POTENZA - Ha strozzato l’imprenditore per anni, fino a ridurlo sul lastrico. Da miliardario a nullatenente. E le prove raccolte dai carabinieri del Ros lo dimostrano. Hanno portato alla condanna in primo grado e alla sua conferma in appello. Ieri mattina i giudici della Corte d’Appello di Potenza, presieduta dal giudice Vincenzo Autera, hanno condannato a 14 anni di reclusione il boss potentino Renato Martorano, che per gli investigatori è il massimo esponente della ’ndrangheta in Basilicata.
L’accusa: estorsione aggravata dal metodo mafioso e usura.
Il 6 maggio dello scorso anno, Renato Martorano, detenuto in regime di carcere duro a Cuneo (il 41 bis dell’ordinamento penitenziario), era stato condannato dal collegio del Tribunale di Potenza, con l’accusa di aver strozzato fino al ridurlo sul lastrico l’imprenditore edile Carmine Guarino, il re del movimento terra a Potenza. Secondo l’ipotesi dell’accusa, rappresentata in primo grado dal pm antimafia Francesco Basentini e, in appello dal sostituto procuratore generale Luigi Liguori, Renato Martorano sarebbe stato al centro di un vasto giro d’usura. Il boss avrebbe fatto da intermediario per altri imprenditori.
I nomi degli imprenditori potentini che finanziavano Martorano sono stati svelati in aula da Carmine Guarino, ma erano stati annotati anche sui foglietti ritrovati a casa dell’imprenditore strozzato. Si tratta dei cosidetti «pizzini» di Martorano, sui quali pare che il boss scrivesse i nomi dei creditori di Guarino e l’ammontare del debito. Gli imprenditori Matteo Di Palma, gestore di una sala giochi di Bucaletto (l’unico che è stato ascoltato nel corso del processo, in qualità di «testimone assistito» dal legale Mario Marinelli), Gerardo Vernotico e l’ingegnere Nicola Giordano, arrestati a settembre dello scorso anno, sono stati rimessi in libertà e ora sono a giudizio nell’ambito del procedimento denominato «Nibbio2».
Ma, oltre a questi ultimi, tra i finanziatori, ci sarebbero anche dei «calabresi» e dei «napoletani».
I giudici, in primo grado, hanno condannato Martorano per estorsione aggravata dal metodo mafioso ed usura perché, come spiegano nelle motivazioni della sentenza, il boss prima avrebbe prestato del denaro a Guarino, con tassi d’interesse del dieci per cento, quindi usurai, e poi avrebbe fatto pressione per averlo indietro.
E qui sarebbero intervenute le minacce.
«Nel corso dell’istruttoria è stato ampiamente provato che l’imputato abbia posto in essere minacce nei confronti della persona offesa - scrivono i giudici - per assicurarsi ingiusti profitti derivanti dal suddetto reato di usura».
L’imprenditore strozzato e la sua segretaria hanno sempre ribadito di non aver ricevuto delle minacce dirette, ma per il collegio giudicante questo non vuol dire nulla. Che Carmine Guarino temesse Renato Martorano e i suoi scagnozzi è emerso dalle conversazioni telefoniche tra lui e la sua segretaria, fanno notare i giudici, e dalle testimonianze delle persone a lui più vicine.
Il boss, ieri mattina, si è difeso dicendo che è tutta colpa della «nomea» che si è fatto. Insomma sarebbe «vittima» della sua fama di mafioso.
«Con questo nome che porto non ho la possibilità di riemergere», ha concluso Martorano in videoconferenza.
Il principale imputato ha provato a difendersi, ha detto di aver contattato Matteo Di Palma solo una volta perché doveva acquistare una macchina per la badante della madre ma di non aver avuto altri rapporti con lui.
I giudici non gli hanno creduto.
Né tantomeno hanno dato ascolto all’arringa di uno dei due difensori del boss, l’avvocato Pasquale Bartolo del foro di Roma. Il legale, che ha chiesto l’assoluzione del suo assistito perché «non c’è reato», ha contestato il reato di estorsione attribuito a Martorano e la formulazione del capo d’imputazione.
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