lunedì 28 giugno 2010

Cuffaro, pm chiedono 10 anni




Cuffaro, pm chiedono 10 anni

L'ex presidente della Regione
Sicilia è imputato per concorso
esterno in associazione mafiosa
PALERMO
Mani sul viso, pochi sorrisi, niente baci. L’ex governatore della Sicilia, Salvatore Cuffaro, soprannominato «vasa vasa» per l’abitudine di salutare tutti con due sonori baci sulle guance, a cinque anni e mezzo dall’inizio del primo processo in cui è stato imputato, ha perso un po’ del suo tradizionale buonumore e ha ascoltato piuttosto teso la conclusione della requisitoria dei pm Nino Di Matteo e Francesco Del Bene al termine della quale i magistrati hanno chiesto la sua condanna a dieci anni per concorso in associazione mafiosa. Richiesta che tiene conto già dello «sconto» di un terzo previsto dal rito abbreviato scelto da Cuffaro. Un altro macigno per l’ex governatore, condannato a gennaio in appello a sette anni per favoreggiamento aggravato dall’aver agevolato la mafia nel processo «Talpe in Dda».



È una condanna pesante quella invocata dai pm che hanno deciso di non chiedere le attenuanti generiche per il senatore Udc «perchè i fatti di cui lo accusiamo sono veramente gravi anche per il suo ruolo di governatore regionale: per questa sua veste poteva partecipare in alcuni casi al Consiglio dei ministri». I pm hanno però sottolineato l’irreprensibile condotta di Cuffaro durante il giudizio che l’ex senatore ha seguito per intero. Alla fine l’amarezza non riesce comunque a prevalere sull’ottimismo del senatore Udc. «La mia fiducia nelle istituzioni e nella giustizia mi impongono il rispetto per il ruolo dei pubblici ministeri - ha detto al termine della requisitoria - È chiaro che non condividiamo le loro conclusioni e che, insieme ai miei avvocati, porteremo il nostro contributo per fare emergere la verità».

Durante le cinque «puntate» della requisitoria i pm hanno ripercorso le accuse a Cuffaro, in grandissima parte analoghe a quelle contenute nel processo «Talpe» tanto da fare invocare ai legali dell’ex governatore il «ne bis in idem», istanza che il gup Vittorio Anania valuterà al momento di emettere la sentenza.

All’ex governatore non si contesta soltanto la fuga di notizie che portò alla scoperta delle microspie piazzate dal Ros a casa del boss Giuseppe Guttadauro, oggetto del primo dibattimento, ma l’avere contribuito, durante tutta la sua carriera politica, al «sostegno e al rafforzamento dell’associazione mafiosa» con comportamenti e rapporti «che configurano il concorso e non solo il favoreggiamento». Un apporto, quello assicurato alle cosche, che per l’accusa avrebbe fruttato all’ex governatore i voti della mafia. Per i pm, dunque, Cuffaro, che avrebbe avuto rapporti con diversi uomini d’onore - da Guttadauro, ad Angelo Siino, dall’agrigentino Maurizio Di Gati, all’ex manager della sanità privata Michele Aiello - avrebbe messo a disposizione di Cosa nostra il proprio ruolo consentendole di influenzare l’andamento della vita politica siciliana e di assicurare l’impunità ai propri esponenti.

A queste accuse si aggiunge l’ultimo tassello fornito da Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo Vito, che ha consegnato ai pm un pizzino di Bernardo Provenzano risalente al 2001. Sarebbe stato lui stesso a fare da postino tra il boss e il padre. Nel pizzino, si parla di un provvedimento di clemenza per i detenuti mafiosi che doveva essere agevolato dal «nuovo presidente». Per Massimo Ciancimino sarebbe proprio Cuffaro.



Mafia, chiesti dieci anni di carcere
per l'ex governatore della Sicilia Cuffaro

Per il pm, fra lui e Cosa Nostra esisteva un vero e proprio «patto economico-politico-mafioso»


ROMA (28 giugno) - Dieci anni di reclusione per l'ex presidente della Regione Sicilia, Salvatore Cuffaro, senatore dell'Udc. Questa la pena richiesta dal pubblico ministero Nino Di Matteo nel processo davanti al giudice dell'udienza preliminare di Palermo Vittorio Anania. Cuffaro è imputato per concorso in associazione mafiosa. Al centro della requisitoria del magistrato ci sono i rapporti tra Cuffaro e Michele Aiello, imprenditore della sanità condannato per mafia.

Secondo la tesi del pm: «Aiello costituiva un importante anello di congiunzione tra Cosa nostra e Salvatore Cuffaro. Aiello ha stabilito negli anni un vero e proprio patto di protezione con Cosa nostra che garantiva e tutelava l'espansione della sua attività imprenditoriale. Il rapporto tra Aiello e Bernardo Provenzano prevedeva una serie di prestazioni e controprestazioni di cui si agevolano entrambi. La ditta Aiello si è occupata, grazie alla volontà mafiosa, della costruzione di numerose strade interpoderali. Da parte sua Aiello assumeva personale indicato da Cosa nostra, ovviamente pagava la “messa a posto”. Ma soprattutto Aiello aveva dei rapporti con rappresentanti istituzionali che interessavano a Cosa nostra e che gli consentivano di avere informazioni riservate su alcune
indagini in corso».

Tra questi rapporti, secondo l'accusa, c'era anche quello con Cuffaro che, ha spiegato Di Matteo, «in cambio aveva la possibilità di avere a disposizione le strutture sanitarie di Aiello per fare favori ad amici ed elettori. Possiamo sospettare quindi, anche se questo punto non è dimostrato, che ci fosse un rapporto societario di fatto tra Aiello e Cuffaro. È provata invece l'introduzione di un nuovo nomenclatore tariffario di radioterapia per le struttura convenzionate che includeva, guarda caso, le cinque principali prestazioni eseguite nelle cliniche di Aiello, prima non presenti nel tariffario».

Il pm ha parlato di un vero e proprio patto tra Cuffaro e Cosa Nostra: «Francesco Campanella, diventato collaboratore di giustizia, chiarisce come il rapporto tra Cuffaro e Cosa nostra non sia stato un evento sporadico e casuale ma piuttosto interno al patto politico-elettorale-mafioso. Come racconta Campanella Giuseppe Acanto venne inserito nella lista Biancofiore nelle elezioni 2001 per venire incontro alle richieste di Nino Mandalà. Sempre Campanella dice che Cuffaro lo avvertì che nei confronti di Antonino e Nicola Mandalà e dello stesso Campanella c'erano indagini in corso. Le dichiarazioni del collaboratore sono ampiamente dimostrate».

Il pm ha poi raccontato della comune militanza di Cuffaro e Campanella nell'Udeur e dello stretto rapporto tra i due, tanto che l'ex governatore fu testimone alle nozze del collaboratore. Secondo Di Matteo: «A conferma delle affermazioni di Campanella c'è la testimonianza dell'avvocato Giovanbattista Bruno, figlio di Franco, ex capo di gabinetto del sottosegretario alla Giustizia Marianna Li Calzi. Giovanbattista Bruno era amico sia di Cuffaro che di Campanella e ha riferito di un colloquio nel 2003 con il collaboratore di giustizia che gli confidava di sapere dal governatore di essere indagato».

La replica di Cuffaro. In una pausa del processo, l'ex presidente della Regione siciliana, Salvatore Cuffaro, si difende così dalla ricostruzione fornita oggi in aula dal pm: «Ma quale rapporto societario con Michele Aiello? Non è mai esistito. Io facevo solo delle segnalazioni per alcuni esami diagnostici, così come facevano anche altri politici e magistrati. Per questo devo essere considerato socio di Aiello?».

Il pm ha affermato che la moglie del senatore Cuffaro «è stata per poche ore socia di Aiello», avendogli ceduto quote di una società di un laboratorio di analisi. Ma Cuffaro si difende: «Se mai si può parlare di soci lo sono stati per un minuto, dal notaio».

Sul tariffario di alcune prestazioni delle aziende di Aiello e di cui Cuffaro si sarebbe personalmente interessato, il senatore spiega: «Aiello aveva in azienda un macchinario particolare che c'era solo a Milano. Ha chiesto solo l'inserimento di alcune prestazioni che nel tariffario non c'erano. Altrimenti si doveva pagare la prestazione indiretta che costava molto di più alla Regione».

E sulle fughe di notizie: «Ho solo difeso me stesso perché ero preoccupato che si parlasse di me al telefono quando ero già indagato».

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