NAPOLI - La parola chiave è vendetta. A sentire Alberto Amendola, assassino reo confesso di Teresa Buonocore, la vendetta era il sentimento dominante, istinto immediato di fronte a ogni possibile ostacolo, ma anche unica strategia possibile per risolvere piccoli e grandi litigi.
E allora: vendetta per una denuncia di abusivismo, vendetta contro una multa, vendetta per la testimonianza di una donna che aveva trovato il coraggio di difendere la figlia da possibili molestie.
Aula 113, tensione a fette, parla il presunto assassino di Teresa Buonocore, la donna uccisa lo scorso settembre all’ingresso del porto di Napoli, al termine di un attentato studiato in ogni particolare. Davanti al gip Egle Pilla, Amendola conferma le confessioni rese ai pm nei mesi scorsi e aggiunge particolari sui coniugi Enrico Perillo e Patrizia Nicolino, entrambi indagati a piede libero come mandanti del delitto.
Lui, Amendola, si racconta: «Sono stato per anni schiavo della famiglia Perillo, ho partecipato all’agguato, ma non ho premuto il grilletto. È stato Giuseppe Avolio, fu lui a sparare, io portavo il motorino». In ballo c’era anche una ricompensa - quindicimila euro - tanto valeva la morte di Teresa, da spartirsi in due, oltre al rinnovato senso di affiliazione in un contesto familiare ancora tutto da decifrare.
Difesi dai penalisti Gennaro Lepre e Leopoldo Perone Amendola e Avolio sono in cella, ammettono di aver agito per conto dei Perillo, anche se si rimpallano la responsabilità dei cinque colpi esplosi contro Teresa Buonocore...
di Leandro Del Gaudio
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