mercoledì 18 maggio 2011

Cammarata e Casteltermini, blitz “Kamarat” nella notte: 4 arresti

I provvedimenti notificati ad Angelo Longo, Mariano Gentile, Giovanni Calogero Scozzaro e Vincenzo Giovanni Scavetto, al quale sono stati concessi i domiciliari. A parlare di loro anche molti collaboratori di giustizia

Operazione antimafia nella notte nella zona della montagna della provincia di Agrigento.  I carabinieri della compagnia di Cammarata, unitamente ai militari del Roni (Reparto Operativo Nucleo Investigativo ) di Agrigento, a conclusione dell’operazione denominata “Kamarat” coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo, hanno arrestato: Angelo Longo, 47anni di Cammarata, per aver fatto parte, con ruolo di direzione dopo la morte del padre Luigi Longo, della famiglia mafiosa di Cammarata; Mariano Gentile, 58 anni, di Cammarata per aver fatto parte della famiglia mafiosa di Castronovo di Sicilia e fatto da tramite con la famiglia mafiosa di Cammarata; Giovanni Calogero Scozzaro 53 anni di Casteltermini e Vincenzo Giovanni Scavetto, 71 anni di Casteltermini, quest’ultimi per aver fatto parte della famiglia mafiosa di Casteltermini. I provvedimenti di custodia cautelare sono stati firmati dal Gip del Tribunale di Palermo, Fernando Sestito, su richiesta del procuratore aggiunto della Dda, Vittorio Teresi e dei sostituti Giuseppe Fici ed Emanuele Ravaglioli. Nell’inchiesta sono coinvolti altri 12 soggetti, indagati a piede libero, per i quali il Gip non ha disposto nessuna misura restrittiva.Particolarmente importante la figura di Angelo Longo, ritenuto responsabile anche di aver, in concorso con Giovanni Brusca, Leoluca Biagio Bagarella, Enzo Salvatore Brusca, Giuseppe Monticciolo, Vincenzo Chiodo, Antonino Di Caro, Antonio Costanza, Gerlandino Messina, Salvatore Longo, Alfonzo Falzone, Luigi Putrone, Michele Traina, privato della libertà personale il piccolo Giuseppe Di Matteo, di 13 anni, allo scopo di intimidire ed indurre il padre Mario Santo Di Matteo a ritrattare le dichiarazioni rese ai magistrati. Le persone arrestate sono stati rinchiuse presso la Casa Circondariale “Pagliarelli” di Palermo. Il blitz di oggi rappresenta l’esito di approfondite investigazioni svolte dalla Compagnia dei Carabinieri di Cammarata e delle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, tra cui Beniamino e Maurizio Di Gati di Racalmuto, Alfonso Falzone e Luigi Putrone di Porto Empedocle, Giuseppe Salvatore Vaccaro di Sant’Angelo Muxaro e del palermitano Antonino Giuffrè, finalizzate ad illuminare l’attuale composizione delle famiglie mafiose di Cosa Nostra operanti nel territorio dei Comuni di Cammarata, San Giovanni Gemini, Castronovo di Sicilia e Casteltermini.


Di particolare interesse, nell’operazione antimafia “Kamarat” il coinvolgimento di Angelo Longo, nel sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo, ucciso e  sciolto nell’acido, per fargliela pagare al padre, Santino Di Matteo, uno dei primi pentiti di mafia. Il nonno, Giuseppe Di Matteo, detto Zu Piddu, era l’anziano capofamiglia dei Di Matteo, una famiglia di Altofonte affiliata alla mafia da generazioni, rispettosa dei codici tramandati nel tempo che legano tra loro gli uomini d’onore. Ma Zu Piddu è anche il padre di Santino, il primo pentito a rivelare i retroscena delle stragi dove trovarono la morte i giudici Falcone e Borsellino. Ma è soprattutto il nonno del piccolo Giuseppe, il protagonista involontario della storia, il bambino che è stato sequestrato dalla mafia e, dopo circa due anni di prigionia, fatto uccidere da Giovanni Brusca e sciolto nell’acido. Il tutto solo per farla pagare al padre, considerato un infame a causa del suo pentimento. Il piccolo Giuseppe, nato il 19 gennaio 1980 ad Altofonte, terra intrisa di tradizioni mafiose, era un ragazzino pieno di vita, che andava a scuola e amava andare a cavallo: proprio per questo già nell’età dell’infanzia aveva cominciato a coltivare questa passione allenandosi per le gare a ostacoli. Segnato dall’arresto del padre, e dal successivo pentimento, che ha squarciato il velo di omertà e ipocrisia, tipico di tutte le famiglie mafiose, Giuseppe si era chiuso in sé stesso e rifugiato sempre di più nella sua passione, portando con se una sola colpa involontaria: essere il figlio di colui che ormai era considerato dai corleonesi un infame, un traditore, uno cui fargliela pagare. Solamente per questa ragione, nel novembre del 1993, mentre si trovava al maneggio, venne rapito dagli uomini di Giovanni Brusca, e da lì iniziò il suo calvario, che si protrasse per ben 779 giorni di prigionia, spostato da un bunker all’altro, sempre tenuto nell’oscurità e nella sporcizia, malnutrito e guardato a vista dagli ex amici del padre, alcuni dei quali erano padri di famiglia, vecchi frequentatori della sua casa e suoi ex compagni di videogiochi. Il tutto finché un giorno Giovanni Brusca, ormai braccato dalle forze dell’ordine, dopo aver sentito in televisione, da latitante, della sua condanna all’ergastolo, imputandola alle dichiarazioni di Santino, decise una sera del gennaio 1996 la condanna a morte di Giuseppe, ordinando ai suoi uomini, Giuseppe Monticciolo, Enzo Brusca e Vincenzo Chiodo, di far strangolare il bambino e il suo corpo scioglierlo nell’acido per farne perdere le tracce.

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