martedì 14 dicembre 2010

Omicidio Di Matteo, Graviano chiede di intervenire al processo

Il capomafia di Brancaccio è accusato del rapimento e del delitto del piccolo Giuseppe, sequestrato nel '93. Il 10 gennaio l'udienza



PALERMO. Il capomafia di Brancaccio, Giuseppe Graviano, ha chiesto di essere sentito al processo per l'omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito Santino, sequestrato nel '93 e assassinato dopo 779 giorni di prigionia dalla mafia.

Graviano è imputato del rapimento e del delitto, davanti alla Corte di Assise di Palermo, insieme al boss latitante Matteo Messina Denaro e ad alcuni sequestratori nella terza tranche di indagine dell'omicidio del bambino.

La richiesta del capomafia, che negli ultimi anni si è sempre rifiutato di rispondere in un dibattimento, è arrivata a sorpresa al termine dell'udienza di oggi in cui si era svolto il controesame, sostenuto dai legali degli imputati, del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza. Rispondendo alle domande dei legali, il pentito ha ripercorso in aula alcune fasi del sequestro, a cui Spatuzza stesso partecipò. Il collaboratore ha descritto, ad esempio, il magazzino in cui il bambino venne lasciato subito dopo il rapimento avvenuto in un maneggio di San Giuseppe Jato.

Alla scorsa udienza Spatuzza, interrogato dal Pm Fernando Asaro, aveva ripercorso le drammatiche fasi del sequestro, deciso dalla mafia per indurre il padre del bambino a ritrattare e aveva chiesto perdono alla madre della vittima. «Se avessero denunciato subito la scomparsa del bambino – ha detto oggi Spatuzza - forse le cose non sarebbero andate così».

Il processo è stato rinviato al 10 gennaio per l'esame di Graviano. L'ultima volta che il capomafia di Brancaccio ha preso la parola in un processo è stata al dibattimento a carico del senatore Marcello Dell'Utri, accusato di concorso in associazione mafiosa. Allora, però, il boss, chiamato a riscontrare proprio le dichiarazioni di Spatuzza, si limitò a dire che le sue condizioni psicologiche, determinate dal carcere duro, non gli consentivano di rispondere alle domande dell'accusa.

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