata agli obiettivi sensibili che sono stati individuati. La presenza dell'Esercito, in ogni caso - ha aggiunto Varratta - non si tradurrà in una militarizzazione della città. Anche perché Reggio non ne ha alcun bisogno".
Ezio De Domenico
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