mercoledì 20 marzo 2013

È morto il capo della polizia Manganelli


Il ministro Cancellieri: “Il numero uno”
Si è spento in ospedale a Roma, era ricoverato da tre settimane.
Monti: «Servitore dello Stato»

 
 Lo scorso 24 febbraio il ricovero d’urgenza all’ospedale San Giovanni di Roma per l’asportazione di un edema cerebrale. Da allora il capo della polizia, Antonio Manganelli, non ha più lasciato il reparto di rianimazione. Le sue condizioni si sono ulteriormente aggravate negli ultimi giorni e questa mattina si è spento. Aveva 62 anni. Negli ultimi anni aveva lottato contro un tumore che lo aveva portato a passare alcuni mesi negli Stati Uniti per curarsi. Unanimi i riconoscimenti al suo operato. Le massime istituzioni, la politica tutta, hanno reso omaggio al «servitore dello Stato». in ospedale si sono susseguite le visite dei vertici della sicurezza italiana. La polizia si è stretta commossa attorno al suo capo, vegliato dalla moglie Adriana e dalla figlia ventenne Emanuela. Domani sarà allestita la camera ardente alla Scuola superiore di polizia. Sabato alle 11 il funerale a Roma, nella basilica di Santa Maria degli Angeli.

Manganelli - avellinese - è stato nominato al vertice della polizia il 25 giugno del 2007, dal governo Prodi. Ha preso il posto di Gianni De Gennaro, amico e collega con cui ha condiviso passi importanti della sua carriera. E proprio De Gennaro - ora sottosegretario con delega all’intelligence - è rimasto tutta la mattinata in ospedale a fianco dei familiari del prefetto. Presenti anche il comandante dei Carabinieri, generale Leonardo Gallitelli e quello della Guardia di finanza, generale Saverio Capolupo. Oltre naturalmente ai suoi vice, il vicario Alessandro Marangoni, Francesco Cirillo e Matteo Piantedosi. Sono passati per l’ultimo saluto anche due ex stretti collaboratori del capo, Francesco Gratteri e Gilberto Caldarozzi, condannati definitivamente per le violenze del G8 di Genova.

Commossa nel suo ricordo il ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri. «Gli sono debitrice - spiega - per la leale collaborazione che mi ha dato e per il grandissimo e disinteressato aiuto che mi ha offerto in questo lavoro che per me era assolutamente nuovo. Era un numero uno. Non solo per il fiuto da poliziotto, non solo per la capacità di dirigere l’imponente macchina alla quale tutti i cittadini italiani affidano la propria sicurezza, non solo per la solida e democratica dedizione che ha saputo mettere al servizio dello Stato. Era un numero uno soprattutto per le qualità morali che erano parte integrante di tutte le cose che ha fatto. Ed è stato d’esempio per tutti noi per il coraggio, la forza e l’orgoglio con cui ha affrontato il lungo calvario della malattia che lo ha portato a lasciarci».

Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, impegnato oggi nelle consultazioni, ha chiamato il ministro Cancellieri chiedendole di rappresentare prontamente alla famiglia del prefetto i suoi sentimenti di solidarietà e all’intera amministrazione della Pubblica sicurezza il suo partecipe cordoglio. Per il premier Mario Monti, «nonostante la lunga malattia, il prefetto Manganelli è sempre stato un esempio di servitore dello Stato, una guida autorevole e aperta al dialogo, anche nelle situazioni più difficili». Addolorato il presidente del Senato. «Per me - ha detto Pietro Grasso - è scomparso oggi non solo un eccezionale servitore dello Stato, ma anche un amico e una persona con la quale ho avuto modo di collaborare più volte nel corso della mia carriera all’interno della Magistratura, sempre apprezzandone le doti non comuni di investigatore e di uomo delle Istituzioni».

«Ha dedicato la sua vita - gli ha fatto eco il presidente della Camera, Laura Boldrini - al servizio delle Istituzioni». Per il segretario del Pd, Pierluigi Bersani, «l’Italia perde un uomo di grande valore, le Istituzioni un funzionario sempre fedele. Manganelli ha svolto un lavoro difficile con competenza e lealtà». Sulla stessa linea, per una volta, il leader del Pdl Silvio Berlusconi. «Con il suo innato equilibrio e con la sua azione sempre efficace - ha affermato il Cavaliere - Manganelli ha assicurato alla Polizia una guida intelligente e ha garantito al governo del Paese una difesa costante della sicurezza dei cittadini». «Maestro di vita - lo ha salutato il segretario della Lega ed ex ministro dell’Interno Roberto Maroni - e amico vero. Rimarrai per sempre nel mio cuore».

Un omaggio, forse inatteso, arriva anche da Patrizia Moretti, mamma di Federico Aldrovandi, il ragazzo di Ferrara morto durante un controllo di polizia il 25 settembre 2005. Per la sua morte sono stati condannati quattro agenti. In quell’occasione Manganelli scrisse una lettera di scuse ed incontrò la donna. Oggi ha scritto sulla sua pagina di Facebook. «È morto Manganelli. A me dispiace sinceramente, e mando un abbraccio alla sua famiglia».


 Morto Manganelli, capo della Polizia Una vita al servizio delle istituzioni
La lotta a Cosa Nostra con Falcone e Borsellino, il ruolo al Viminale, le “picconate”, la difesa degli agenti e la centralità delle intercettazioni.Da Avellino a Roma, una carriera straordinaria di successi e polemiche



francesco grignetti
roma
È stato uno straordinario Capo della polizia, Antonio Manganelli. Un poliziotto da strada che ha fatto carriera partendo dal basso, dalle indagini, ma bruciando le tappe ogni volta per meriti eccezionali.

Nato ad Avellino nel 1950, a trent’anni si mette in luce risolvendo un difficile sequestro di persona a Firenze. È un giovane brillante commissario. Qualche anno dopo approda alla Criminalpol, chiamato da Gianni De Gennaro che vuole attorno a sé i migliori giovani della polizia. Da quarantenne si trova a collaborare con i mostri sacri del momento, i Falcone e i Borsellino, che stanno infliggendo colpi storici a Cosa Nostra. Tra tutti loro sul campo nasce una vera amicizia, oltre che un leale rapporto di collaborazione.

Con De Gennaro, poi, le strade non si separeranno più. Sono insieme alla Dia, poi allo Sco. Quando nel 2000 De Gennaro diventa Capo della polizia, sceglie Manganelli come vice. Sette anni dopo, lo sostituisce sulla poltrona più importante del Viminale. Tredici anni alla guida della polizia, insomma. Un periodo lunghissimo. E mai una nota stonata pur nel succedersi dei governi della turbolenta Seconda Repubblica. Si conquista la stima delle altre forze di polizia. E da quando c’è stato Manganelli alla guida del Dipartimento della pubblica sicurezza, le indagini sono state davvero interforze e di sgambetti se ne sono verificati pochi.

Non che Manganelli fosse uno che si mordeva la lingua. Ma quel che diceva, era talmente chiaro, logico, inappuntabile, che c’era poco da replicargli. Uomo profondamente rispettoso delle istituzioni, non s’è mai piegato al “politically correct”. E così poteva capitare di sentirlo dire, nel 2010, in un autunno caldissimo: «Quello che non va nel Paese ci ritorna come aggiunta di oneri. Tutti i problemi irrisolti diventano problemi della polizia». Era un osservatore disincantato, ironico, e allo stesso tempo appassionato. Quando i politici a un certo punto cominciarono a dissertare di intercettazioni, e sembrava che tutti fossero padroni della materia, sbottò a una lezione universitaria: «Sono uno degli strumenti a disposizione degli investigatori. Ma se si intende ridurli o regolarli diversamente, deve esserci la possibilità di far ricorso ad altri strumenti». Fece poi discretamente sapere al governo di Berlusconi che la polizia non avrebbe fatto guerre di religione sulle intercettazioni, ma che si mettessero l’anima in pace se le indagini dei suoi non avrebbero più fatto da argine a una malavita dilagante. E la cosa finì lì.

Non che Manganelli fosse un uomo di sinistra. Quando si trattava di picconare un tabù anche di quella parte, non s’è tirato indietro. Sul peso “illegale” degli immigrati, ad esempio, parlò chiarissimo: «L’Italia? Una vergogna. Un indulto quotidiano. Tutti i giorni, quando arrestiamo qualcuno per uno dei reati di cosiddetta criminalità diffusa, scopriamo che quel qualcuno nell’ultimo semestre era stato già arrestato altre tre o quattro volte per lo stesso tipo di reato. Risultano stranieri il 30% degli autori di reato. Ma questa è una media che mi ricorda Trilussa, perchè a Palermo e Napoli l’incidenza degli immigrati è sul 4-5% dei reati, nel Nord-Est è sul 70%». La sua preoccupazione maggiore era di tenere l’istituzione al riparo di polemiche eccessive e strumentali. Quando esplose il caso Ruby, che lambiva la questura di Milano, fece muro: «Se magistrati, giornalisti, o soggetti qualunque, ritengono di esprimere fatti non veri, noi saremo comunque al fianco dei funzionari di polizia che si esprimono per la tutela dei diritti del Paese». Ugualmente quando a Napoli, punteggiata di roghi di cassonetti, accusarono i funzionari di polizia di usare la mano pesante in piazza: «Già, il problema non sono i rifiuti per le strade ma le cariche della polizia... Si pone l’enfasi sul funzionario di polizia che ha ordinato la carica e non sul problema che sta dietro a tutto questo». E concludeva: «Tutti i problemi d’Italia sono scaricati sulla polizia, non è giusto».

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