venerdì 23 luglio 2010

I mozziconi mai sequestrati,l'ultimo giallo di via D'Amelio


I mozziconi mai sequestrati,
l'ultimo giallo di via D'Amelio


Trovati da due agenti nell’attico
dove fu fatta saltare in aria la 126:
la loro relazione finì in archivio

GUIDO RUOTOLO

INVIATO A PALERMO

Via D’Amelio ancora sembrava Beirut la mattina dopo. La devastazione, pezzi di lamiere contorte, frammenti di vetri sparsi ovunque, mura sventrate. E i resti, i poveri resti dei corpi maciullati erano stati portati via ma le loro tracce ancora è come se stessero là.

La mattina del 20 luglio quando i due «sbirri» della Criminalpol di Catania - arrivati come tanti altri poliziotti da altre sedi per aiutare i colleghi palermitani nelle indagini - si trovarono di fronte a questo scenario, non si persero d’animo.

Da cinquantasei giorni erano sotto stress gli agenti italiani. Per via di Giovanni Falcone e della sua scorta saltati in aria a Capaci. E adesso lo smacco di Borsellino, la provocazione di via D’Amelio. Tutto sembrava perso.

Un «uno due» micidiale. Ci voleva sangue freddo e lucidità per cercare di capire dove, chi, cosa cercare. Ognuno dava un contributo, nei limiti delle proprie capacità.

Anche quei due «sbirri» di Catania, Ravidà e Arena, si rimboccarono le maniche quella mattina dopo, con un caldo opprimente e i singhiozzi strozzati di Palermo.

La scena l’hanno raccontata ai magistrati di Caltanissetta che li hanno interrogati. E’ come se avessero consegnato un video, tanto il racconto è apparso vivido. Immaginate i due in via D’Amelio. D’istinto hanno cominciato ad alzare gli occhi al cielo per capire da dove quel maledetto carnefice avesse premuto il pulsante dell’autobomba. Una panoramica a 360° e gli sguardi si fermano su quel palazzo marrone che ancora era un cantiere. Non si poteva accedere da via D’Amelio, era dietro il garage Galatolo, accanto a quell’altro palazzone grigio. Ma a differenza del primo, non era ancora ultimato.

Di chi è quel palazzo? I due «sbirri» sono curiosi, vanno lì, salgono le scale, fanno domande. Incontrano i costruttori, i Graziano, si fanno consegnare i numeri dei loro cellulari. Guardano in giro, salgono all’attico ancora non ultimato: un vetro blindato, cicche di sigarette, una siepe di pini. Tornano in questura, scrivono la loro relazione di servizio che lasciano ai colleghi della Mobile.

Che felice intuizione, una pista senz’altro da coltivare. La scena del crimine, le cicche di sigarette per terra, il vetro blindato, come se dovesse proteggere chi doveva premere il pulsante. Un bell’inizio per le indagini. La ricerca di tracce di Dna, le impronte palmari sul vetro che avrebbero potuto far risalire ai killer, ai carnefici di Borsellino.

E invece? Facile immaginare che nulla di tutto questo è accaduto, visto che via D’Amelio anche in questo si è differenziato da Capaci.

Tanto per essere chiari, un magistrato all’epoca applicato a Caltanissetta, per le indagini, a distanza di tanti anni ha un ricordo preciso: «Escludo che quella relazione sia arrivata a noi».

Il paradosso, o se volete il giallo, è che quella relazione di servizio dei due «sbirri» catanesi è stata sviluppata dal gruppo di investigatori della squadra «Falcone e Borsellino». E il fascicolo rischiava di essere divorato dai topi (il questore di Palermo ha denunciato che tutto l’archivio del «Falcone e Borsellino» rischia di essere inservibile) se la Procura di Caltanissetta non l’avesse tirato fuori.

E l’aspetto davvero assurdo è che dentro la cartellina c’erano anche le foto delle cicche di sigarette, del vetro blindato.

A 18 anni di distanza nessuna verità processuale ha stabilito chi e da dove ha premuto il pulsante del telecomando dell’autobomba.

Dalle cicche di sigarette, e cioè dalla saliva lasciata sul filtro, si risale al Dna. E’ vero che la banca dati non è comprensiva di tutti i Dna esistenti, però avere la carta d’identità di chi ha premuto il pulsante è importantissimo.

E poi che errore madornale non aver sviluppato i tabulati telefonici dei cellulari dei costruttori Graziano - almeno «se è stato fatto i suoi risultati non sono arrivati sui nostri tavoli», conferma un pm che all’epoca indagava su via D’Amelio -, i prestanome dei Madonia. E’ facile intuire cosa avrebbe comportato la ricostruzione delle relazioni telefoniche dei Graziano con gli stragisti, per esempio.

Gli inquirenti nisseni sospettano che potrebbero essere stati Fifetto Cannella, il fedelissimo dei fratelli Graviano, o lo stesso Giuseppe Graviano coloro i quali hanno premuto il pulsante.
Nelle prossime settimane, la Procura di Caltanissetta darà il via a un accertamento tecnico risolutivo, per stabilire la postazione da dove è partito l’impulso dell’innesco dell’autobomba, e cioè il raggio d’azione del telecomando. Per escludere intanto il Castello Utveggio (che dista almeno 800 metri in linea d’aria da via D’Amelio).

Quella relazione di servizio del 20 luglio del 1992 dei poliziotti Ravidà e Arena rischia di diventare un simbolo. Una felice intuizione inspiegabilmente abbandonata. Davvero ha ragione il procuratore Lari che parla di «colossali depistaggi». E’ una verità difficile da spiegare: gli stessi poliziotti che alla strage Capaci stanno lavorando per risalire ai colpevoli, quando si tratta di via D’Amelio commettono errori madornali. Lo fanno involontariamente o i vuoti e gli errori fanno parte di una raffinata strategia?

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