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venerdì 16 ottobre 2009
Ecco il «papello» della mafia
Giustizia mafia e.....teste di minchia
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Svelato il mistero del "papello": così il boss cercò di piegare lo Stato
FRANCESCO LA LICATA
ROMA
Eccolo, dunque, il famigerato «papello», la lista della spesa, la contropartita che nel 1992 - fra le stragi di Capaci e via D’Amelio - la Cosa nostra di Totò Riina chiedeva allo Stato per concedere in cambio una tregua nella sanguinosa mattanza siciliana. E’ un misero foglio di carta, alquanto sgualcito, dove in caratteri a stampatello sono stati stilati dodici punti di richieste. Un foglio che, al bar Caflish di Mondello, Massimo Ciancimino prese dalle mani del «messaggero», il medico mafioso Nino Cinà, per consegnarlo al padre.
Operazione eseguita alla presenza del famigerato «signor Franco», il mediatore dei servizi segreti ancora anonimo. Un semplice foglio di carta che ha tenuto in allerta per anni un esercito di investigatori. La caccia al «papello», infatti, è in atto da quando il pentito Giovanni Brusca ne rivelò l’esistenza per dar forza all’ipotesi (allora era tale) che fra Stato e mafia si fosse svolta una trattativa che aveva visto protagonisti da un lato il capo di Cosa nostra, attraverso i buoni uffici dell’ex sindaco Vito Ciancimino, dall’altro il generale Mario Mori. Non si sa ancora - neppure i due processi celebrati a carico di ufficiali dei carabinieri hanno risolto l’enigma - se il Reparto operazioni speciali dell’Arma abbia agito per iniziativa propria, o se in qualche modo abbia avuto una qualche sollecitazione e copertura politiche.
il papello
Il documento pervenuto alla magistratura palermitana è corredato da un post-it, con una annotazione attribuibile alla grafia di Vito Ciancimino che precisa: «Consegnata copia al col. dei CC Mori, del Ros». Dal momento che Mori, ma anche il colonnello De Donno, altro polo della trattativa, hanno sempre negato di aver mai ricevuto il «papello» di cui parlò Brusca, spetterà ai magistrati stabilire se il post-it sia certamente da mettere in relazione al foglio oppure a una qualsiasi altra «cosa» che Ciancimino abbia consegnato ai carabinieri.
Le solite teste di minchia
E veniamo alle dodici richieste: tutte quasi completamente inaccettabili, tanto che lo stesso Vito Ciancimino, quando ne prese visione, ebbe a commentare, riferendosi ai mittenti: «Le solite teste di minchia». Al primo punto la mafia chiedeva la revisione del maxiprocesso, appena chiuso in Cassazione con dodici condanne all’ergastolo, praticamente la cupola nella sua interezza. Non è sorprendente, questa richiesta, dal momento che l’esito negativo (per la mafia) del maxiprocesso rappresenta la causa di tutti i successivi «disastri», compresa la decisione di Cosa nostra di intraprendere la strategia stragista. La lista, oggi in mano ai pubblici ministeri di Palermo, si chiude con una pretesa di natura politica, probabilmente inserita per dare al «papello» la connotazione di un «documento di popolo» condiviso dai siciliani. La mafia, perciò, chiedeva la defiscalizzazione della tassa sul carburante: un pallino, questo, più volte manifestato da diversi governi dell’Autonomia siciliana.
Ma il «papello» va oltre, con pretese pesanti: la riforma dei pentiti, l’abolizione della legge Rognoni-La Torre (che regola il sequestro dei beni illeciti), l’abolizione del «decreto sui carcerati», così viene chiamato dall’anonimo estensore il «41 bis» che in quel momento era ancora un decreto, la libertà (anche attraverso il «carcere a casa») per i detenuti che hanno superato i 70 anni, la chiusura delle supercarceri di Pianosa e Asinara (oggi avvenuta senza alcun merito del «papello»), l’abolizione della censura tra i detenuti e i familiari, il trasferimento dei carcerati nelle strutture vicine alle proprie famiglie. Ma la richiesta più curiosa, certamente parto di una fervida mente politico-giudiziaria, riguarda l’ipotesi di una riforma che introducesse il principio dell’abolizione del reato di mafia (416 bis) e rendesse possibile gli arresti solo in «fragranza (testuale, ndr) di reato». In pratica la perfetta imitazione della «immunità parlamentare» allora non ancora abolita. L’errore linguistico, «fragranza», è l’unico riscontrabile in tutto il «papello» che sembra scritto da persona sufficientemente scolarizzata e, secondo le valutazione dello stesso Vito Ciancimino, «alquanto giovane».
Il documento è stato recapitato alla Procura di Palermo dal legale di Massimo Ciancimino. Il figlio di don Vito - che collabora anche coi magistrati di Caltanissetta - lo ha recuperato in una cassetta di sicurezza all’estero e trasmesso all’avvocato per fax. Insieme col «papello», ai magistrati sono pervenuti altri documenti. Si tratterebbe di opinioni, attribuibili all’ex sindaco di Palermo, scritte e indirizzate ai destinatari delle richieste di Totò Riina. Un paio di pagine dove c’è di tutto, compreso un riferimento ad alcune affermazioni di Leonardo Sciascia. In una pagina, che Massimo Ciancimino definisce «allegato alla trattativa», risaltano i nomi di Rognoni e Mancino scritti per mano di don Vito.
E’ utile ricordare che entrambi i politici chiamati in causa hanno smentito di aver saputo mai di una trattativa tra Stato e mafia. Il resto degli appunti sembrano essere possibili «soluzioni» per ottenere quanto chiesto nel «papello», per esempio la revisione del maxiprocesso attraverso il ricorso alla Corte di Strasburgo. Ma non mancano argomenti di palpitante attualità: il «partito del Sud» e la «riforma della giustizia».
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