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sabato 20 novembre 2010
Mafia, la Corte d'Appello di Palermo: Dell'Utri mediatore tra boss e Berlusconi
Fu lui a convincere Berlusconi a assumere Mangano
PALERMO (19 novembre) - Il senatore Marcello Dell'Utri avrebbe svolto una attività di «mediazione» e si sarebbe posto quindi come «specifico canale di collegamento» tra Cosa nostra e Silvio Berlusconi. Lo scrivono i giudici della Corte d'Appello di Palermo nelle motivazioni, depositate oggi della sentenza con la quale Dell'Utri è stato condannato il 29 giugno scorso a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Il senatore ed ex manager di Publitalia è stato condannato il 29 giugno scorso a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa.
Per i giudici, Dell'Utri «ha apportato un consapevole e valido contributo al consolidamento e al rafforzamento del sodalizio mafioso». In particolare, l'imputato avrebbe inoltre consentito ai boss di «agganciare» per molti anni Berlusconi, «una delle più promettenti realtà imprenditoriali di quel periodo che di lì a qualche anno sarebbe diventata un vero e proprio impero finanziario ed economico». Per questi motivi la Corte ritiene «certamente configurabile a carico di Dell'Utri il contestato reato associativo».
Il mafioso Vittorio Mangano fu assunto, su intervento di Marcello Dell'Utri, come «stalliere» nella villa di Arcore non tanto per accudire i cavalli ma per garantire l'incolumità di Silvio Berlusconi. Lo scrivono nelle motivazioni della sentenza di condanna del senatore del Pdl, i giudici della corte d'appello di Palermo presieduta da Claudio Dall'Acqua.
«Nella sostanza sono le stesse accuse del primo processo. Non c'è nulla di nuovo: è una materia trita e ritrita». Così il senatore del Pdl Marcello Dell'Utri, dopo la divulgazione delle motivazioni della sentenza che lo ha condannato a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa. «Della risposta alle motivazioni - sottolinea il senatore - se ne occuperà l'avvocato Krogh. Io non posso fare altro che attendere fiducioso la sentenza finale della Cassazione, dopo 15 anni di processi su fatti di 36 anni fa».
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