giovedì 21 marzo 2013

Addio Mennea, re della velocità azzurra


Un campione proletario del riscatto
 Nato a Barletta, si definiva “negro d’Italia”. Nell’atletica ha trovato il riscatto: un oro olimpico e il record sui 200 durato 17 anni. Oggi camera ardente nella sede del Coni a Roma


gianpaolo ormezzano
È morto stamattina in una clinica a Roma, all’età di 60 anni, Pietro Mennea, ex velocista azzurro, olimpionico e primatista mondiale dei 200 metri dal 1979 al 1996. La camera ardente è stata allestita nella sede del Coni, a Roma. Il presidente Giovanni Malagò ha disposto la bandiera a mezz’asta listata a lutto e un minuto di silenzio prima di tutte le manifestazioni sportive in programma da oggi fino a domenica.
Pietro Mennea è morto giovane, sessantun anni scarsi, ma era nato vecchio, tormentato da sempre dai problemi della sua terra (era di Barletta, Puglie, si definiva negro d’Italia), ed ha avuto una vita pienissima, quasi affannata, sicuramente logorante, non solo di sportivo anzi di campione dello sport, ma anche di uomo politico, deputato europeo, di personaggio del mondo del lavoro, quattro lauree - scienze politiche, giurisprudenza,lettere e scienze motorie -, uno studio di avvocato, di eterno polemista, e di forte testimonial dell’antidoping dopo essere uscito pulito da ogni sospetto di disinvoltura chimica. In età avanzatella si era pure sposato. Nell’atletica si è costruito campione con una volontà disperata, quasi straziante, nel senso che, assolutamente non dotato dalla natura di quello che si dice fisico strepitoso, si allenava ferocemente, correva acremente e vinceva a muso sempre duro.

E’ stato personaggio molto difficile, anche perché molto vero: pativa Livio Berruti, signore olimpico dei 200 vent’anni prima di lui, ed era ricambiato. Berruti signorile, quasi aristocratico, estroverso, borghesissimo, serenissimo, Mennea popolaresco, introverso, revanscista, proletario. Sapeva di sospetti di doping, per un suo incauto muoversi presso il dottor Kerr, il Cagliostro dei Giochi di Los Angeles 1984, ma era riuscito a spiegare la propria ingenuità e la propria conseguente pulizia. Aveva un grande nemico in Primo Nebiolo, presidente della federazione di atletica, uno che pensava in piemontese mentre lui pensava in pugliese anzi in barlettano, lui che si riteneva più fenicio che levantino. Mennea, che era arrivato all’atletica da povero, chiedeva di essere aiutato a diventare quasi ricco, Nebiolo era debole di udito. Ci sono stati scontri forti, abbracci più forti ancora e però sempre un poco pitoneschi, e chissà che a Mennea il suo grande primato dei 200, 19”72 all’Universiade del 1979, a Città del Messico, non abbia posto qualche problema perché in fondo lui aveva celebrato il suo record massimo nella manifestazione sportiva che era il tempio itinerante di Primo Nebiolo, appunto dell’Universiade inventore e padrone. La performance lo vide primo al mondo per 17 anni, ci volle un fenomeno nero, Michael Johnson, per spodestare il negro d’Italia.

L’anno dopo Mennea vinse il titolo olimpico dei 200 a Mosca, edizione dei Giochi però boicottata dall’assenza degli statunitensi e di tante nazioni del blocco occidentale (protesta contro l’Urss che aveva invaso l’Afghanistan). Grande vittoria comunque, ma il record mondiale in questo caso vale forse di più. Comunque lui gareggiò sino a Seul 1988, prestandosi anche per grandi speranze di una staffetta azzurra.

Nella sua vicenda sono passati, da lui incensati o tritati e talora incensasti e tritati, tanti uomini di sport. Citiamo Mascolo il suo primo allenatore, che da un potenziale mariuolo impertinente tirò fuori un serio ragazzo, poi Vittori, suo guru decvisivo per “estrarre” record e vittorie da quel fisico quasi sgraziato. Ma alla fine lui è stato il Personaggio ottimo massimo,e magari sarebbe diventato comunque Personaggio di suo, senza bisogno di aiuti e neanche di contrasti.

Lo sport italiano gli deve molto,lui ha cercato sovente di dar se stesso allo sport in vari modi, quasi per “equilibrare”. Ma aveva un carattere difficile, un eloquio spesso aggrovigliato, e poi sempre era come posseduto da quel revanscismo che lui stesso definiva etnico e che gli pregiudicava tanti rapporti. E invano chi lo conosceva bene diceva di una sua forte solarità, soltanto difficile da liberare dalle nubi contingenti, di una sua interna allegria che comunque, quando riusciva ad espandersi in giro, voleva dire ad esempio l’amicizia fortissima con uno che, come lui, quando sorrideva e faceva sorridere sembrava intristirsi, Massimo Troisi.

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