Merry Christmas and a Happy New Year
Questo blog di notorietà internazionale, per protesta contro uno “Stato Latitante” non verrà aggiornato.
venerdì 23 dicembre 2011
giovedì 22 dicembre 2011
Il Consiglio regionale paga i regali, la moglie di Mastella dovrà risarcire
Quando era presidente nel 2005 spese quasi 18mila euro in doni
per politici e impiegati. La Corte dei Conti: ora paghi di tasca sua
Quanto costano i regali di Natale? A Sandra Lonardo, moglie di Clemente Mastella, 17.942,40 euro. La cifra che la Corte dei Conti l'ha condannata a risarcire allo Stato. Nel 2005, quando era presidente del Consiglio regionale campano, la Lonardo decise di fare regali di Natale ai dipendenti del Consiglio e ai consiglieri: 600 piatti natalizi ai primi, 60 medaglie d'oro massiccio ai secondi.
Un bel gesto, ma costoso. In tutto quasi 18 mila euro di regali: 3.902,40 per i piatti agli impiegati e 14.040 per le medaglie d'oro ai politici. E chi paga i regali della signora Mastella? Non la signora stessa, ma il Consiglio regionale, cioè il contribuente. "Spese di rappresentanza" dunque a carico dell'istituzione, spiegò la donatrice. Vere e proprie regalie personali, obiettò la Corte dei Conti: liberissima la Lonardo di farle, ma a carico suo, non del bilancio pubblico.
In primo grado, la Lonardo aveva invocato l'immunità garantita dalla Costituzione (ma solo "per opinioni espresse e voti dati nell'esercizio delle funzioni") e spiegato che i regali di Natale servivano a svolgere il prestigioso incarico istituzionale e a migliorare l'immagine della Regione. La sezione campana della Corte aveva negato l'immunità e concluso che la Lonardo aveva "consentito, in violazione di suoi precisi doveri d’ufficio, che la Regione Campania effettuasse esborsi per l’acquisto di doni in casi non assolutamente consentiti dalla normativa. L'acquisto dei gadget natalizi e di medaglie commemorative non soddisfaceva alcun interesse pubblico, ma un interesse privatistico assolutamente estraneo ai fini dell'Ente, mediante l'impiego di risorse finanziarie pubbliche".
"Condotta illecita", "incuria nello svolgimento dei suoi elevati compiti istituzionali" e "scarsa considerazione per la finanza dell’amministrazione regionale". Ma nonostante un giudizio così severo, in primo grado lady Mastella se l'era cavata perché la legge richiede per la condanna l'accertamento della "colpa grave" e secondo i giudici campani la sua iniziativa era in fondo "animata da uno spirito di fidelizzazione del personale e segnatamente di coinvolgimento dei legislatori regionali", dunque solo "lievemente colposa".
Ma i giudici di appello ora ribaltano la prima sentenza di assoluzione. E danno ragione alla Procura, sottolineando "evidente l’estraneità delle spese da quelle di rappresentanza" e confutando senza giri di parole la teoria della "colpa lieve". Infatti "l’espressione fidelizzazione del personale sembra voler significare l’intento di favorire l’attaccamento del personale al lavoro e alle istituzioni, ma ciò rappresenta una finalità per il cui perseguimento non necessitano spese ulteriori rispetto a quelle consentite dalla disciplina del rapporto di lavoro". Quindi la Lonardo è "gravemente colpevole" e "l’esistenza di tale elemento si desume dal carattere inescusabile della violazione di legge nella quale è incorsa, spendendo denaro pubblico per finalità estranee a quelle di legge e non corrispondenti all’interesse pubblico e alle regole della finanza regionale".
La sentenza d'appello è definitiva. Oltre ai 17.942,40 euro spesi illegittimamente, la Lonardo dovrà restituire anche 526 euro di spese processuali. Dall'epoca dei fasti campani e dei regali di Natale, molto è cambiato. La Lonardo non è più presidente, ma solo "semplice" consigliere regionale. Rieletta nonostante il naufragio dell'Udeur, il partito di famiglia, e non poche grane giudiziarie. La Lonardo è sotto processo penale per diverse vicende: tentata concussione a un direttore di Asl, raccomandazione per un'assunzione in un ente regionale, estorsione per contributi alla Onlus di famiglia, corruzione per la costruzione di un centro commerciale a Benevento.
giuseppe salvaggiulo
per politici e impiegati. La Corte dei Conti: ora paghi di tasca sua
Quanto costano i regali di Natale? A Sandra Lonardo, moglie di Clemente Mastella, 17.942,40 euro. La cifra che la Corte dei Conti l'ha condannata a risarcire allo Stato. Nel 2005, quando era presidente del Consiglio regionale campano, la Lonardo decise di fare regali di Natale ai dipendenti del Consiglio e ai consiglieri: 600 piatti natalizi ai primi, 60 medaglie d'oro massiccio ai secondi.
Un bel gesto, ma costoso. In tutto quasi 18 mila euro di regali: 3.902,40 per i piatti agli impiegati e 14.040 per le medaglie d'oro ai politici. E chi paga i regali della signora Mastella? Non la signora stessa, ma il Consiglio regionale, cioè il contribuente. "Spese di rappresentanza" dunque a carico dell'istituzione, spiegò la donatrice. Vere e proprie regalie personali, obiettò la Corte dei Conti: liberissima la Lonardo di farle, ma a carico suo, non del bilancio pubblico.
In primo grado, la Lonardo aveva invocato l'immunità garantita dalla Costituzione (ma solo "per opinioni espresse e voti dati nell'esercizio delle funzioni") e spiegato che i regali di Natale servivano a svolgere il prestigioso incarico istituzionale e a migliorare l'immagine della Regione. La sezione campana della Corte aveva negato l'immunità e concluso che la Lonardo aveva "consentito, in violazione di suoi precisi doveri d’ufficio, che la Regione Campania effettuasse esborsi per l’acquisto di doni in casi non assolutamente consentiti dalla normativa. L'acquisto dei gadget natalizi e di medaglie commemorative non soddisfaceva alcun interesse pubblico, ma un interesse privatistico assolutamente estraneo ai fini dell'Ente, mediante l'impiego di risorse finanziarie pubbliche".
"Condotta illecita", "incuria nello svolgimento dei suoi elevati compiti istituzionali" e "scarsa considerazione per la finanza dell’amministrazione regionale". Ma nonostante un giudizio così severo, in primo grado lady Mastella se l'era cavata perché la legge richiede per la condanna l'accertamento della "colpa grave" e secondo i giudici campani la sua iniziativa era in fondo "animata da uno spirito di fidelizzazione del personale e segnatamente di coinvolgimento dei legislatori regionali", dunque solo "lievemente colposa".
Ma i giudici di appello ora ribaltano la prima sentenza di assoluzione. E danno ragione alla Procura, sottolineando "evidente l’estraneità delle spese da quelle di rappresentanza" e confutando senza giri di parole la teoria della "colpa lieve". Infatti "l’espressione fidelizzazione del personale sembra voler significare l’intento di favorire l’attaccamento del personale al lavoro e alle istituzioni, ma ciò rappresenta una finalità per il cui perseguimento non necessitano spese ulteriori rispetto a quelle consentite dalla disciplina del rapporto di lavoro". Quindi la Lonardo è "gravemente colpevole" e "l’esistenza di tale elemento si desume dal carattere inescusabile della violazione di legge nella quale è incorsa, spendendo denaro pubblico per finalità estranee a quelle di legge e non corrispondenti all’interesse pubblico e alle regole della finanza regionale".
La sentenza d'appello è definitiva. Oltre ai 17.942,40 euro spesi illegittimamente, la Lonardo dovrà restituire anche 526 euro di spese processuali. Dall'epoca dei fasti campani e dei regali di Natale, molto è cambiato. La Lonardo non è più presidente, ma solo "semplice" consigliere regionale. Rieletta nonostante il naufragio dell'Udeur, il partito di famiglia, e non poche grane giudiziarie. La Lonardo è sotto processo penale per diverse vicende: tentata concussione a un direttore di Asl, raccomandazione per un'assunzione in un ente regionale, estorsione per contributi alla Onlus di famiglia, corruzione per la costruzione di un centro commerciale a Benevento.
giuseppe salvaggiulo
Guardia giurata uccisa a Taranto
Numerose perquisizioni ai quartieri Tamburi e Paolo VI
TARANTO – Oltre 100 carabinieri del comando provinciale di Taranto, con l’ausilio di unità cinofile provenienti da Modugno e dell’elicottero dell’Elinucleo di Bari, sono stati impegnati oggi in servizi di controllo soprattutto nella zona Nord del capoluogo nell’ambito delle indagini sull'omicidio di Francesco Malcore, la guardia giurata di 35 anni uccisa lunedi pomeriggio durante una rapina a un furgone portavalori, dinanzi alla filiale Unicredit nel quartiere Tamburi. Numerose perquisizioni sono state fatte dall’alba inabitazioni dei rioni Tamburi e Paolo VI.
Per quanto riguarda le indagini, si è appreso che il medico legale avrebbe recuperato un capello di colore scuro sul palmo di una mano di Malcore. Non è escluso che possa appartenere all’assassino.
La guardia giurata è stata uccisa con un colpo di pistola alla regione frontale sinistra, che ha attraversato il cranio e si è fermato nella regione occipitale.
TARANTO – Oltre 100 carabinieri del comando provinciale di Taranto, con l’ausilio di unità cinofile provenienti da Modugno e dell’elicottero dell’Elinucleo di Bari, sono stati impegnati oggi in servizi di controllo soprattutto nella zona Nord del capoluogo nell’ambito delle indagini sull'omicidio di Francesco Malcore, la guardia giurata di 35 anni uccisa lunedi pomeriggio durante una rapina a un furgone portavalori, dinanzi alla filiale Unicredit nel quartiere Tamburi. Numerose perquisizioni sono state fatte dall’alba inabitazioni dei rioni Tamburi e Paolo VI.
Per quanto riguarda le indagini, si è appreso che il medico legale avrebbe recuperato un capello di colore scuro sul palmo di una mano di Malcore. Non è escluso che possa appartenere all’assassino.
La guardia giurata è stata uccisa con un colpo di pistola alla regione frontale sinistra, che ha attraversato il cranio e si è fermato nella regione occipitale.
Smascherato falso avvocato
(che vinceva tutte le cause)
Paola P., anche se ci sapeva fare tra carte bollate e atti giudiziari, non poteva certo esercitare dal momento che lavorava per uno studio legale ma non poteva sicuramente sostituirsi agli avvocati durante le udienze. Invece, secondo il sostituto procuratore Pierpaolo Montinaro lo avrebbe fatto, in qualche caso intascando anche i compensi per il suo lavoro. Il tutto sarebbe filato liscio per chissà quanto tempo se un altro avvocato non avesse chiesto conto sulla «presunta collega» al titolare dello studio legale per il quale lavorava ma non come avvocato.
A quel punto, la vicenda è venuta a galla. Il sostituto Montinaro ha disposto accertamenti e gli investigatori hanno scoperto che da tempo Paola P. esercitava abusivamente la professione. Nel Tribunale di Brindisi sarebbe stata impegnata in almeno tre procedimenti ma non si esclude che abbia fatto la stessa cosa anche in altri Palazzi di Giustizia pugliesi. La «sedicente» avvocatessa dovrà difendersi dall’accusa di falso materiale, avendo posto al posto della firma in calce ad un documento un fotomontaggio. Ovviamente risponde di esercizio abusivo della professione e infine è indagata per truffa per aver percepito illegalmente 280 euro da una sua cliente. Per lei, dunque, il sostituto Montinaro ha chiesto il processo.
BRINDISI - Falso avvocato si aggirava in Tribunale, facendo causa a grosse aziende o prendendo le parti degli imputati, prediligendo il «civile». Pur non essendo abilitato alla professione, in qualche caso la spuntava per la soddisfazione dei suoi clienti. Poi, qualcosa è andato storto e la verità è venuta a galla tanto che il falso avvocato è finito a centro di un’inchiesta che - per ora - si è conclusa con la richiesta di rinvio a giudizio.
Paola P., anche se ci sapeva fare tra carte bollate e atti giudiziari, non poteva certo esercitare dal momento che lavorava per uno studio legale ma non poteva sicuramente sostituirsi agli avvocati durante le udienze. Invece, secondo il sostituto procuratore Pierpaolo Montinaro lo avrebbe fatto, in qualche caso intascando anche i compensi per il suo lavoro. Il tutto sarebbe filato liscio per chissà quanto tempo se un altro avvocato non avesse chiesto conto sulla «presunta collega» al titolare dello studio legale per il quale lavorava ma non come avvocato.
A quel punto, la vicenda è venuta a galla. Il sostituto Montinaro ha disposto accertamenti e gli investigatori hanno scoperto che da tempo Paola P. esercitava abusivamente la professione. Nel Tribunale di Brindisi sarebbe stata impegnata in almeno tre procedimenti ma non si esclude che abbia fatto la stessa cosa anche in altri Palazzi di Giustizia pugliesi. La «sedicente» avvocatessa dovrà difendersi dall’accusa di falso materiale, avendo posto al posto della firma in calce ad un documento un fotomontaggio. Ovviamente risponde di esercizio abusivo della professione e infine è indagata per truffa per aver percepito illegalmente 280 euro da una sua cliente. Per lei, dunque, il sostituto Montinaro ha chiesto il processo.
Uccidono spacciatore e chiamano la moglie
«Scendete, vostro marito non si sente bene» L'agguato subito dopo la partita del Napoli
NAPOLI - Regolamento di conti a Scampia. Un pregiudicato, Fabio Cafasso, di 36 anni è stato freddato con due colpi di pistola (il calibro nella serata doveva essere ancora definito) alla nuca. Spacciatore di professione, l’uomo è stato ucciso all'ingresso della sua abitazione , in via Gisleri, subito dopo la villa, in una zona conosciuta come «Cianfa di cavallo». Cafasso è sceso di casa subito dopo la fine della partita Napoli-Genova. E si è trovato di fronte il killer (potrebbero essere anche due) ad attenderlo. Ed erano, questa l’idea che si sarebbero fatti gli inquirenti, persone che la vittima conosceva.
È stato eliminato dal gruppo forse forse per uno sgarro. Vicino agli scissionisti, Cafasso non ha avuto modo di difendersi. Appena ha aperto l’uscio di casa, ha fatto solo pochi passi e poi è stato ucciso.
Cauti gli inquirenti. Cafasso nella zona non era considerato un personaggio di spicco della criminalità organizzata. La modalità scelta per eliminarlo lascia pensare che si sia trattato di una esecuzione di tipo camorristico.
Gli inquirenti non si sbilanciano. Dalle prime informazioni raccolte su Cafasso non emerge una figura di primo piano nell’ambito del gruppo degli scissionisti che controlla le diverse e numerose piazze di spaccio a Scampia. Un uomo sempre dedito allo spaccio di sostanze stupefacenti ma non un capo zona.
Le indagini sono appena avviate. Non ci sono testimoni. Nessuno ha visto nulla, eppure nell’abitazione di Cafasso sembra che ci fossero delle persone. Ma tutto ancora deve essere accertato.
Sul delitto indaga la polizia. Sul posto nella tarda serata di ieri, sono giunti gli agenti della sezione omicidi della Squadra Mobile e del commissariato Scampia guidato da Michele Spina. Il cadavere dell’uomo è stato portato al reparto di medicina legale dove con molta probabilità già oggi verrà effettuata l’autopsia.
«Scendete giù, vostro marito non si sente bene». La moglie di Fabio Cafasso, 36 anni, è stata chiamata al citofono da qualcuno che l'ha avvertita del fatto che l'uomo giaceva senza vita nell'auto, una Smart. La donna è scesa in strada, al lotto 3 di via Ghisleri a Napoli, e ha scoperto che il marito era stato ucciso. Già disposta l'autopsia sul suo corpo.
L'assenza di testimoni oculari rende più difficile il lavoro investigativo per risalire agli autori dell'omicidio di Fabio Cafasso. Qualcuno, non è ancora chiaro chi sia stato, ha citofonato alla moglie che abita nel palazzo sovrastante la strada riferendogli che il marito stava male. Si tratta, dunque, di ricostruire eventuali frequentazioni di Cafasso, che era già noto alle forze dell'ordine.
Non si esclude nessuna pista anche se le modalità dell'esecuzione, con due colpi di pistola alla nuca, sono tipiche della matrice camorristica. L'area di via Ghisleri a Scampia è anche al centro di traffici di stupefacenti e questo è uno dei fronti sui quali sono impegnati gli sforzi delle forze dell'ordine per il contrasto del fenomeno.
NAPOLI - Regolamento di conti a Scampia. Un pregiudicato, Fabio Cafasso, di 36 anni è stato freddato con due colpi di pistola (il calibro nella serata doveva essere ancora definito) alla nuca. Spacciatore di professione, l’uomo è stato ucciso all'ingresso della sua abitazione , in via Gisleri, subito dopo la villa, in una zona conosciuta come «Cianfa di cavallo». Cafasso è sceso di casa subito dopo la fine della partita Napoli-Genova. E si è trovato di fronte il killer (potrebbero essere anche due) ad attenderlo. Ed erano, questa l’idea che si sarebbero fatti gli inquirenti, persone che la vittima conosceva.
È stato eliminato dal gruppo forse forse per uno sgarro. Vicino agli scissionisti, Cafasso non ha avuto modo di difendersi. Appena ha aperto l’uscio di casa, ha fatto solo pochi passi e poi è stato ucciso.
Cauti gli inquirenti. Cafasso nella zona non era considerato un personaggio di spicco della criminalità organizzata. La modalità scelta per eliminarlo lascia pensare che si sia trattato di una esecuzione di tipo camorristico.
Gli inquirenti non si sbilanciano. Dalle prime informazioni raccolte su Cafasso non emerge una figura di primo piano nell’ambito del gruppo degli scissionisti che controlla le diverse e numerose piazze di spaccio a Scampia. Un uomo sempre dedito allo spaccio di sostanze stupefacenti ma non un capo zona.
Le indagini sono appena avviate. Non ci sono testimoni. Nessuno ha visto nulla, eppure nell’abitazione di Cafasso sembra che ci fossero delle persone. Ma tutto ancora deve essere accertato.
Sul delitto indaga la polizia. Sul posto nella tarda serata di ieri, sono giunti gli agenti della sezione omicidi della Squadra Mobile e del commissariato Scampia guidato da Michele Spina. Il cadavere dell’uomo è stato portato al reparto di medicina legale dove con molta probabilità già oggi verrà effettuata l’autopsia.
«Scendete giù, vostro marito non si sente bene». La moglie di Fabio Cafasso, 36 anni, è stata chiamata al citofono da qualcuno che l'ha avvertita del fatto che l'uomo giaceva senza vita nell'auto, una Smart. La donna è scesa in strada, al lotto 3 di via Ghisleri a Napoli, e ha scoperto che il marito era stato ucciso. Già disposta l'autopsia sul suo corpo.
L'assenza di testimoni oculari rende più difficile il lavoro investigativo per risalire agli autori dell'omicidio di Fabio Cafasso. Qualcuno, non è ancora chiaro chi sia stato, ha citofonato alla moglie che abita nel palazzo sovrastante la strada riferendogli che il marito stava male. Si tratta, dunque, di ricostruire eventuali frequentazioni di Cafasso, che era già noto alle forze dell'ordine.
Non si esclude nessuna pista anche se le modalità dell'esecuzione, con due colpi di pistola alla nuca, sono tipiche della matrice camorristica. L'area di via Ghisleri a Scampia è anche al centro di traffici di stupefacenti e questo è uno dei fronti sui quali sono impegnati gli sforzi delle forze dell'ordine per il contrasto del fenomeno.
Reggio: 'Ndrangheta e politica Plutino il referente della cosca
In manette il consigliere comunale di Reggio Calabria Giuseppe Plutino. Sette arresti. L’esponente politico del Pdl voleva che il segretario questore, Gianni Nucera, assumesse un uomo della cosca
Era il «referente politico del clan» Borghetto-Caridi-Zindato, federato ai potentissimi Libri. Gli affiliati gli avevano portato i voti alle ultime amministrative e lui, il consigliere comunale del Pdl Giuseppe Plutino, si era messo a disposizione per tentare di trovare “una sistemazione” a Domenico Condemi prima, e a sua cugina dopo.
Ieri mattina, all’uscita dalla Questura di Reggio Calabria in tanti hanno salutato le sette persone ammanettate. Per loro parole di incoraggiamento: «Stai tranquillo Nino... tutto a posto Mico». Parole che hanno accolto anche il politico reggino: «Ciao compare Pino, stai sereno». Gli “amici” del quartiere di San Giorgio Extra c’erano tutti ieri.
Plutino, “Compare Pino” è consigliere comunale da tre legislature ed è stato assessore all’Ambiente; contro di lui l’accusa di «concorso esterno in associazione mafiosa». Per il pm della Dda Marco Colamonaci aveva fatto pressioni verso un altro politico regionale affinchè assumesse nella sua Struttura Speciale un esponente del clan. La storia risale alla fine del 2010.
Durante le elezioni Plutino ottiene un sacco di voti. La “famiglia”, si sbatte per chiedere preferenze. L’obiettivo è «arrivare tra i primi per farlo diventare assessore».
Immediatamente dopo le regionali alcuni affiliati del clan e Plutino avvicinarono Giovanni Nucera del Pdl, attualmente segretario questore del Consiglio regionale. Approfittando dei legami politici tra i due, il consigliere comunale chiede a Nucera di prendere nel suo staff Domenico Condemi (anche lui arrestato).
Nucera però venendo dallo stesso quartiere, conosce bene il personaggio lo definisce «violento». Si rifiuta di accogliere la richiesta e dopo una lunga discussione, su richiesta dello stesso Condemi e di Plutino, accetta di fare un contratto a Maria Cuzzola, cugina di Condemi e nipote dei Cosimo ed Eugenio Borghetto.
Un contratto a progetto di tre mesi, che alla scadenza Nucera si rifuterà di rinnovare nonostante le continue pressioni di Plutino e degli “amici” del quartiere. E’ per questo che gli uomini del clan avrebbero deciso di passare alle vie di fatto. Il 9 marzo scorso lasciano una tanica di benzina, con tanto di miccia innescata, sulla macchina del consigliere. Nucera denuncia l’episodio, ma afferma di non sapere né chi è stato né il perché della minaccia. Successivamente però arrivano altri messaggi più o meno velati. Il consigliere regionale si spaventa e racconta tutto ad un uomo della Digos. Teme per sé e per la sua famiglia che vive a San Giorgio Extra. La denuncia di tutti i fatti quando Domenico Condemi minaccia esplicitamente il figlio di Nucera: «Digli a tuo padre che la tanica di benzina è solo l’inizio». A qul punto va dalla polizia e racconta tutto.
Da qui le indagini, che hanno poi messo assieme tutta una serie di altri episodi e spiegato il ruolo di Plutino. L’inchiesta contiene tutta una serie di approfondimenti della polizia e anche le intercettazioni di carabinieri fatte per “Crimine”.
Per Plutino era stata fatta una vera e propria campagna elettorale in un quartiere,San Giorgio Extra, nel quale non tutti possono chiedere voti. Nella zona della cosca, alcuni manifesti elettorali era vietato anche affiggerli al muro. Una cosca assolutamente egemone nel quartiere, in grado di fare estorsioni e di controllare i rom del quartiere Ciccarello. E ancora Leo Caridi (nella foto al momento dell'arresto), dopo l’esecuzione dei mandati di cattura dell’operazione “Alta tensione” dei mesi scorsi, aveva iniziato a ricoprire il ruolo di reggente . Sostituendosi nelle gestione degli affari della famiglia, ai boss arrestati nella precedente operazione. Oltre a Leo Caridi, a Giuseppe Plutino e a Domenico Condemi, in manette sono finiti Filippo Condemi, Rosario Calderazzo, Vincenzo Rota e Vincenzo Lombardo. Per tutti, ad esclusione che per Plutino (a cui viene contestato il concorso esterno), l’accusa è di associazione a delinquere.
PLUTINO SOSPESO DALL'INCARICO
Intanto si apprende che il prefetto Luigi Varratta ha sospeso il consigliere comunale di Reggio Calabria Giuseppe Plutino, arrestato ieri nell’ambito dell’operazione antimafia «Alta tensione 2», coordinata dalla Dda reggina. Plutino era stato eletto nella lista del Pdl.
Era il «referente politico del clan» Borghetto-Caridi-Zindato, federato ai potentissimi Libri. Gli affiliati gli avevano portato i voti alle ultime amministrative e lui, il consigliere comunale del Pdl Giuseppe Plutino, si era messo a disposizione per tentare di trovare “una sistemazione” a Domenico Condemi prima, e a sua cugina dopo.
Ieri mattina, all’uscita dalla Questura di Reggio Calabria in tanti hanno salutato le sette persone ammanettate. Per loro parole di incoraggiamento: «Stai tranquillo Nino... tutto a posto Mico». Parole che hanno accolto anche il politico reggino: «Ciao compare Pino, stai sereno». Gli “amici” del quartiere di San Giorgio Extra c’erano tutti ieri.
Plutino, “Compare Pino” è consigliere comunale da tre legislature ed è stato assessore all’Ambiente; contro di lui l’accusa di «concorso esterno in associazione mafiosa». Per il pm della Dda Marco Colamonaci aveva fatto pressioni verso un altro politico regionale affinchè assumesse nella sua Struttura Speciale un esponente del clan. La storia risale alla fine del 2010.
Durante le elezioni Plutino ottiene un sacco di voti. La “famiglia”, si sbatte per chiedere preferenze. L’obiettivo è «arrivare tra i primi per farlo diventare assessore».
Immediatamente dopo le regionali alcuni affiliati del clan e Plutino avvicinarono Giovanni Nucera del Pdl, attualmente segretario questore del Consiglio regionale. Approfittando dei legami politici tra i due, il consigliere comunale chiede a Nucera di prendere nel suo staff Domenico Condemi (anche lui arrestato).
Nucera però venendo dallo stesso quartiere, conosce bene il personaggio lo definisce «violento». Si rifiuta di accogliere la richiesta e dopo una lunga discussione, su richiesta dello stesso Condemi e di Plutino, accetta di fare un contratto a Maria Cuzzola, cugina di Condemi e nipote dei Cosimo ed Eugenio Borghetto.
Un contratto a progetto di tre mesi, che alla scadenza Nucera si rifuterà di rinnovare nonostante le continue pressioni di Plutino e degli “amici” del quartiere. E’ per questo che gli uomini del clan avrebbero deciso di passare alle vie di fatto. Il 9 marzo scorso lasciano una tanica di benzina, con tanto di miccia innescata, sulla macchina del consigliere. Nucera denuncia l’episodio, ma afferma di non sapere né chi è stato né il perché della minaccia. Successivamente però arrivano altri messaggi più o meno velati. Il consigliere regionale si spaventa e racconta tutto ad un uomo della Digos. Teme per sé e per la sua famiglia che vive a San Giorgio Extra. La denuncia di tutti i fatti quando Domenico Condemi minaccia esplicitamente il figlio di Nucera: «Digli a tuo padre che la tanica di benzina è solo l’inizio». A qul punto va dalla polizia e racconta tutto.
Da qui le indagini, che hanno poi messo assieme tutta una serie di altri episodi e spiegato il ruolo di Plutino. L’inchiesta contiene tutta una serie di approfondimenti della polizia e anche le intercettazioni di carabinieri fatte per “Crimine”.
Per Plutino era stata fatta una vera e propria campagna elettorale in un quartiere,San Giorgio Extra, nel quale non tutti possono chiedere voti. Nella zona della cosca, alcuni manifesti elettorali era vietato anche affiggerli al muro. Una cosca assolutamente egemone nel quartiere, in grado di fare estorsioni e di controllare i rom del quartiere Ciccarello. E ancora Leo Caridi (nella foto al momento dell'arresto), dopo l’esecuzione dei mandati di cattura dell’operazione “Alta tensione” dei mesi scorsi, aveva iniziato a ricoprire il ruolo di reggente . Sostituendosi nelle gestione degli affari della famiglia, ai boss arrestati nella precedente operazione. Oltre a Leo Caridi, a Giuseppe Plutino e a Domenico Condemi, in manette sono finiti Filippo Condemi, Rosario Calderazzo, Vincenzo Rota e Vincenzo Lombardo. Per tutti, ad esclusione che per Plutino (a cui viene contestato il concorso esterno), l’accusa è di associazione a delinquere.
PLUTINO SOSPESO DALL'INCARICO
Intanto si apprende che il prefetto Luigi Varratta ha sospeso il consigliere comunale di Reggio Calabria Giuseppe Plutino, arrestato ieri nell’ambito dell’operazione antimafia «Alta tensione 2», coordinata dalla Dda reggina. Plutino era stato eletto nella lista del Pdl.
Reggio, processo "Onorata sanità" imputati assolti in appello
La sentenza è stata emessa dalla Corte d’appello di Reggio Calabria nell'ambito del processo «Onorata Sanità», su presunte infiltrazioni mafiose nel comparto sanitario
La Corte d’appello di Reggio Calabria ha emesso la sentenza, con rito abbreviato, del processo «Onorata Sanità» ed ha confutato l’impianto della precedente sentenza, con la quale il Tribunale, in primo grado, aveva condannato nomi eccellenti della politica e della burocrazia sanitaria della Regione e della Provincia di Reggio.
Il collegio, rigettando le richieste di conferma parziale della sentenza formulate dal procuratore generale Santo Melidona, ha assolto con formula piena Peppino Biamonte, già direttore vicario dell’assessorato regionale alla sanità, Pietro Morabito, già direttore generale dell’Asl di Reggio Calabria e gli altri imputati Domenico Latella, Domenico Pangallo e Santo Emilio Caridi.
Il giudice di secondo grado ha anche assolto, accogliendo le richieste del procuratore generale, l’ex assessore alla Sanità della giunta regionale Gianfranco Luzzo, nonchè i funzionari dell’Asl di Reggio, Francesco Cassano, Roberto Mittiga, Alessio Suraci, che si erano occupati a vario titolo della istruzione della pratica amministrativa attraverso cui la clinica Villa Anya, di proprietà dell’ex assessore Regionale Domenico Crea, aveva ottenuto la convenzione con il sistema sanitario regionale.
Altre assoluzioni sono giunte per tutti coloro che erano stati condannati in primo grado per reati di natura associativa di matrice mafiosa, perchè ritenuti responsabili di aver sostenuto elettoralmente Crea al fine di ottenere vantaggi per le rispettive consorterie. Sono stati, infatti, assolti Leonardo Gangemi, Alessandro e Giuseppe Marcianò (a suo tempo coinvolti nelle indagini sul delitto Fortugno), Giuseppe Errante e Giuseppe Pansera.
La Corte d’appello di Reggio Calabria ha emesso la sentenza, con rito abbreviato, del processo «Onorata Sanità» ed ha confutato l’impianto della precedente sentenza, con la quale il Tribunale, in primo grado, aveva condannato nomi eccellenti della politica e della burocrazia sanitaria della Regione e della Provincia di Reggio.
Il collegio, rigettando le richieste di conferma parziale della sentenza formulate dal procuratore generale Santo Melidona, ha assolto con formula piena Peppino Biamonte, già direttore vicario dell’assessorato regionale alla sanità, Pietro Morabito, già direttore generale dell’Asl di Reggio Calabria e gli altri imputati Domenico Latella, Domenico Pangallo e Santo Emilio Caridi.
Il giudice di secondo grado ha anche assolto, accogliendo le richieste del procuratore generale, l’ex assessore alla Sanità della giunta regionale Gianfranco Luzzo, nonchè i funzionari dell’Asl di Reggio, Francesco Cassano, Roberto Mittiga, Alessio Suraci, che si erano occupati a vario titolo della istruzione della pratica amministrativa attraverso cui la clinica Villa Anya, di proprietà dell’ex assessore Regionale Domenico Crea, aveva ottenuto la convenzione con il sistema sanitario regionale.
Altre assoluzioni sono giunte per tutti coloro che erano stati condannati in primo grado per reati di natura associativa di matrice mafiosa, perchè ritenuti responsabili di aver sostenuto elettoralmente Crea al fine di ottenere vantaggi per le rispettive consorterie. Sono stati, infatti, assolti Leonardo Gangemi, Alessandro e Giuseppe Marcianò (a suo tempo coinvolti nelle indagini sul delitto Fortugno), Giuseppe Errante e Giuseppe Pansera.
Perquisizioni a Rosarno, armi e gioielli sequestrate tre aziende d'agrumi
Trovata una cassaforte con un all'interno un vero e proprio "tesoretto". Tre le aziende sequestrate grazie alla collaborazione di Giuseppina Pesce con gli inquirenti
I Carabinieri del ROS e del Comando Provinciale di Reggio Calabria, su disposizione della Direzione Distrettuale Antimafia, hanno eseguito alcune perquisizioni nel centro abitato e nelle campagne di Rosarno, finalizzate alla ricerca di armi ed alla cattura del latitante Giuseppe Pesce, detto “testuni”, considerato l’attuale reggente dell’omonima cosca. L’attività sarebbe scattata a seguito delle dichiarazioni rese dalla collaboratrice di giustizia Giuseppina Pesce. Nel corso di una perquisizione effettuata all’interno di un’azienda agrumaricola, sono stati sequestrati un revolver di grosso calibro (Colt Python cal. 357 magnum), una pistola semiatomatica (Mauser cal. 7,65) e numerose munizioni; le armi erano in perfetto stato di conservazione e pronte all’uso (nella modalità di pronto impiego definita “a colpo in canna”).
Nella circostanza, è stato arrestato per concorso nel reato di detenzione abusiva di armi e munizioni, Gaetano Palaia di 35 anni, ed il padre Rocco Palaia di 52, entrambi pregiudicati. Inoltre, sono state poste sotto sequestro tre imprese di trasformazione agrumaria: la "Derivati agrumari Santa Lucia" di Palaia Gaetano, la "T.L.A. di Maduli Teresa s.a.s" e la "Derivati agrumari San Gennaro dei F.lli Palaia Snc" tutte di proprietà dei Palaia, considerati “famiglia satellite” a disposizione della cosca Pesce.
Le verifiche dei militari hanno fatto emergere inoltre, gravi illeciti in materia ambientale, e pertanto sono stati deferiti in stato di libertà Lucia Palaia, di 34 anni; Teresa di 46 e Fortunato Palaia di 55. Le gravi carenze igienico-sanitarie riscontrate hanno portato al sequestro di una vasta area aziendale dell’estensione di quattro ettari e con all’interno attrezzature per oltre 1.000.000 di euro.
Le indicazioni fornite da Giuseppina Pesce, infine, hanno permesso di sequestrare il contenuto di una cassaforte occultata in una casa disabitata nella disponibilità degli affilitati al clan. All’interno dell’armadio blindato, i militari hanno rinvenuto un “tesoretto” del valore di oltre 200.000 euro, composto da numerosi monili in oro tempestati di pietre preziose (anelli, collane, orecchini, bracciali…) e vari orologi – anche in oro massiccio – di prestigiose maisons, quali “Patek Philippe”, “Rolex” e “Cartier”.
Tali oggetti di valore potrebbero essere provento di una rapina messa a segno da soggetti della cosca Pesce qualche tempo fa ad una gioielleria della piana, secondo quanto riferito dalla collaboratrice di giustizia Pesce Giuseppina in un udienza al Tribunale di Palmi nel processo contro la cosca Pesce.
I Carabinieri del ROS e del Comando Provinciale di Reggio Calabria, su disposizione della Direzione Distrettuale Antimafia, hanno eseguito alcune perquisizioni nel centro abitato e nelle campagne di Rosarno, finalizzate alla ricerca di armi ed alla cattura del latitante Giuseppe Pesce, detto “testuni”, considerato l’attuale reggente dell’omonima cosca. L’attività sarebbe scattata a seguito delle dichiarazioni rese dalla collaboratrice di giustizia Giuseppina Pesce. Nel corso di una perquisizione effettuata all’interno di un’azienda agrumaricola, sono stati sequestrati un revolver di grosso calibro (Colt Python cal. 357 magnum), una pistola semiatomatica (Mauser cal. 7,65) e numerose munizioni; le armi erano in perfetto stato di conservazione e pronte all’uso (nella modalità di pronto impiego definita “a colpo in canna”).
Nella circostanza, è stato arrestato per concorso nel reato di detenzione abusiva di armi e munizioni, Gaetano Palaia di 35 anni, ed il padre Rocco Palaia di 52, entrambi pregiudicati. Inoltre, sono state poste sotto sequestro tre imprese di trasformazione agrumaria: la "Derivati agrumari Santa Lucia" di Palaia Gaetano, la "T.L.A. di Maduli Teresa s.a.s" e la "Derivati agrumari San Gennaro dei F.lli Palaia Snc" tutte di proprietà dei Palaia, considerati “famiglia satellite” a disposizione della cosca Pesce.
Le verifiche dei militari hanno fatto emergere inoltre, gravi illeciti in materia ambientale, e pertanto sono stati deferiti in stato di libertà Lucia Palaia, di 34 anni; Teresa di 46 e Fortunato Palaia di 55. Le gravi carenze igienico-sanitarie riscontrate hanno portato al sequestro di una vasta area aziendale dell’estensione di quattro ettari e con all’interno attrezzature per oltre 1.000.000 di euro.
Le indicazioni fornite da Giuseppina Pesce, infine, hanno permesso di sequestrare il contenuto di una cassaforte occultata in una casa disabitata nella disponibilità degli affilitati al clan. All’interno dell’armadio blindato, i militari hanno rinvenuto un “tesoretto” del valore di oltre 200.000 euro, composto da numerosi monili in oro tempestati di pietre preziose (anelli, collane, orecchini, bracciali…) e vari orologi – anche in oro massiccio – di prestigiose maisons, quali “Patek Philippe”, “Rolex” e “Cartier”.
Tali oggetti di valore potrebbero essere provento di una rapina messa a segno da soggetti della cosca Pesce qualche tempo fa ad una gioielleria della piana, secondo quanto riferito dalla collaboratrice di giustizia Pesce Giuseppina in un udienza al Tribunale di Palmi nel processo contro la cosca Pesce.
Inchiesta su esami comprati, si dimette il fratello di Alfano
Alessandro ha lasciato la carica di segretario generale della Camera di Commercio di Trapani. Ieri gli agenti della sezione reati contro la pubblica amministrazione della squadra mobile di Palermo avevano sequestrato documenti e il fascicolo del concorso da lui vinto nell'ambito dell'inchiesta palermitana su una presunta compravendita di esami nell'ateneo
PALERMO. Il segretario generale della Camera di Commercio di Trapani, Alessandro Alfano, fatello del segretario del Pdl Angelino, si è dimesso da segretario dell'ente.
Ieri gli agenti della sezione reati contro la pubblica amministrazione della squadra mobile di Palermo avevano sequestrato documenti e il fascicolo del concorso da lui vinto nell'ambito dell'inchiesta palermitana su una presunta compravendita di esami nell'ateneo. Nel registro degli indagati ci sono 30 persone.
"Le mie dimissioni sono un atto di rispetto dei confronti di chi indaga - dice Alessandro Alfano - e della Camera di commercio di Trapani affinché questa vicenda non abbia ripercussioni sull'attività svolta dallo stesso ente. "Ho svolto questo incarico con passione e devozione - aggiunge - ma non voglio che questa vicenda si possa prestare a strumentalizzazioni politiche e pertanto ho deciso di dimettermi. Ribadisco di aver regolarmente sostenuto gli esami all'università oggetto di verifica e a tal riguardo sono pronto a dare tutte le spiegazioni necessarie alla magistratura".
Mafia, sequestrato un cantiere nautico a Palermo
La struttura si trova nel porticciolo della zona Acquasanta-Arenella, regno dei boss Fidanzati-Galatolo. Coinvolti Francesco Lo Cicero e Antonino Di Giovanni
PALERMO. La Direzione investigativa antimafia di Palermo ha sequestrato un cantiere nautico, del valore di 2 milioni, a Palermo, nel porticciolo della zona Acquasanta-Arenella, regno dei boss Fidanzati-Galatolo.
Il provvedimento di sequestro ha colpito due palermitani, FRANCESCO LO CICERO, 58 anni, e ANTONINO DI GIOVANNI, di 57, entrambi detenuti, soci della cooperativa che gestisce i servizi del cantiere. I due, appartenenti a Cosa nostra, fanno parte della famiglia mafiosa Acquasanta-Arenella di Palermo.
La società a cui sono stati sequestrati i beni è una cooperativa, la "Di Giovanni Servizi nautici Acquasanta", i cui soci sono Di Giovanni, appunto, e Lo Cicero, entrambi detenuti. Il sito del cantiere nautico è stato indicato da più collaboratori di giustizia quale luogo di incontri riservati tra vari esponenti della famiglie mafiose palermitane.
Il Centro operativo della Dia di Palermo, attraverso intercettazione ambientali e video registrazioni, nel giugno 2010 ha sottoposto a fermo sia Lo Cicero sia Di Giovanni, ritenuti affiliati a Cosa nostra, in concorso con nomi di prima grandezza della criminalità organizzata: i boss Salvatore e Sandro Lo Piccolo, Giuseppe Provenzano, Giuseppe Liga, Manuel Pasta, Bartolo, Salvatore e Antonino Genova, Giovanni Nicchi, Salvatore Giordano, Gioacchino Corso, Gaetano e Stefano Fidanzati, Salvatore Lo Cicero, Francesco Costa, detto "puffetto", Nicolò Ferrara. In particolare, i due soci della coop sono accusati di aver diretto la famiglia mafiosa operante nella zona dell'Arenella-Acquasanta, provvedendo alla raccolta di denaro proveniente dalle estorsioni e mantenendo rapporti con gli altri mafiosi in libertà o latitanti. Di Giovanni e Lo Cicero, inoltre, avrebbero effettuato numerosi incontri e riunioni con importanti esponenti dell'organizzazione mafiosa di altri mandamenti e gestito, per conto di Cosa nostra, la cassa della famiglia di riferimento.
PALERMO. La Direzione investigativa antimafia di Palermo ha sequestrato un cantiere nautico, del valore di 2 milioni, a Palermo, nel porticciolo della zona Acquasanta-Arenella, regno dei boss Fidanzati-Galatolo.
Il provvedimento di sequestro ha colpito due palermitani, FRANCESCO LO CICERO, 58 anni, e ANTONINO DI GIOVANNI, di 57, entrambi detenuti, soci della cooperativa che gestisce i servizi del cantiere. I due, appartenenti a Cosa nostra, fanno parte della famiglia mafiosa Acquasanta-Arenella di Palermo.
La società a cui sono stati sequestrati i beni è una cooperativa, la "Di Giovanni Servizi nautici Acquasanta", i cui soci sono Di Giovanni, appunto, e Lo Cicero, entrambi detenuti. Il sito del cantiere nautico è stato indicato da più collaboratori di giustizia quale luogo di incontri riservati tra vari esponenti della famiglie mafiose palermitane.
Il Centro operativo della Dia di Palermo, attraverso intercettazione ambientali e video registrazioni, nel giugno 2010 ha sottoposto a fermo sia Lo Cicero sia Di Giovanni, ritenuti affiliati a Cosa nostra, in concorso con nomi di prima grandezza della criminalità organizzata: i boss Salvatore e Sandro Lo Piccolo, Giuseppe Provenzano, Giuseppe Liga, Manuel Pasta, Bartolo, Salvatore e Antonino Genova, Giovanni Nicchi, Salvatore Giordano, Gioacchino Corso, Gaetano e Stefano Fidanzati, Salvatore Lo Cicero, Francesco Costa, detto "puffetto", Nicolò Ferrara. In particolare, i due soci della coop sono accusati di aver diretto la famiglia mafiosa operante nella zona dell'Arenella-Acquasanta, provvedendo alla raccolta di denaro proveniente dalle estorsioni e mantenendo rapporti con gli altri mafiosi in libertà o latitanti. Di Giovanni e Lo Cicero, inoltre, avrebbero effettuato numerosi incontri e riunioni con importanti esponenti dell'organizzazione mafiosa di altri mandamenti e gestito, per conto di Cosa nostra, la cassa della famiglia di riferimento.
Cadavere carbonizzato nel Palermitano
La scoperta nelle campagne di Misilmeri. Si ipotizza che si tratti di una donna e non di Salvatore Unitario, 42 anni, disoccupato, di cui non si hanno più notizie dal 7 ottobre scorso
PALERMO. Sarebbe di una donna e non di un uomo come sembrava in un primo tempo il corpo carbonizzato ritrovato nelle campagne di Misilmeri. La vittima giaceva sul ciglio di una strada trasformata in discarica. È stato un passante a notarla e ad avvertire i carabinieri, a cui non sono
pervenute denunce di donne scomparse. Nonostante il corpo sia stato sfigurato dalle fiamme, il medico legale non avrebbe riscontrato tracce di colpi di arma da fuoco. Da una prima ricognizione emergono i segni del fuoco anche sul terreno attorno al cadavere. Il corpo, secondo i carabinieri del nucleo investigativo, dovrebbe essere stato bruciato sul posto e non dopo essere stato trasportato in contrada Marraffa. Scartata, dunque, l'ipotesi che la vittima possa essere Salvatore Unitario, l'uomo di cui si sono perse le tracce dal 7 ottobre scorso, su cui si erano concentrate le prime ipotesi investigative. I carabinieri hanno raccolto alcun resti della vittima per esaminarli.
I corpi carbonizzati di due uomini, ancora non ufficialmente identificati, sono stati trovati in un'auto bruciata nelle campagne di contrada Serravalle-Tirirò, in territorio di Lentini, nel Siracusano. Secondo gli investigatori i due cadaveri potrebbero essere quelli di due catanesi dei quali si sono perse le tracce da ieri sera, dopo essere usciti da casa per andare a cena con degli amici, e dei quali i familiari hanno denunciato la scomparsa: Domenico Bertolo, di 37 anni, e Gaetano Trovato, di 42 anni. Decisivi saranno gli accertamenti medico-legali.
PALERMO. Sarebbe di una donna e non di un uomo come sembrava in un primo tempo il corpo carbonizzato ritrovato nelle campagne di Misilmeri. La vittima giaceva sul ciglio di una strada trasformata in discarica. È stato un passante a notarla e ad avvertire i carabinieri, a cui non sono
pervenute denunce di donne scomparse. Nonostante il corpo sia stato sfigurato dalle fiamme, il medico legale non avrebbe riscontrato tracce di colpi di arma da fuoco. Da una prima ricognizione emergono i segni del fuoco anche sul terreno attorno al cadavere. Il corpo, secondo i carabinieri del nucleo investigativo, dovrebbe essere stato bruciato sul posto e non dopo essere stato trasportato in contrada Marraffa. Scartata, dunque, l'ipotesi che la vittima possa essere Salvatore Unitario, l'uomo di cui si sono perse le tracce dal 7 ottobre scorso, su cui si erano concentrate le prime ipotesi investigative. I carabinieri hanno raccolto alcun resti della vittima per esaminarli.
I corpi carbonizzati di due uomini, ancora non ufficialmente identificati, sono stati trovati in un'auto bruciata nelle campagne di contrada Serravalle-Tirirò, in territorio di Lentini, nel Siracusano. Secondo gli investigatori i due cadaveri potrebbero essere quelli di due catanesi dei quali si sono perse le tracce da ieri sera, dopo essere usciti da casa per andare a cena con degli amici, e dei quali i familiari hanno denunciato la scomparsa: Domenico Bertolo, di 37 anni, e Gaetano Trovato, di 42 anni. Decisivi saranno gli accertamenti medico-legali.
martedì 20 dicembre 2011
Dopo 19 anni, Michele Zagaria "ricompare" in un'aula di tribunale
NAPOLI - L'ultima volta che era comparso in un'aula di tribunale era stato 19 anni fa, quando fu processato e condannato per detenzione illegale di armi. A quel tempo era uno dei tanti affiliati al clan dei Casalesi, uno dei killer più spietati e affidabili del gruppo Schiavone-Bidognetti.
Ieri mattina ha fatto il suo ingresso in un'aula di giustizia nella veste di capoclan, di ultimo capo del clan dei Casalesi.
Michele Zagaria, 53 anni, arrestato a Casapesenna dodici giorni fa dopo 16 anni e due giorni di latitanza, è virtualmente entrato nell'aula B del carcere nuovo di Santa Maria Capua Vetere, collegato in videoconferenza dalla saletta dedicata del supercarcere di Novara.
Presenza durata pochi minuti, dalle 10,40 alle 10,48: il tempo di salutare e di confermare al presidente (Picardi) la sua presenza.
Poi il processo, nel quale Zagaria (assieme al padre Nicola) è imputato per estorsione, è stato rinviato al 6 febbraio per un difetto di notifica.
Rosaria Capacchione
Blitz contro il clan Menditto-Belforte
In manette anche le mogli dei boss
CASERTA - La squadra mobile di Caserta sta eseguendo undici ordinanze di custodia cautelare in carcere e numerose perquisizioni nei confronti di presunti affiliati al gruppo 'Menditti' del clan camorristico dei Belforte. Tra i destinatari dei provvedimenti figurano anche due donne , mogli dei due capiclan, i fratelli Alessandro e Fabrizio Menditti, che secondo le indagini stavano gestendo una capillare attività estorsiva. Le due donne sono accusate anche di reati in materia di armi e di traffico di stupefacenti, come cocaina e hascisc.
Il clan è attivo nel comprensorio di Caserta, Marcianise (Caserta) e l'intera area metropolitana contigua al capoluogo. Le indagini della polizia, coordinate dalla Procura Antimafia di Napoli, hanno consentito di accertare l'ascesa dei 'Mendittì, favoriti dal progressivo indebolimento del clan Belforte, soprannominati «i mazzacane», decimato dopo l'arresto dei suoi capi storici e dalla scelta di collaborare con la giustizia di alcuni esponenti di spicco dell' organizzazione, protagonista negli anni '90 di una sanguinosa faida con il clan 'Piccolo'.
CASERTA - La squadra mobile di Caserta sta eseguendo undici ordinanze di custodia cautelare in carcere e numerose perquisizioni nei confronti di presunti affiliati al gruppo 'Menditti' del clan camorristico dei Belforte. Tra i destinatari dei provvedimenti figurano anche due donne , mogli dei due capiclan, i fratelli Alessandro e Fabrizio Menditti, che secondo le indagini stavano gestendo una capillare attività estorsiva. Le due donne sono accusate anche di reati in materia di armi e di traffico di stupefacenti, come cocaina e hascisc.
Il clan è attivo nel comprensorio di Caserta, Marcianise (Caserta) e l'intera area metropolitana contigua al capoluogo. Le indagini della polizia, coordinate dalla Procura Antimafia di Napoli, hanno consentito di accertare l'ascesa dei 'Mendittì, favoriti dal progressivo indebolimento del clan Belforte, soprannominati «i mazzacane», decimato dopo l'arresto dei suoi capi storici e dalla scelta di collaborare con la giustizia di alcuni esponenti di spicco dell' organizzazione, protagonista negli anni '90 di una sanguinosa faida con il clan 'Piccolo'.
Sanità, per Tedesco una nuova richiesta di arresto
BARI - Suo genero, il suo «braccio destro», uno degli imprenditori: questa la sua presunta rete di interessi. Al centro, l’ex assessore regionale alla Salute, il senatore Alberto Tedesco (ex Pd, ora del Gruppo Misto). I primi tre sono finiti ieri pomeriggio agli arresti domiciliari. E nei confronti del senatore è partita per Palazzo Madama la procedura per inoltrare una seconda richiesta di arresto (la prima fu bocciata a luglio). Con l’accusa, stavolta, di associazione a delinquere.
È l’inchiesta sulla presunta «cricca»: la tesi è che per anni il gruppo sarebbe stato in grado di pilotare nomine di dirigenti della Asl pugliesi e primari, controllando forniture e gare d’appalto a favore di imprenditori amici, a loro volta in grado di garantire a Tedesco un consistente pacchetto di voti. Il provvedimento emesso dal Tribunale del Riesame nei confronti di Elio Rubino, Mario Malcangi e Diego Rana è stato eseguito ieri pomeriggio dai Carabinieri. Ed è la conseguenza della sentenza con cui la Cassazione ha respinto il ricorso degli indagati, che contestavano proprio l’accusa di associazione a delinquere. L’esistenza dei gravi indizi di colpevolezza, negata dal gip del Tribunale di Bari Giuseppe De Benedictis il 23 febbraio, era stata invece riconosciuta dal Tribunale del Riesame (presidente Francesca La Malfa) che aveva accolto l’appello dei Pm Desirèe Digeronimo, Francesco Bretone e Marcello Quercia. E così si è finiti davanti alla Suprema corte.
Al senatore Tedesco la Procura contesta il ruolo svolto dal 2005 al 2009, quando era assessore pugliese alla Sanità nella prima giunta Vendola, ipotizzando un sistema di affari basato sullo scambio tra nomine nella sanità e che aveva come obiettivo il sostegno elettorale. A seguito della conferma dell’accusa, sia pure solo da un punto di vista cautelare e non certo di merito, il Senato dovrà nuovamente votare sulla richiesta di autorizzazione a procedere all’esecuzione della misura degli arresti domiciliari, anche se prima è necessario che la Cassazione pubblichi le motivazioni. Il 20 luglio il Senato aveva già detto «no» all’arresto di Tedesco per le accuse di concussione, abuso di ufficio, turbativa di asta e concorso in falso.
Ora Palazzo Madama dovrà esprimersi sull’associazione per delinquere. Lo stesso reato per il quale Rubino, Malcangi e Rana sono finiti ieri ai domiciliari. E per il quale potrebbero essere presto eseguiti provvedimenti cautelari anche nei confronti di altre 16 persone: tra loro anche gli imprenditori altamurani Carlo Dante e Michele Columella. Secondo il Riesame Malcangi da un lato era il «collettore di tutte le esigenze e le richieste i quegli imprenditori appartenenti alla “rete” come Columella, Petronella, Rana, Balestrazzi, Garofoli, Rubino interessati a lavorare nel campo della sanità sfruttando la comune appartenenza al sodalizio criminoso», dall’altro era «trasmettitore degli ordini e disposizioni del capo ai pubblici funzionari addetti alle singole pratiche». Rubino, il genero del senatore, avrebbe svolto un ruolo da «intermediatore» tra l’ex assessore regionale alla Salute ed alcuni imprenditori. L’indagato, secondo la Procura amministratore di una delle aziende di famiglia, si sarebbe speso non solo per ottenere appalti per sé, ma anche per favorire gli imprenditori Max Paganini (della Cbh, la Società proprietaria della clinica Mater Dei) e Michele Columella (della Viri di Altamura). Rubino - sempre secondo la Procura - avrebbe insomma fatto da tramite con Tedesco per far ottenere favori a terzi. Per il Riesame (e la Cassazione) ci sono, dunque, i gravi indizi di colpevolezza e le esigenze cautelari. Altra cosa, naturalmente, sarà provare nel merito le pesanti accuse.
GIOVANNI LONGO
È l’inchiesta sulla presunta «cricca»: la tesi è che per anni il gruppo sarebbe stato in grado di pilotare nomine di dirigenti della Asl pugliesi e primari, controllando forniture e gare d’appalto a favore di imprenditori amici, a loro volta in grado di garantire a Tedesco un consistente pacchetto di voti. Il provvedimento emesso dal Tribunale del Riesame nei confronti di Elio Rubino, Mario Malcangi e Diego Rana è stato eseguito ieri pomeriggio dai Carabinieri. Ed è la conseguenza della sentenza con cui la Cassazione ha respinto il ricorso degli indagati, che contestavano proprio l’accusa di associazione a delinquere. L’esistenza dei gravi indizi di colpevolezza, negata dal gip del Tribunale di Bari Giuseppe De Benedictis il 23 febbraio, era stata invece riconosciuta dal Tribunale del Riesame (presidente Francesca La Malfa) che aveva accolto l’appello dei Pm Desirèe Digeronimo, Francesco Bretone e Marcello Quercia. E così si è finiti davanti alla Suprema corte.
Al senatore Tedesco la Procura contesta il ruolo svolto dal 2005 al 2009, quando era assessore pugliese alla Sanità nella prima giunta Vendola, ipotizzando un sistema di affari basato sullo scambio tra nomine nella sanità e che aveva come obiettivo il sostegno elettorale. A seguito della conferma dell’accusa, sia pure solo da un punto di vista cautelare e non certo di merito, il Senato dovrà nuovamente votare sulla richiesta di autorizzazione a procedere all’esecuzione della misura degli arresti domiciliari, anche se prima è necessario che la Cassazione pubblichi le motivazioni. Il 20 luglio il Senato aveva già detto «no» all’arresto di Tedesco per le accuse di concussione, abuso di ufficio, turbativa di asta e concorso in falso.
Ora Palazzo Madama dovrà esprimersi sull’associazione per delinquere. Lo stesso reato per il quale Rubino, Malcangi e Rana sono finiti ieri ai domiciliari. E per il quale potrebbero essere presto eseguiti provvedimenti cautelari anche nei confronti di altre 16 persone: tra loro anche gli imprenditori altamurani Carlo Dante e Michele Columella. Secondo il Riesame Malcangi da un lato era il «collettore di tutte le esigenze e le richieste i quegli imprenditori appartenenti alla “rete” come Columella, Petronella, Rana, Balestrazzi, Garofoli, Rubino interessati a lavorare nel campo della sanità sfruttando la comune appartenenza al sodalizio criminoso», dall’altro era «trasmettitore degli ordini e disposizioni del capo ai pubblici funzionari addetti alle singole pratiche». Rubino, il genero del senatore, avrebbe svolto un ruolo da «intermediatore» tra l’ex assessore regionale alla Salute ed alcuni imprenditori. L’indagato, secondo la Procura amministratore di una delle aziende di famiglia, si sarebbe speso non solo per ottenere appalti per sé, ma anche per favorire gli imprenditori Max Paganini (della Cbh, la Società proprietaria della clinica Mater Dei) e Michele Columella (della Viri di Altamura). Rubino - sempre secondo la Procura - avrebbe insomma fatto da tramite con Tedesco per far ottenere favori a terzi. Per il Riesame (e la Cassazione) ci sono, dunque, i gravi indizi di colpevolezza e le esigenze cautelari. Altra cosa, naturalmente, sarà provare nel merito le pesanti accuse.
GIOVANNI LONGO
Rapina a Taranto ucciso un vigilante per 30mila euro
TARANTO – Aveva appena finito di prelevare il denaro dalla banca quando due banditi, armati e con il volto coperto da passamontagna lo hanno bloccato sull'uscio dell’istituto di credito: l’intimazione di consegnare il sacco, un probabile abbozzo di reazione e un colpo di pistola che lo uccide quasi all’istante. Così nel primo pomeriggio di oggi è morto a Taranto Francesco Malcore, 35 anni, guardia giurata. Lavorava da una decina d’anni alle dipendenze dell’istituto di vigilanza Vis; lascia la moglie e due bambini. I banditi sono fuggiti con un bottino di 30mila euro e da ore carabinieri e poliziotti stanno dando loro la caccia.
La rapina finita in tragedia si è consumata verso le 15 dinanzi alla filiale Unicredit-Banca di Roma in via Orsini, nel popolare rione Tamburi, lo stesso nel quale viveva anche Malcore. La guardia giurata è arrivata con un collega dinanzi alla banca a bordo di un furgone per prelevare il denaro, un’operazione fatta chissà quante volte in questi dieci anni. Ma all’uscita, con il sacco di banconote in mano, Malcore è stato bloccato dai rapinatori. I due banditi pare siano sbucati da una stradina laterale, dopo aver atteso l’arrivo del furgone e l’espletamento delle procedure per il ritiro del denaro da parte dei vigilanti.
I malfattori, secondo una prima ricostruzione fatta dagli inquirenti, hanno intimato alla guardia giurata di consegnare il sacco. Malcore forse ha abbozzato istintivamente un tentativo di reazione e il bandito armato non ha avuto esitazioni: ha sparato un solo colpo di pistola, centrando alla fronte la guardia giurata che è crollata a terra. I rapinatori hanno preso il sacco con i soldi e sono fuggiti. Non è escluso che ad attenderli ci fosse un complice, mentre nelle adiacenze della banca gli investigatori hanno trovato e sequestrato una Fiat 500 vecchio tipo risultata rubata che i banditi potrebbero aver usato per raggiungere l’istituto di credito.
Sul luogo della rapina è arrivata un’ambulanza con personale del 118 che ha cercato di rianimare il vigilante, ma ormai era troppo tardi. Subito dopo la salma è stata trasferita nell’obitorio dell’ospedale Santissima Annunziata. Sul luogo della tragedia sono giunti il procuratore della Repubblica di Taranto, Franco Sebastio, e il procuratore aggiunto, Pietro Argentino. È iniziata subito la 'caccia all’uomò da parte di carabinieri e poliziotti, anche con l’ausilio di un elicottero.
Gli investigatori sospettano che i banditi siano esponenti della malavita locale, forse residenti nello stesso rione Tamburi. Sono scattati posti di blocco e perquisizioni, sono state sentite decine di persone, mentre si starebbe valutando il contenuto di alcune telecamere di videosorveglianza installate nelle adiacenze della banca. Via Orsini, invece, è stata invasa dalla disperazione di parenti e amici della guardia giurata uccisa, che ora reclamano giustizia.
Terremoto in Abruzzo, in manette 4 affiliati ad una cosca calabrese
L’operazione denominata "Lypas" prende il nome da una delle ditte edili riconducibili all’organizzazione criminale della 'ndrangheta
Operazione di polizia giudiziaria questa mattina contro le infiltrazioni della 'ndrangheta in Abruzzo, che ha portato all’esecuzione di quattro ordini di custodia cautelare in carcere, nei confronti di altrettanti personaggi legati al mondo dell’imprenditoria aquilana, e che avrebbero contribuito al rafforzamento della cosca mafiosa 'Caridi-Zincato-Borghetto' inserita nella più ampia 'Locale' dei 'Librì, radicata nel territorio di Reggio Calabria.
L’operazione è stata denominata 'Lypas', dal nome da una delle ditte edili riconducibili all’organizzazione criminale, ha visto impegnati i finanzieri del Nucleo di Polizia Tributaria – Gico – della Guardia di Finanza dell’Aquila e i poliziotti della Sezione Criminalità organizzata della Mobile della Questura sempre del capoluogo abruzzese.
I provvedimenti cautelari, su richiesta della Procura della Repubblica – Direzione Distrettuale Antimafia di L'Aquila, sono stati emessi dal G.I.P. Marco Billi. Agli arrestati (B.S. trentaquattrenne di L’Aquila; V.A. di 45 anni ; V.M. di 38 anni e I.F. di 58 anni , tutti di Reggio Calabria) viene contestato il reato di concorso esterno in associazione di stampo mafioso.
Le indagini coordinate dal Procuratore della Repubblica Alfredo Rossigni e dal sostituto procuratore Fabio Picuti, sono durate circa due anni e hanno evidenziato il forte interessamento degli esponenti della cosca reggina ai lavori di ricostruzione degli immobili da parte dei privati, nel cui ambito non è prevista alcuna procedura a evidenza pubblica nè alcuna certificazione antimafia per l’impresa individuata per l'esecuzione dei lavori.
Le indagini sono nate all’esito di preliminari iniziative programmate dalla Questura per monitorare e respingere le eventuali azioni di condizionamento e 'infiltrazione' nei lavori di ricostruzione edilizia post sisma da parte di componenti della criminalità organizzata.
Le investigazioni della Mobile si sono avvalse di intercettazione di numerosissime utenze cellulari nonchè mediante l’ascolto di ore e ore di conversazioni ambientali e mediante riservati servizi di osservazione che hanno documentato fotograficamente le fasi preliminari di un incontro avvenuto nel maggio 2010 in un albergo di L’Aquila tra gli arrestati e componenti della cosca reggina. L’indagine ha permesso di definire le concrete modalità operative attraverso cui la cosca 'ndranghetista reggina ha tentato di penetrare il territorio aquilano. Il quadro indiziario via via delineatosi è stato poi corroborato dalle risultanze investigative ottenute dalla Mobile della Questura di Reggio Calabria che, nello sviluppo di proprie iniziative avviate in loco, ha successivamente dato esecuzione all’operazione di polizia giudiziaria 'Alta Tensionè. Le successive investigazioni economico-finanziarie del Gico della Guardia di Finanza di L’Aquila, mediante accertamenti bancari, indagini patrimoniali e riscontri documentali, hanno integrato e ampliato gli esiti delle indagini tecniche, in modo da conferire ulteriore valore probante a quanto appurato a seguito delle operazioni di ascolto. In particolare è emerso che Santo Giovanni Caridi, referente della cosca 'ndranghetista reggina, arrestato nell’ambito di 'Alta tensione', si è inserito nei lavori di ricostruzione degli immobili privati per il tramite di B.S., imprenditore aquilano già presente nell’ambito del post-terremoto, e grazie alla mediazione di V.A., V.M. e I.F.. I quattro, all’epoca attivi sul territorio aquilano, hanno sostanzialmente fornito concreto supporto logistico alla penetrazione economica della cosca, intermediando per l’acquisto di quota parte del capitale sociale di una società interessata ai lavori, utilizzando le maestranze indicate dagli affiliati del sodalizio calabrese, usufruendo di imprese riconducibili alla cosca reggina. Le attività di riscontro e monitoraggio, eseguite dal Gico dell’Aquila in collaborazione col Servizio centrale Investigazione Criminalità irganizzata della Gdf di Roma hanno riguardato 31 persone fisiche e 10 giuridiche. Fiamme Gialle e Polizia, parallelamente all’esecuzione delle misure cautelari personali, hanno sottoposto a sequestro (ex art.12 sexies D.L. 306/92) la consistenza patrimoniale costituita da quote sociali di 4 società, 8 automezzi, 5 immobili, 25 rapporti bancari, riconducibili agli indagati e dalle attività commerciali a loro facenti capo, per un valore complessivo di oltre un milione di euro.
LA PROCURA AQUILANA AVEVA GIA' LANCIATO L'ALLARME INFILTRAZIONI
Prima dell’operazione odierna, nell’ambito della ricostruzione privata, più volte la magistratura aquilana aveva lanciato allarmi e denunciato il far west, la carenza di controlli e la guerra tra aziende in atto intorno a queste milionarie commesse. L’inchiesta attuale era stata avviata diversi mesi fa dal procuratore distrettuale antimafia, Alfredo Rossigni, e dal sostituto Fabio Picuti, i quali hanno chiesto e ottenuto dal Gip Marco Billi gli ordini di custodia cautelare.
Altre inchieste – ancora in corso – erano state avviate subito dopo il terremoto per alzare il livello di attenzione sulla infiltrazioni mafiose nel cantiere più grande d’Europa. In particolare, anche in seguito ai rilievi sulle infiltrazioni della 'ndrangheta emersi all’Aquila, c'è stata anche l'operazione «Alta Tensione» della Procura di Reggio Calabria che ha portato all’arresto di numerose persone, tra cui il boss Santo Giovanni Caridi, sul conto del quale tra l’altro sono emersi collegamenti con società aquilane impegnate nella ricostruzione.
Riguardo alla vicenda odierna, è emerso che il commercialista del boss aveva acquistato il 50% della società di costruzioni «Tesi srl», di proprietà di uno dei quattro arrestati, Stefano Biasini. Secondo quanto si è appreso, Caridi si sarebbe inserito nella ricostruzione attraverso Stefano Biasini, con la mediazione degli altre tre arrestati. L’operazione «Lypas» è stata caratterizzata da investigazioni della Squadra Mobile attraverso intercettazioni di numerosissime utenze cellulari e con l’ascolto di molte ore di conversazioni ambientali: la polizia ha documentato fotograficamente le fasi preliminari di un incontro avvenuto nel maggio 2010 in un albergo dell’Aquila tra gli arrestati e componenti della cosca reggina.
Le investigazioni economico-finanziarie del Gico della Guardia di Finanza dell’Aquila, attraverso accertamenti bancari, indagini patrimoniali e riscontri documentali, hanno integrato e ampliato gli esiti delle indagini tecniche consolidando il quadro accusatorio.
Operazione di polizia giudiziaria questa mattina contro le infiltrazioni della 'ndrangheta in Abruzzo, che ha portato all’esecuzione di quattro ordini di custodia cautelare in carcere, nei confronti di altrettanti personaggi legati al mondo dell’imprenditoria aquilana, e che avrebbero contribuito al rafforzamento della cosca mafiosa 'Caridi-Zincato-Borghetto' inserita nella più ampia 'Locale' dei 'Librì, radicata nel territorio di Reggio Calabria.
L’operazione è stata denominata 'Lypas', dal nome da una delle ditte edili riconducibili all’organizzazione criminale, ha visto impegnati i finanzieri del Nucleo di Polizia Tributaria – Gico – della Guardia di Finanza dell’Aquila e i poliziotti della Sezione Criminalità organizzata della Mobile della Questura sempre del capoluogo abruzzese.
I provvedimenti cautelari, su richiesta della Procura della Repubblica – Direzione Distrettuale Antimafia di L'Aquila, sono stati emessi dal G.I.P. Marco Billi. Agli arrestati (B.S. trentaquattrenne di L’Aquila; V.A. di 45 anni ; V.M. di 38 anni e I.F. di 58 anni , tutti di Reggio Calabria) viene contestato il reato di concorso esterno in associazione di stampo mafioso.
Le indagini coordinate dal Procuratore della Repubblica Alfredo Rossigni e dal sostituto procuratore Fabio Picuti, sono durate circa due anni e hanno evidenziato il forte interessamento degli esponenti della cosca reggina ai lavori di ricostruzione degli immobili da parte dei privati, nel cui ambito non è prevista alcuna procedura a evidenza pubblica nè alcuna certificazione antimafia per l’impresa individuata per l'esecuzione dei lavori.
Le indagini sono nate all’esito di preliminari iniziative programmate dalla Questura per monitorare e respingere le eventuali azioni di condizionamento e 'infiltrazione' nei lavori di ricostruzione edilizia post sisma da parte di componenti della criminalità organizzata.
Le investigazioni della Mobile si sono avvalse di intercettazione di numerosissime utenze cellulari nonchè mediante l’ascolto di ore e ore di conversazioni ambientali e mediante riservati servizi di osservazione che hanno documentato fotograficamente le fasi preliminari di un incontro avvenuto nel maggio 2010 in un albergo di L’Aquila tra gli arrestati e componenti della cosca reggina. L’indagine ha permesso di definire le concrete modalità operative attraverso cui la cosca 'ndranghetista reggina ha tentato di penetrare il territorio aquilano. Il quadro indiziario via via delineatosi è stato poi corroborato dalle risultanze investigative ottenute dalla Mobile della Questura di Reggio Calabria che, nello sviluppo di proprie iniziative avviate in loco, ha successivamente dato esecuzione all’operazione di polizia giudiziaria 'Alta Tensionè. Le successive investigazioni economico-finanziarie del Gico della Guardia di Finanza di L’Aquila, mediante accertamenti bancari, indagini patrimoniali e riscontri documentali, hanno integrato e ampliato gli esiti delle indagini tecniche, in modo da conferire ulteriore valore probante a quanto appurato a seguito delle operazioni di ascolto. In particolare è emerso che Santo Giovanni Caridi, referente della cosca 'ndranghetista reggina, arrestato nell’ambito di 'Alta tensione', si è inserito nei lavori di ricostruzione degli immobili privati per il tramite di B.S., imprenditore aquilano già presente nell’ambito del post-terremoto, e grazie alla mediazione di V.A., V.M. e I.F.. I quattro, all’epoca attivi sul territorio aquilano, hanno sostanzialmente fornito concreto supporto logistico alla penetrazione economica della cosca, intermediando per l’acquisto di quota parte del capitale sociale di una società interessata ai lavori, utilizzando le maestranze indicate dagli affiliati del sodalizio calabrese, usufruendo di imprese riconducibili alla cosca reggina. Le attività di riscontro e monitoraggio, eseguite dal Gico dell’Aquila in collaborazione col Servizio centrale Investigazione Criminalità irganizzata della Gdf di Roma hanno riguardato 31 persone fisiche e 10 giuridiche. Fiamme Gialle e Polizia, parallelamente all’esecuzione delle misure cautelari personali, hanno sottoposto a sequestro (ex art.12 sexies D.L. 306/92) la consistenza patrimoniale costituita da quote sociali di 4 società, 8 automezzi, 5 immobili, 25 rapporti bancari, riconducibili agli indagati e dalle attività commerciali a loro facenti capo, per un valore complessivo di oltre un milione di euro.
LA PROCURA AQUILANA AVEVA GIA' LANCIATO L'ALLARME INFILTRAZIONI
Prima dell’operazione odierna, nell’ambito della ricostruzione privata, più volte la magistratura aquilana aveva lanciato allarmi e denunciato il far west, la carenza di controlli e la guerra tra aziende in atto intorno a queste milionarie commesse. L’inchiesta attuale era stata avviata diversi mesi fa dal procuratore distrettuale antimafia, Alfredo Rossigni, e dal sostituto Fabio Picuti, i quali hanno chiesto e ottenuto dal Gip Marco Billi gli ordini di custodia cautelare.
Altre inchieste – ancora in corso – erano state avviate subito dopo il terremoto per alzare il livello di attenzione sulla infiltrazioni mafiose nel cantiere più grande d’Europa. In particolare, anche in seguito ai rilievi sulle infiltrazioni della 'ndrangheta emersi all’Aquila, c'è stata anche l'operazione «Alta Tensione» della Procura di Reggio Calabria che ha portato all’arresto di numerose persone, tra cui il boss Santo Giovanni Caridi, sul conto del quale tra l’altro sono emersi collegamenti con società aquilane impegnate nella ricostruzione.
Riguardo alla vicenda odierna, è emerso che il commercialista del boss aveva acquistato il 50% della società di costruzioni «Tesi srl», di proprietà di uno dei quattro arrestati, Stefano Biasini. Secondo quanto si è appreso, Caridi si sarebbe inserito nella ricostruzione attraverso Stefano Biasini, con la mediazione degli altre tre arrestati. L’operazione «Lypas» è stata caratterizzata da investigazioni della Squadra Mobile attraverso intercettazioni di numerosissime utenze cellulari e con l’ascolto di molte ore di conversazioni ambientali: la polizia ha documentato fotograficamente le fasi preliminari di un incontro avvenuto nel maggio 2010 in un albergo dell’Aquila tra gli arrestati e componenti della cosca reggina.
Le investigazioni economico-finanziarie del Gico della Guardia di Finanza dell’Aquila, attraverso accertamenti bancari, indagini patrimoniali e riscontri documentali, hanno integrato e ampliato gli esiti delle indagini tecniche consolidando il quadro accusatorio.
Reggio, sequestrata una società riconducibile ad un latitante
Un sequestro preventivo a carico di una società attiva nel settore della panificazione, è stato portato a termine dai Carabinieri del Ros e del Comando provinciale di Reggio Calabria
La Dda di Reggio Calabria ha emesso un decreto di sequestro preventivo emesso nei confronti della società «Pane Pizza e Fantasie Srl», per la quale sarebbe stata effettuata una «intestazione fittizia». Secondo le indagini, infatti, l’assetto societario sarebbe riconducibile ai prossimi congiunti di Antonino Imerti (in foto), noto «nano feroce», e Domenico Condello, latitante sin dal 1991 e recentemente colpito da altro provvedimento emesso dalla Dda di Reggio Calabria nell’ambito dell’operazione denominata «Reggio Nord».
Nel corso dell’indagine è emerso che sul piano formale, l’assetto societario fa capo ai congiunti Maddalena Martino e Giuseppe Martino, zii materni del latitante che, peraltro, nel corso di perquisizione domiciliare eseguita il 22 giugno scorso, erano stati trovati in possesso di 49.690 euro in denaro contante, 52.000 euro e 10.000.000 lire in buoni fruttiferi postali, in parte cointestati con Giuseppa Condello. Quest’ultima, moglie di Imerti, sempre secondo le indagini, benchè formalmente estranea all’attività, è il centro di imputazione delle responsabilità gestionali, intrattenendo relazioni
La Dda di Reggio Calabria ha emesso un decreto di sequestro preventivo emesso nei confronti della società «Pane Pizza e Fantasie Srl», per la quale sarebbe stata effettuata una «intestazione fittizia». Secondo le indagini, infatti, l’assetto societario sarebbe riconducibile ai prossimi congiunti di Antonino Imerti (in foto), noto «nano feroce», e Domenico Condello, latitante sin dal 1991 e recentemente colpito da altro provvedimento emesso dalla Dda di Reggio Calabria nell’ambito dell’operazione denominata «Reggio Nord».
Nel corso dell’indagine è emerso che sul piano formale, l’assetto societario fa capo ai congiunti Maddalena Martino e Giuseppe Martino, zii materni del latitante che, peraltro, nel corso di perquisizione domiciliare eseguita il 22 giugno scorso, erano stati trovati in possesso di 49.690 euro in denaro contante, 52.000 euro e 10.000.000 lire in buoni fruttiferi postali, in parte cointestati con Giuseppa Condello. Quest’ultima, moglie di Imerti, sempre secondo le indagini, benchè formalmente estranea all’attività, è il centro di imputazione delle responsabilità gestionali, intrattenendo relazioni
Messina, colpo al clan Mangialupi: sei arresti
Operazione della polizia. Tra i coinvolti i fratelli Giuseppe e Antonino Cutè che avrebbero organizzato nella loro abitazione di piazza Verga una centrale dello spaccio di droga
MESSINA. La polizia ha eseguito sei ordinanze di custodia cautelare, una delle quali ai domiciliari, nei confronti dei fratelli Giuseppe e Antonino Cuté e di altre quattro persone, tutti accusati di far parte del clan Mangialupi di Messina che avrebbe collegamenti on la criminalità calabrese e campana. Gli arrestati devono rispondere di associazione mafiosa produzione traffico e spaccio di droga.
In particolare i fratelli Cuté avrebbero organizzato nella loro abitazione in piazza Verga, nel rione Mangialupi, una vera e propria centrale dello spaccio dove grosse partite di sostanze stupefacenti venivano lavorate per il successivo commercio al dettaglio. Figura chiave nella gestione del traffico era la convivente di uno dei Cuté, unica donna tra gli arrestati, che oltre a presenziare alle trattative, partecipava alla fase del confezionamento e monitorava il controllo del territorio. Al padre dei due Cuté, Alessandro, e allo zio Giovanni il Tribunale Misure di Prevenzione nel 2010 aveva disposto la confisca di una lussuosa villa a tre piani dove furono trovati marmi pregiati, vasche idromassaggio, mobili costosi, televisori lcd e divani in pelle, rubinetti del bagno rivestiti in oro, letti a baldacchino e altri arredi ricercati. La villetta era abusiva.
MESSINA. La polizia ha eseguito sei ordinanze di custodia cautelare, una delle quali ai domiciliari, nei confronti dei fratelli Giuseppe e Antonino Cuté e di altre quattro persone, tutti accusati di far parte del clan Mangialupi di Messina che avrebbe collegamenti on la criminalità calabrese e campana. Gli arrestati devono rispondere di associazione mafiosa produzione traffico e spaccio di droga.
In particolare i fratelli Cuté avrebbero organizzato nella loro abitazione in piazza Verga, nel rione Mangialupi, una vera e propria centrale dello spaccio dove grosse partite di sostanze stupefacenti venivano lavorate per il successivo commercio al dettaglio. Figura chiave nella gestione del traffico era la convivente di uno dei Cuté, unica donna tra gli arrestati, che oltre a presenziare alle trattative, partecipava alla fase del confezionamento e monitorava il controllo del territorio. Al padre dei due Cuté, Alessandro, e allo zio Giovanni il Tribunale Misure di Prevenzione nel 2010 aveva disposto la confisca di una lussuosa villa a tre piani dove furono trovati marmi pregiati, vasche idromassaggio, mobili costosi, televisori lcd e divani in pelle, rubinetti del bagno rivestiti in oro, letti a baldacchino e altri arredi ricercati. La villetta era abusiva.
Mafia a Palermo, in appello 11 condanne e tre assoluzioni
Processo a 14 presunti boss e uomini d'onore coinvolti nel blitz dei carabinieri, denominato Perseo, che ricostruì gli organigrammi delle "famiglie" del capoluogo e della provincia e scoprì il progetto di ricostituire la "commissione provinciale"
PALERMO. La corte d'appello di Palermo ha confermato - tranne che per un'assoluzione e una riduzione di pena - la sentenza emessa in primo grado nel processo a 14 presunti boss e uomini d'onore palermitani coinvolti nel blitz dei carabinieri, denominato Perseo, che ricostruì gli organigrammi delle "famiglie" del capoluogo e della provincia e scoprì il progetto di ricostituire la "commissione provinciale" sostenuto da una parte dell'organizzazione.
Ad essere assolto - in primo grado aveva avuto 6 anni - è stato GIUSEPPE D'ANNA. Mentre è stata ridotta da 6 anni e 6 mesi a 4 mesi, per una serie di prescrizioni, la pena inflitta a FRANCESCO SORRENTINO. La pena più alta è andata ad ANTONINO BADAGLIACCA (8 anni e 6 mesi). A 6 anni e 6 mesi è stato condannato PAOLO BELLINO. A 6 anni e 4 mesi GIUSEPPE CAIOLA, DOMENICO CARUSO, SALVATORE e GIROLAMO CATANIA, CASTRENZE NICOLOSI, GIUSEPPE RUSSO e SERGIO DAMIANI.
Sei anni e due mesi la pena stabilita per DANIELE BUFFA. Confermate, nonostante l'appello della Procura, le assoluzioni di GREGORIO AGRIGENTO e SALVATORE MULÉ. A loro carico una serie di intercettazioni ambientali dichiarate inutilizzabili per difetti di forma: da qui l'assoluzione.
Il processo di primo grado era stato celebrato in abbreviato.
PALERMO. La corte d'appello di Palermo ha confermato - tranne che per un'assoluzione e una riduzione di pena - la sentenza emessa in primo grado nel processo a 14 presunti boss e uomini d'onore palermitani coinvolti nel blitz dei carabinieri, denominato Perseo, che ricostruì gli organigrammi delle "famiglie" del capoluogo e della provincia e scoprì il progetto di ricostituire la "commissione provinciale" sostenuto da una parte dell'organizzazione.
Ad essere assolto - in primo grado aveva avuto 6 anni - è stato GIUSEPPE D'ANNA. Mentre è stata ridotta da 6 anni e 6 mesi a 4 mesi, per una serie di prescrizioni, la pena inflitta a FRANCESCO SORRENTINO. La pena più alta è andata ad ANTONINO BADAGLIACCA (8 anni e 6 mesi). A 6 anni e 6 mesi è stato condannato PAOLO BELLINO. A 6 anni e 4 mesi GIUSEPPE CAIOLA, DOMENICO CARUSO, SALVATORE e GIROLAMO CATANIA, CASTRENZE NICOLOSI, GIUSEPPE RUSSO e SERGIO DAMIANI.
Sei anni e due mesi la pena stabilita per DANIELE BUFFA. Confermate, nonostante l'appello della Procura, le assoluzioni di GREGORIO AGRIGENTO e SALVATORE MULÉ. A loro carico una serie di intercettazioni ambientali dichiarate inutilizzabili per difetti di forma: da qui l'assoluzione.
Il processo di primo grado era stato celebrato in abbreviato.
Revocati i domiciliari per Ciancimino jr
La detenzione in casa disposta per avere calunniato l'ex capo della polizia Gianni De Gennaro finora aveva resistito alle impugnazioni dei suoi legali
PALERMO. Massimo Ciancimino, ai domiciliari per calunnia da alcuni mesi, è stato scarcerato dal gip di Palermo Fernando Sestito. Il figlio dell'ex sindaco mafioso di Palermo si era visto già revocare la misura per l'altra accusa che i pm gli contestano: la detenzione di esplosivo.
La detenzione domiciliare disposta per avere calunniato l'ex capo della polizia Gianni De Gennaro, però, finora aveva resistito alle impugnazioni dei suoi legali. Ciancimino jr è ora libero.
Il gip ha imposto a Ciancimino l'obbligo di dimora a Palermo. La Procura aveva espresso parere negativo sull'istanza di revoca dei domiciliari avanzata dagli avvocati Francesca Russo e Roberto D'Agostino. Secondo i legali, dietro la decisione del magistrato ci sarebbe la presa d'atto dell'affievolimento delle esigenze cautelari a carico dell'indagato.
PALERMO. Massimo Ciancimino, ai domiciliari per calunnia da alcuni mesi, è stato scarcerato dal gip di Palermo Fernando Sestito. Il figlio dell'ex sindaco mafioso di Palermo si era visto già revocare la misura per l'altra accusa che i pm gli contestano: la detenzione di esplosivo.
La detenzione domiciliare disposta per avere calunniato l'ex capo della polizia Gianni De Gennaro, però, finora aveva resistito alle impugnazioni dei suoi legali. Ciancimino jr è ora libero.
Il gip ha imposto a Ciancimino l'obbligo di dimora a Palermo. La Procura aveva espresso parere negativo sull'istanza di revoca dei domiciliari avanzata dagli avvocati Francesca Russo e Roberto D'Agostino. Secondo i legali, dietro la decisione del magistrato ci sarebbe la presa d'atto dell'affievolimento delle esigenze cautelari a carico dell'indagato.
Spaccio di droga nel Messinese Blitz con sei arresti
Sgominata una banda attiva nel mondo degli stupefacenti tra la città dello Stretto e Milazzo. Ne facevano parte cinque uomini e una donna
MESSINA. I carabinieri di Messina hanno eseguito un'ordinanza di custodia cautelare a carico di sei persone, cinque uomini e una donna, indagate a vario titolo di concorso in detenzione e spaccio di droga. L'attività investigativa, avviata nell'estate 2009 a seguito del ritrovamento di una modica quantità di stupefacente nel corso di un ordinario controllo alla circolazione stradale, ha consentito ai carabinieri di accertare, in un'area compresa tra Messina ed il comprensorio di Milazzo, l'esistenza di un gruppo attivo nello spaccio di droga.
Le sei persone arrestate sono Antonino Fasolo, 27 anni; Giovanna Crea, 25 anni; Gabriel Ferraù, 36 anni; Giuseppe Costa, 30 anni; Fabrizio Fenghi, 34 anni (già in carcere a Palermo per altri reati) e Giacomo Russo, di 32, che si trova ai domiciliari. Secondo quanto accertato dai carabinieri, i sei facevano parte di un gruppo criminale che spacciava droga a Messina e nella zona tirrenica della provincia. Le indagini erano state avviate nell'agosto 2009, dopo il sequestro di un'esigua quantità di hashish a Fasolo, durante un controllo a Villafranca Tirrena. I militari hanno poi scoperto che Fasolo spacciava e faceva parte di un gruppo criminale che si riforniva di droga nei rioni Mangialupi e Gazzi e la vendeva in città e in altri comuni. Gli spacciatori, nelle conversazioni telefoniche, chiamavano la droga "Caffé".
MESSINA. I carabinieri di Messina hanno eseguito un'ordinanza di custodia cautelare a carico di sei persone, cinque uomini e una donna, indagate a vario titolo di concorso in detenzione e spaccio di droga. L'attività investigativa, avviata nell'estate 2009 a seguito del ritrovamento di una modica quantità di stupefacente nel corso di un ordinario controllo alla circolazione stradale, ha consentito ai carabinieri di accertare, in un'area compresa tra Messina ed il comprensorio di Milazzo, l'esistenza di un gruppo attivo nello spaccio di droga.
Le sei persone arrestate sono Antonino Fasolo, 27 anni; Giovanna Crea, 25 anni; Gabriel Ferraù, 36 anni; Giuseppe Costa, 30 anni; Fabrizio Fenghi, 34 anni (già in carcere a Palermo per altri reati) e Giacomo Russo, di 32, che si trova ai domiciliari. Secondo quanto accertato dai carabinieri, i sei facevano parte di un gruppo criminale che spacciava droga a Messina e nella zona tirrenica della provincia. Le indagini erano state avviate nell'agosto 2009, dopo il sequestro di un'esigua quantità di hashish a Fasolo, durante un controllo a Villafranca Tirrena. I militari hanno poi scoperto che Fasolo spacciava e faceva parte di un gruppo criminale che si riforniva di droga nei rioni Mangialupi e Gazzi e la vendeva in città e in altri comuni. Gli spacciatori, nelle conversazioni telefoniche, chiamavano la droga "Caffé".
lunedì 19 dicembre 2011
Mafia, sequestro di beni da 2 milioni
Nel mirino della Dia l’imprenditore di Campobello di Licata Salvatore Paci, 61 anni, ritenuto vicino al capomafia agrigentino Giuseppe Falsone arrestato a Marsiglia nel 2010 dopo una lunga latitanza
PALERMO. La Direzione Investigativa Antimafia di Agrigento ha sequestrato beni per oltre 2 milioni di euro all'imprenditore di Campobello di Licata (Ag) Salvatore Paci, 61 anni, ritenuto vicino al capomafia agrigentino Giuseppe Falsone, arrestato a Marsiglia nel 2010 dopo una lunga latitanza. Tra i beni sequestrati aziende operanti nel campo dei lavori edili e stradali, diversi immobili e appezzamenti di terreno, una cava di inerti utilizzata come discarica di rifiuti solidi urbani, conti correnti, polizze assicurative e veicoli.
PALERMO. La Direzione Investigativa Antimafia di Agrigento ha sequestrato beni per oltre 2 milioni di euro all'imprenditore di Campobello di Licata (Ag) Salvatore Paci, 61 anni, ritenuto vicino al capomafia agrigentino Giuseppe Falsone, arrestato a Marsiglia nel 2010 dopo una lunga latitanza. Tra i beni sequestrati aziende operanti nel campo dei lavori edili e stradali, diversi immobili e appezzamenti di terreno, una cava di inerti utilizzata come discarica di rifiuti solidi urbani, conti correnti, polizze assicurative e veicoli.
domenica 18 dicembre 2011
Corigliano. Processo "Santa Tecla" inflitte 54 condanne
Condannato a 8 anni Mario Straface, fratello dell’ex sindaco del Pdl Pasqualina Straface. Alla sbarra 75 persone accusate di far parte della cosca di Corigliano
Al processo “Santa Tecla” è stato confermato l'impianto accusatorio con sensibili riduzioni di pena rispetto alle richieste avanzate dal pubblico ministero Vincenzo Luberto in sede di requisitoria. Ieri, a tarda ora, è giunto il verdetto per mano del giudice per l'udienza preliminare Tiziana Macrì, dopo ben 14 ore di camera di consiglio. Presidiata dalle forze dell'ordine l'area circostante l'aula bunker di Catanzaro, in via Paglia. Intorno alle 23 la lettura del dispositivo di sentenza: per l'imprenditore Mario Straface (in foto), 8 anni di reclusione, rispetto ai 14 richiesti dal pubblico ministero Vincenzo Luberto. Sull'uomo pende la duplice accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso e di estorsione. Per tutti gli altri componenti la famiglia Straface vi è stata piena assoluzione. In particolare per Fabio, Lucia, Rossella, Davide, Santino e Santo. Riduzione di pena anche per i detenuti sottoposti al 41 bis : Carmine Ginese (10 anni), Ciro Nigro (10 anni), Antonio Marrazzo (8 anni), Alessandro Marrazzo (10 anni), Pietro Longobucco (16 anni).
Al 41 bis finirono anche Pietro Salvatore Mollo, morto suicida presso il supercarcere dell'Aquila, e Franco Straface deceduto a causa di un ictus cerebrale dopo aver lasciato l'istituto di pena di massima sicurezza e trasferito presso la propria abitazione ai domiciliari. Per l'avvocato Antonio Piccoli, coinvolto prevalentemente nel filone del traffico di sostanze stupefacenti vi è stato un dimezzamento della pena dai 20 anni richiesti dalla pubblica accusa ai 10 sanciti ieri nel dispositivo di sentenza. Assoluzione anche per il giovane Osvaldo Di Iuri tornato solo di recente in libertà, anch'egli coinvolto nel filone del narcotraffico.
Quello che si è concluso ieri è il primo grado del rito abbreviato, il cui istituto consente la riduzione della pena di 1/3 e riduce i tempi del procedimento penale. Per “Santa Tecla” si sono rese utili ben 11 udienze. Ora si rimane in attesa delle motivazioni, poi l'eventuale appello che sarà promosso dal collegio di difesa, presso la corte d'appello di Catanzato. Con la condanna di Mario Straface, fratello dell'ex sindaco Pasqualina Straface, si conferma l'esistenza di un'associazione di tipo mafioso in un vasto giro di affari che confluiva anche nel capitolo dell'appaltistica. Non è da escludere che questa sentenza possa essere assunta in sede di Tribunale amministrativo regionale del Lazio dove è ricorsa l'ex amministrazione comunale a guida Straface (Il Comune di Corigliano è stato sciolto per infiltrazione mafiosa) avverso il provvedimento di scioglimento del consiglio comunale.
Al processo “Santa Tecla” è stato confermato l'impianto accusatorio con sensibili riduzioni di pena rispetto alle richieste avanzate dal pubblico ministero Vincenzo Luberto in sede di requisitoria. Ieri, a tarda ora, è giunto il verdetto per mano del giudice per l'udienza preliminare Tiziana Macrì, dopo ben 14 ore di camera di consiglio. Presidiata dalle forze dell'ordine l'area circostante l'aula bunker di Catanzaro, in via Paglia. Intorno alle 23 la lettura del dispositivo di sentenza: per l'imprenditore Mario Straface (in foto), 8 anni di reclusione, rispetto ai 14 richiesti dal pubblico ministero Vincenzo Luberto. Sull'uomo pende la duplice accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso e di estorsione. Per tutti gli altri componenti la famiglia Straface vi è stata piena assoluzione. In particolare per Fabio, Lucia, Rossella, Davide, Santino e Santo. Riduzione di pena anche per i detenuti sottoposti al 41 bis : Carmine Ginese (10 anni), Ciro Nigro (10 anni), Antonio Marrazzo (8 anni), Alessandro Marrazzo (10 anni), Pietro Longobucco (16 anni).
Al 41 bis finirono anche Pietro Salvatore Mollo, morto suicida presso il supercarcere dell'Aquila, e Franco Straface deceduto a causa di un ictus cerebrale dopo aver lasciato l'istituto di pena di massima sicurezza e trasferito presso la propria abitazione ai domiciliari. Per l'avvocato Antonio Piccoli, coinvolto prevalentemente nel filone del traffico di sostanze stupefacenti vi è stato un dimezzamento della pena dai 20 anni richiesti dalla pubblica accusa ai 10 sanciti ieri nel dispositivo di sentenza. Assoluzione anche per il giovane Osvaldo Di Iuri tornato solo di recente in libertà, anch'egli coinvolto nel filone del narcotraffico.
Quello che si è concluso ieri è il primo grado del rito abbreviato, il cui istituto consente la riduzione della pena di 1/3 e riduce i tempi del procedimento penale. Per “Santa Tecla” si sono rese utili ben 11 udienze. Ora si rimane in attesa delle motivazioni, poi l'eventuale appello che sarà promosso dal collegio di difesa, presso la corte d'appello di Catanzato. Con la condanna di Mario Straface, fratello dell'ex sindaco Pasqualina Straface, si conferma l'esistenza di un'associazione di tipo mafioso in un vasto giro di affari che confluiva anche nel capitolo dell'appaltistica. Non è da escludere che questa sentenza possa essere assunta in sede di Tribunale amministrativo regionale del Lazio dove è ricorsa l'ex amministrazione comunale a guida Straface (Il Comune di Corigliano è stato sciolto per infiltrazione mafiosa) avverso il provvedimento di scioglimento del consiglio comunale.
sabato 17 dicembre 2011
Reggio. Clan e politica, Giglio: "con i Lampada parlavo di politica
"Sono contrastanti le versioni rese dal giudice Vincenzo Giglio e quelle dell’avvocato Vincenzo Minasi e Giulio Lampada
Le versioni rese dal giudice Vincenzo Giglio sono contrastanti rispetto a quelle dell’avvocato Vincenzo Minasi e di Giulio Lampada; il primo ha sostenuto che negli incontri con gli stessi fratelli Lampada si parlava «solo di politicà, gli altri due lo hanno smentito. È quanto emerge dagli interrogatori del 2 e 3 dicembre scorsi davanti a Giuseppe Gennari, il gip di Milano che ha firmato i provvedimenti che due settimane fa hanno portato in carcere il magistrato, il legale, i due imprenditori accusati di essere esponenti del clan Valle-Lampada, il consigliere della Calabria Francesco Morelli e altre persone.
Giglio, che si è visto respingere dal giudice una richiesta di scarcerazione perchè «l'esito degli interrogatori di garanzia hanno determinato un peggioramento del quadro indiziario» e per il suo «atteggiamento di totale e non veritiera chiusura» che dimostra «l'assenza di volontà di revisione critica», ha negato di aver mai parlato con i due boss di inchieste o procedimenti avviati nei loro confronti. “In occasione dell’incontro del 14/17 aprile(2010, ndr)- ha affermato – si è parlato solo di politica come nelle precedenti occasioni. Escludo che Lampada mi abbia chiesto consigli di sorta in relazione a misure di prevenzione».
Ben diverse le dichiarazioni di Minasi, che ha ammesso: «Per quanto riguarda il giudice Giglio, so che Lampada si recava da lui e ritornava da me dicendo che il presidente (della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Reggio Calabria, ndr) aveva riferito che non c'erano problemi. Visto anche il timore di indagini che avevo nei miei confronti, insistevo con Lampada perchè chiedesse qualsiasi tipo di informazione».
E sulla stessa linea Giulio Lampada che, nell’interrogatorio, ha ricordato di essere andato da Giglio per chiedere «come potevo fare per essere ascoltato dalla Procura di Reggio Calabria e che cosa dovevo fare per chiarire la mia posizione». E dopo aver precisato di essere andato «in più di una occasione» da Giglio, il quale però non «ci ha dato informazioni ma consigli», l’imprenditore-boss ha aggiunto: «Noi eravamo solo alla ricerca di sapere se potevamo avere informazioni su indagini per reati fiscali».
LA VERSIONE DI MORELLI
«Dopo le elezioni di marzo 2010 il mio risultato elettorale mi indicava come destinatario di un incarico di governo, ma Scopelliti parlando con alcune persone e con lo stesso Alemanno aveva detto che avevo rapporti con organizzazioni criminali e per questo non poteva confermarmi l’incarico». Lo ha detto Francesco Morelli, il consigliere regionale della Calabria arrestato lo scorso 30 novembre nell’ambito dell’operazione della Dda di Milano contro la 'ndrangheta, al gip di Milano Giuseppe Gennari durante l'interrogatorio di garanzia.
«Io mi attivai immediatamente – ha aggiunto – con tranquillità d’animo perchè erano tutte notizie false. Chiesi anche a Enzo Giglio magistrato di vedere se c'era qualcosa a Reggio, se ci fosse stata una qualsiasi indagine a mio carico perchè sarei andato immediatamente a chiarire subito. Nel fax che la moglie di Giglio mi mandò il giorno 19 aprile, Giglio mi scrisse che al tribunale di Reggio non c'era nulla e mi consigliava di rivolgermi ad un legale per scrivere alle Procure di Reggio, Catanzaro e Milano ed eventualmente anche a Cosenza. La frase di Giglio in cui mi dice che comunque non c'era nulla riguardava il Tribunale e comunque non era tranquillizzante per me perchè il giudice mi invitava a rivolgermi anche alle procura». Nel corso dell’interrogatorio Morelli evidenzia inoltre di aver «chiesto di inviarmi un fax perchè avevo bisogno di un pezzo di carta da sbandierare ad Alemanno. Per questo l’invito a rivolgermi ad altre Procure non era tranquillizzante».
GIGLIO SOSPESO DALLE SUE FUNZIONI
La Sezione Disciplinare del Csm, nella seduta odierna, su richiesta del ministro della Giustizia e del procuratore generale presso la Corte di Cassazione, ha sospeso dalle funzioni e dallo stipendio il dott. Vincenzo Giglio, presidente della Sezione per le Misure di prevenzione del Tribunale di Reggio Calabria. Ha altresì sospeso, si legge in una nota del Csm, dalle funzioni e dallo stipendio, su richiesta del procuratore generale presso la Corte di Cassazione, il dott. Giancarlo Giusti, giudice presso il Tribunale di Reggio Calabria.
Le versioni rese dal giudice Vincenzo Giglio sono contrastanti rispetto a quelle dell’avvocato Vincenzo Minasi e di Giulio Lampada; il primo ha sostenuto che negli incontri con gli stessi fratelli Lampada si parlava «solo di politicà, gli altri due lo hanno smentito. È quanto emerge dagli interrogatori del 2 e 3 dicembre scorsi davanti a Giuseppe Gennari, il gip di Milano che ha firmato i provvedimenti che due settimane fa hanno portato in carcere il magistrato, il legale, i due imprenditori accusati di essere esponenti del clan Valle-Lampada, il consigliere della Calabria Francesco Morelli e altre persone.
Giglio, che si è visto respingere dal giudice una richiesta di scarcerazione perchè «l'esito degli interrogatori di garanzia hanno determinato un peggioramento del quadro indiziario» e per il suo «atteggiamento di totale e non veritiera chiusura» che dimostra «l'assenza di volontà di revisione critica», ha negato di aver mai parlato con i due boss di inchieste o procedimenti avviati nei loro confronti. “In occasione dell’incontro del 14/17 aprile(2010, ndr)- ha affermato – si è parlato solo di politica come nelle precedenti occasioni. Escludo che Lampada mi abbia chiesto consigli di sorta in relazione a misure di prevenzione».
Ben diverse le dichiarazioni di Minasi, che ha ammesso: «Per quanto riguarda il giudice Giglio, so che Lampada si recava da lui e ritornava da me dicendo che il presidente (della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Reggio Calabria, ndr) aveva riferito che non c'erano problemi. Visto anche il timore di indagini che avevo nei miei confronti, insistevo con Lampada perchè chiedesse qualsiasi tipo di informazione».
E sulla stessa linea Giulio Lampada che, nell’interrogatorio, ha ricordato di essere andato da Giglio per chiedere «come potevo fare per essere ascoltato dalla Procura di Reggio Calabria e che cosa dovevo fare per chiarire la mia posizione». E dopo aver precisato di essere andato «in più di una occasione» da Giglio, il quale però non «ci ha dato informazioni ma consigli», l’imprenditore-boss ha aggiunto: «Noi eravamo solo alla ricerca di sapere se potevamo avere informazioni su indagini per reati fiscali».
LA VERSIONE DI MORELLI
«Dopo le elezioni di marzo 2010 il mio risultato elettorale mi indicava come destinatario di un incarico di governo, ma Scopelliti parlando con alcune persone e con lo stesso Alemanno aveva detto che avevo rapporti con organizzazioni criminali e per questo non poteva confermarmi l’incarico». Lo ha detto Francesco Morelli, il consigliere regionale della Calabria arrestato lo scorso 30 novembre nell’ambito dell’operazione della Dda di Milano contro la 'ndrangheta, al gip di Milano Giuseppe Gennari durante l'interrogatorio di garanzia.
«Io mi attivai immediatamente – ha aggiunto – con tranquillità d’animo perchè erano tutte notizie false. Chiesi anche a Enzo Giglio magistrato di vedere se c'era qualcosa a Reggio, se ci fosse stata una qualsiasi indagine a mio carico perchè sarei andato immediatamente a chiarire subito. Nel fax che la moglie di Giglio mi mandò il giorno 19 aprile, Giglio mi scrisse che al tribunale di Reggio non c'era nulla e mi consigliava di rivolgermi ad un legale per scrivere alle Procure di Reggio, Catanzaro e Milano ed eventualmente anche a Cosenza. La frase di Giglio in cui mi dice che comunque non c'era nulla riguardava il Tribunale e comunque non era tranquillizzante per me perchè il giudice mi invitava a rivolgermi anche alle procura». Nel corso dell’interrogatorio Morelli evidenzia inoltre di aver «chiesto di inviarmi un fax perchè avevo bisogno di un pezzo di carta da sbandierare ad Alemanno. Per questo l’invito a rivolgermi ad altre Procure non era tranquillizzante».
GIGLIO SOSPESO DALLE SUE FUNZIONI
La Sezione Disciplinare del Csm, nella seduta odierna, su richiesta del ministro della Giustizia e del procuratore generale presso la Corte di Cassazione, ha sospeso dalle funzioni e dallo stipendio il dott. Vincenzo Giglio, presidente della Sezione per le Misure di prevenzione del Tribunale di Reggio Calabria. Ha altresì sospeso, si legge in una nota del Csm, dalle funzioni e dallo stipendio, su richiesta del procuratore generale presso la Corte di Cassazione, il dott. Giancarlo Giusti, giudice presso il Tribunale di Reggio Calabria.
Reggio, operazione "Semiramide" storie di donne sfruttate e violentate
Storie di violenza di giovani donne provenienti dall'Est Europa, sfruttate e trattate come merce
Ignare o consenzienti o complici, le giovani donne sfruttate provenivano da realtà familiari degradate e da situazioni di indigenza estrema. Le giovani ragazze di età compresa tra i 18 e i 20 anni, e provenienti dall'Est Europa, hanno ognuna una storia terribile da raccontare e per i loro aguzzini, spesso supportati da altre donne loro complici, erano merce preziosa. Nelle conversazioni intercettate, si utilizzavano sostantivi evocativi della loro condizione: «valigie», «bagagli», «merce».
Molte ragazze venivano adescate con l'illusione di una relazione sentimentale con i loro protettori, che riuscivano facilmente a irretire le ragazze prospettando loro una vita migliore in Italia. Ma in molti casi l’attività di prostituzione era prospettata già al momento dell’ingaggio in Romania.
Questa «libera determinazione» delle giovanissime donne - hanno sottolineato gli inquirenti – era comunque sempre determinata dalle umili condizioni su cui fanno leva i reclutatori e da situazioni di degrado e sopraffazione cui già nei loro paesi erano sottoposte e che le spingevano a vedere nel viaggio in Italia una facile via di fuga. È il caso di Elena, una minorenne che avrebbe preso accordi espliciti per prostituirsi in Italia. La ragazza, come emerge dalle intercettazioni, e dopo essersi fatta illustrare le condizioni dell’ingaggio, spiega i reali motivi che la spingono a compiere la scelta, ovvero fuggire da una realtà familiare drammatica.
VIOLENZE AD UNA GIOVANE DONNA COSTRETTA
A PROSTITUIRSI NONOSTANTE FOSSE INCINTA
In un altro caso emergono le violenze perpetrate su una giovane donna per costringerla a prostituirsi nonostante il suo stato di gravidanza. In altri casi il pagamento del viaggio per raggiungere l’Italia inizialmente anticipato dai protettori diviene una forma di ricatto poichè le ragazze sono costrette a prostituirsi per ripagare il debito che viene loro costantemente rinfacciato.
Ma emerge anche il ruolo di ragazze che volontariamente si prostituiscono avendo stabilito un patto di spartizione dei proventi con gli sfruttatori: sino ai 500 euro a notte, dei quali le più fortunate arrivano a poter trattenere una percentuale del 50%. Spesso l’esercizio «consapevole» della prostituzione permetteva loro di acquisire un ruolo attivo nel controllo delle altre ragazze divenendo un partecipe dell’associazione.
Nell’ordinanza sono citati i casi di Elena Babusca e Valentina Enache destinatarie di un provvedimento di divieto di dimora, e di un transessuale, indagato nell’ambito di questo procedimento, il quale, legato al gruppo dei Radu, li avrebbe coadiuvati controllando le prostitute. Il gruppo evitava di far prostituire ragazze minorenni per evitare eventuali più gravi responsabilità. Uno degli episodi documentato dalle attività investigative vede protagonista una minorenne in procinto di raggiungere l’Italia, ingaggiata a pochi giorni dal raggiungimento della maggiore età, condotta a Reggio Calabria. Il clan aveva suggellato il raggiungimento dello status di maggiorenne con l’avvio alla prostituzione in strada nel giorno successivo al suo compleanno.
Ignare o consenzienti o complici, le giovani donne sfruttate provenivano da realtà familiari degradate e da situazioni di indigenza estrema. Le giovani ragazze di età compresa tra i 18 e i 20 anni, e provenienti dall'Est Europa, hanno ognuna una storia terribile da raccontare e per i loro aguzzini, spesso supportati da altre donne loro complici, erano merce preziosa. Nelle conversazioni intercettate, si utilizzavano sostantivi evocativi della loro condizione: «valigie», «bagagli», «merce».
Molte ragazze venivano adescate con l'illusione di una relazione sentimentale con i loro protettori, che riuscivano facilmente a irretire le ragazze prospettando loro una vita migliore in Italia. Ma in molti casi l’attività di prostituzione era prospettata già al momento dell’ingaggio in Romania.
Questa «libera determinazione» delle giovanissime donne - hanno sottolineato gli inquirenti – era comunque sempre determinata dalle umili condizioni su cui fanno leva i reclutatori e da situazioni di degrado e sopraffazione cui già nei loro paesi erano sottoposte e che le spingevano a vedere nel viaggio in Italia una facile via di fuga. È il caso di Elena, una minorenne che avrebbe preso accordi espliciti per prostituirsi in Italia. La ragazza, come emerge dalle intercettazioni, e dopo essersi fatta illustrare le condizioni dell’ingaggio, spiega i reali motivi che la spingono a compiere la scelta, ovvero fuggire da una realtà familiare drammatica.
VIOLENZE AD UNA GIOVANE DONNA COSTRETTA
A PROSTITUIRSI NONOSTANTE FOSSE INCINTA
In un altro caso emergono le violenze perpetrate su una giovane donna per costringerla a prostituirsi nonostante il suo stato di gravidanza. In altri casi il pagamento del viaggio per raggiungere l’Italia inizialmente anticipato dai protettori diviene una forma di ricatto poichè le ragazze sono costrette a prostituirsi per ripagare il debito che viene loro costantemente rinfacciato.
Ma emerge anche il ruolo di ragazze che volontariamente si prostituiscono avendo stabilito un patto di spartizione dei proventi con gli sfruttatori: sino ai 500 euro a notte, dei quali le più fortunate arrivano a poter trattenere una percentuale del 50%. Spesso l’esercizio «consapevole» della prostituzione permetteva loro di acquisire un ruolo attivo nel controllo delle altre ragazze divenendo un partecipe dell’associazione.
Nell’ordinanza sono citati i casi di Elena Babusca e Valentina Enache destinatarie di un provvedimento di divieto di dimora, e di un transessuale, indagato nell’ambito di questo procedimento, il quale, legato al gruppo dei Radu, li avrebbe coadiuvati controllando le prostitute. Il gruppo evitava di far prostituire ragazze minorenni per evitare eventuali più gravi responsabilità. Uno degli episodi documentato dalle attività investigative vede protagonista una minorenne in procinto di raggiungere l’Italia, ingaggiata a pochi giorni dal raggiungimento della maggiore età, condotta a Reggio Calabria. Il clan aveva suggellato il raggiungimento dello status di maggiorenne con l’avvio alla prostituzione in strada nel giorno successivo al suo compleanno.
Omicidio Grimaldi: pentito accusa Apice, killer di Bacioterracino
NAPOLI - Una nuova ordinanza di custodia cautelare è stata notificata in carcere dai carabinieri a Costanzo Apice, 30 anni, che sta scontando un ergastolo per l' omicidio di Mariano Bacioterracino , avvenuto l'11 maggio 2009 al Rione Sanità. Apice, affiliato al gruppo camorristico dei Sacco-Bocchetti, è accusato dell'omicidio di Carmine Grimaldi, capozona del clan Licciardi nel quartiere di San Pietro a Patierno, che fu ucciso in un agguato il 18 luglio 2007 da sicari giunti a bordo di un motociclo.
L'eliminazione di Grimaldi sarebbe stata decisa dai Sacco-Bocchetti, per mettere fine a contrasti interni al clan e sancire la separazione dagli alleati del clan Licciardi. Ad accusare Apice è stato uno spacciatore di droga di basso profilo, legato ai Grimaldi, che è divenuto collaboratore di giustizia. Costanzo Apice fu identificato dopo che la Procura di Napoli decise di diffondere tramite i mass-media le immagini riprese da una telecamera del sistema di videosorveglianza di un bar del Rione Sanità, che ripresero le fasi dell' omicidio di Bacioterracino.
Nella svolta sull'omicidio di Carmine Grimaldi sono state decisive le rivelazioni di Pasquale Serrazzi Castellano, che assistette all' agguato e ora, diventato collaboratore di giustizia, ha deciso di parlarne con gli inquirenti. Le sue dichiarazioni sono contenute nell' ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip Paola Russo su richiesta del pm Enrica Parascandolo e del procuratore aggiunto Alessandro Pennasilico.
Serrazzi Castellano era amico e complice della vittima nello spaccio di droga. «Ho un dolore dentro di me che non si toglie, la morte di Carmine Grimaldi a cui ho assistito personalmente - ha dichiarato a verbale il pentito - e voglio liberarmi di questo peso. Ho la foto stampata nella mente, è una scena che non potrò mai dimenticare. Ho visto chi ha sparato a Carmine Grimaldi, mi trovavo dietro di lui: è stato Costanzo Apice, ho visto lui sparare a Carmine».
Così Serrazzi Castellano ricostruisce l'omicidio: «Carmine era seduto sulla panchina ed io ero in piedi dietro di lui. All'improvviso, erano circa le 16-16.30, sopraggiunse ad andatura normale un motorino di colore nero con due giovani a bordo, proveniente dal vicolo che scende dalle palazzine o da via Caserta al Bravo. Il motorino si fermò davanti alla panchina ed io riconobbi subito il passeggero in Apice Costanzo. Il conducente invece era un ragazzo snello che non ho riconosciuto. Entrambi avevano un casco a scodella. Apice era vestito tutto di nero. Costanzo Apice disse solo «Carminiè», poi scese dal motorino e cominciò a sparare a Carmine Grimaldi. Carmine ha avuto il tempo di dire «oh!, oh!», sono le ultime parole che ho sentito, ha cercato di alzarsi ma poi Costanzo Apice si è avvicinato ancora di più a lui ed ha esploso altri colpi. Non so dire quanti, ma numerosi colpi».
Nunziante Scibelli vittima innocente risolto dopo 20 anni il suo omicidio
NAPOLI - A distanza di 20 anni, sono state emesse due ordinanze di custodia cautelare per l'omicidio di Nunziante Scibelli, avvenuto nel 1991 in provincia di Avellino . L'uomo fu una vittima innocente della sanguinosa faida tra i clan Cava e Graziano: per la sua morte i carabinieri hanno eseguito due misure cautelati a carico di esponenti «storici» di uno dei due clan, Felice Graziano - oggi collaboratore di giustizia, da tempo ai domiciliari - e Antonio Graziano, già detenuto in carcere.
Scibelli fu ucciso per un tragico errore dei killer del clan Graziano, appostati per eliminare il rivale Antonio Cava e suo cugino Aniello Grasso. Lungo la strada, in condizioni di scarsa visibilità, si trovarono a transitare due vetture simili (entrambe Alfa Romeo di colore blu scuro targate Milano): i sicari esplosero oltre 100 colpi di arma da fuoco, ferendo a morte l'innocente Scibelli e in modo più lieve Antonio Cava. Le dichiarazioni di alcuni pentiti, e nuovi accertamenti tecnici hanno permesso di convalidare i sospetti ed emettere le misure restrittive.
venerdì 16 dicembre 2011
Voto di scambio, due anni e mezzo ad Antinoro
Il tribunale non ha ritenuto che ci sia stato un accordo elettorale con esponenti di Cosa nostra, contestando all'eurodeputato del Pid il voto di scambio semplice e non mafioso
PALERMO. La terza sezione del Tribunale di Palermo, presieduta da Fabrizio La Cascia, ha condannato a due anni e sei mesi l'eurodeputato del Pid Antonello Antinoro per voto di scambio. Il Tribunale non ha ritenuto che ci sia stato un accordo elettorale con esponenti di Cosa nostra, contestando ad Antinoro il voto di scambio semplice e non mafioso. L'imputato, assistito dall'avvocato Massimo Motisi, si è sempre difeso sostenendo di avere pagato solo per servizi di attacchinaggio durante la campagna elettorale. Il pm Gaetano Paci aveva chiesto la condanna a otto anni. Alla Regione è stato riconosciuto un risarcimento di 30mila euro.
PALERMO. La terza sezione del Tribunale di Palermo, presieduta da Fabrizio La Cascia, ha condannato a due anni e sei mesi l'eurodeputato del Pid Antonello Antinoro per voto di scambio. Il Tribunale non ha ritenuto che ci sia stato un accordo elettorale con esponenti di Cosa nostra, contestando ad Antinoro il voto di scambio semplice e non mafioso. L'imputato, assistito dall'avvocato Massimo Motisi, si è sempre difeso sostenendo di avere pagato solo per servizi di attacchinaggio durante la campagna elettorale. Il pm Gaetano Paci aveva chiesto la condanna a otto anni. Alla Regione è stato riconosciuto un risarcimento di 30mila euro.
Pregiudicato ucciso a Casteldaccia
La vittima è Salvatore Calabrese, 45 anni, il cadavere è stato trovato in contrada Valle Corvo con un proiettile nella nuca
PALERMO. Un uomo di 45 anni, Salvatore Calabrese, è stato ucciso con un colpo di pistola nelle campagne di Casteldaccia, alle porte di Palermo. Il cadavere è stato trovato in contrada Valle Corvo con un proiettile nella nuca. La vittima, il cui figlio era stato arrestato nel 2008 nell'operazione "Pater familias", aveva precedenti per rapina e droga. Indagano i carabinieri di Bagheria, che escludono la pista mafiosa.
"Caravà, il sindaco antimafia espressione dei boss"
Alla guida di una giunta di centrosinistra, vicino al Pd, Caravà, 52 anni, ragioniere, è stato consigliere comunale dal 2001 al 2006, anno in cui fu eletto sindaco in quota Democrazia europea, promossa da Sergio D'Antoni
CAMPOBELLO DI MAZARA. Cirò Caravà, il sindaco di Campobello di Mazara arrestato oggi dai carabinieri con l'accusa di associazione mafiosa, indicato dagli inquirenti come "l'espressione politica" delle cosche locali, è un amministratore di lungo corso che è sempre stato in prima fila nelle iniziative antimafia.
Come l'inaugurazione di un centro dell'Avis, avvenuta un anno fa su un fondo confiscato al boss locale Nunzio Spezia, morto nel 2009. Alla guida di una giunta di centrosinistra, vicino al Pd, Caravà, 52 anni, ragioniere, è stato consigliere comunale dal 2001 al 2006, anno in cui fu eletto sindaco in quota Democrazia europea, la formazione politica promossa dall'ex leader della Cisl Sergio D'Antoni.
Al ballottaggio si impose sul sindaco uscente Daniele Mangiaracina, candidato del centrodestra. Una sfida che si è riproposta anche alle ultime amministrative del giugno scorso, quando bissò il successo con 3.817 voti, il 54,56%. A sostenerlo un cartello formato da Pd, Mpa e Democrazia e libertà, con l'appoggio esterno di Api e la lista Fratelli d'Italia. Nel 2008, mentre Caravà era in carica, il Comune di Campobello di Mazara fu oggetto di una ispezione disposta dal ministero dell'Interno per verificare eventuali infiltrazioni mafiose, che non ebbe alcun seguito.
"Le nomine di Caravà prese dalla "famiglia"
Il sindaco di Campobello di Mazara, arrestato oggi per mafia, aveva fatto alcune nomine durante il suo mandato prendendo le persone all'interno della cosca locale, dicono i pm
CAMPOBELLO DI MAZARA. Il sindaco di Campobello di Mazara, Ciro Caravà, arrestato per mafia aveva fatto alcune nomine durante il suo mandato prendendo le persone all'interno della famiglia mafiosa locale, dicono i pm. Donatella Vivona, consulente del gabinetto del sindaco è moglie di Gaspare Lipari, anche lui arrestato oggi; Giuseppe Panicola, eletto consigliere comunale è genero di Paolo Tripoli, arrestato nel '98 per mafia; Rosa Stallone, assessore alla solidarieta' sociale, è cognata di Filippo Sammartano arrestato per mafia; Franco Indelicato, "u sacrestanu", consulente del sindaco, anche lui arrestato per mafia e accusato di gestire un traffico di droga.
CAMPOBELLO DI MAZARA. Cirò Caravà, il sindaco di Campobello di Mazara arrestato oggi dai carabinieri con l'accusa di associazione mafiosa, indicato dagli inquirenti come "l'espressione politica" delle cosche locali, è un amministratore di lungo corso che è sempre stato in prima fila nelle iniziative antimafia.
Come l'inaugurazione di un centro dell'Avis, avvenuta un anno fa su un fondo confiscato al boss locale Nunzio Spezia, morto nel 2009. Alla guida di una giunta di centrosinistra, vicino al Pd, Caravà, 52 anni, ragioniere, è stato consigliere comunale dal 2001 al 2006, anno in cui fu eletto sindaco in quota Democrazia europea, la formazione politica promossa dall'ex leader della Cisl Sergio D'Antoni.
Al ballottaggio si impose sul sindaco uscente Daniele Mangiaracina, candidato del centrodestra. Una sfida che si è riproposta anche alle ultime amministrative del giugno scorso, quando bissò il successo con 3.817 voti, il 54,56%. A sostenerlo un cartello formato da Pd, Mpa e Democrazia e libertà, con l'appoggio esterno di Api e la lista Fratelli d'Italia. Nel 2008, mentre Caravà era in carica, il Comune di Campobello di Mazara fu oggetto di una ispezione disposta dal ministero dell'Interno per verificare eventuali infiltrazioni mafiose, che non ebbe alcun seguito.
"Le nomine di Caravà prese dalla "famiglia"
Il sindaco di Campobello di Mazara, arrestato oggi per mafia, aveva fatto alcune nomine durante il suo mandato prendendo le persone all'interno della cosca locale, dicono i pm
CAMPOBELLO DI MAZARA. Il sindaco di Campobello di Mazara, Ciro Caravà, arrestato per mafia aveva fatto alcune nomine durante il suo mandato prendendo le persone all'interno della famiglia mafiosa locale, dicono i pm. Donatella Vivona, consulente del gabinetto del sindaco è moglie di Gaspare Lipari, anche lui arrestato oggi; Giuseppe Panicola, eletto consigliere comunale è genero di Paolo Tripoli, arrestato nel '98 per mafia; Rosa Stallone, assessore alla solidarieta' sociale, è cognata di Filippo Sammartano arrestato per mafia; Franco Indelicato, "u sacrestanu", consulente del sindaco, anche lui arrestato per mafia e accusato di gestire un traffico di droga.
Mazara del Vallo, assicuratore ucciso a botte
Attilio Sicurella, di 63 anni, è stato picchiato a sangue nell'androne dell'ufficio della vittima, in via Maccagnone, nella zona della stazione ferroviaria
MAZARA DEL VALLO. Un agente assicurativo, Attilio Sicurella, di 63 anni, è stato ucciso ieri sera a Mazara del Vallo, picchiato a sangue. Il delitto è avvenuto nell'androne dell'ufficio della vittima, in via Maccagnone, nella zona della stazione ferroviaria. Ad effettuare la macabra scoperta è stato un figlio dell'assicuratore che, preoccupato del suo mancato rientro a casa per l'ora di cena, è andato a cercarlo.
L'uomo era riverso per terra, aveva il volto completamente tumefatto ed era già privo di vita. Secondo quanto accertato dal medico legale, intervenuto sul posto, la morte risalirebbe a un orario compreso tra le 18 e le 19 di ieri sera. Sicurella era incensurato e faceva il sub agente per diverse agenzie assicurative. Le indagini vengono condotte dalla Polizia che per risalire agli assassini sta cercando di fare luce sia sulla vita privata che su quella lavorativa del professionista.
MAZARA DEL VALLO. Un agente assicurativo, Attilio Sicurella, di 63 anni, è stato ucciso ieri sera a Mazara del Vallo, picchiato a sangue. Il delitto è avvenuto nell'androne dell'ufficio della vittima, in via Maccagnone, nella zona della stazione ferroviaria. Ad effettuare la macabra scoperta è stato un figlio dell'assicuratore che, preoccupato del suo mancato rientro a casa per l'ora di cena, è andato a cercarlo.
L'uomo era riverso per terra, aveva il volto completamente tumefatto ed era già privo di vita. Secondo quanto accertato dal medico legale, intervenuto sul posto, la morte risalirebbe a un orario compreso tra le 18 e le 19 di ieri sera. Sicurella era incensurato e faceva il sub agente per diverse agenzie assicurative. Le indagini vengono condotte dalla Polizia che per risalire agli assassini sta cercando di fare luce sia sulla vita privata che su quella lavorativa del professionista.
Blitz nel Trapanese, si stringe il cerchio intorno a Messina Denaro
Decapitata la famiglia di Campobello di Mazara, in manette anche il sindaco Ciro Caravà, in carica dal 2006, è indagato per associazione di tipo mafioso
TRAPANI. I carabinieri del Ros stringono il cerchio attorno al superlatitante di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro: dall'alba è in corso un'operazione che ha decapitato la famiglia mafiosa di Campobello di Mazara (Trapani), ritenuta una delle ultime roccaforti del ricercato numero uno. In manette 11 persone, tra cui lo stesso sindaco di Campobello.
Al centro delle indagini, avviate nel 2006 sotto la direzione della procura distrettuale antimafia di Palermo, c'è quello che è considerato uno dei sodalizi più vicini a Messina Denaro, capo indiscusso della mafia trapanese e 'punto di riferimento' per l'intera struttura di Cosa Nostra.
Secondo gli investigatori, la famiglia mafiosa di Campobello di Mazara, storicamente tra le più attive del mandamento di Castelvetrano, avrebbe mantenuto uno stretto collegamento con il 'boss dei boss' e, "attraverso un pervasivo controllo del territorio", sarebbe riuscita ad "infiltrare progressivamente le attività imprenditoriali ed economiche dell'area".
Le 11 persone destinatarie dell'ordinanza di custodia cautelare del gip di Palermo, tutte ritenute affiliate alla 'famiglia', sono accusate a vario titolo di associazione mafiosa e intestazione fittizia di beni. Anche il sindaco di Campobello di Mazara, Ciro Caravà, in carica dal 2006, è indagato per associazione di tipo mafioso.
Caccia a Messina Denaro, nomi e ruoli degli arrestati
TRAPANI. L'indagine sulla famiglia mafiosa di Campobello di Mazara, sfociata nell'arresto di 11 persone tra cui il sindaco CIRO CARAVÀ, è stata avviata nel 2006 per fare "terra bruciata" attorno al superlatitante Matteo Messina Denaro.
L'inchiesta, coordinata dal procuratore aggiunto della Dda Maria Teresa Principato e dai sostituti procuratori Marzia Sabella e Pierangelo Padova, si è concentrata oltre che sull'attività di importanti uomini d'onore anche su alcuni "insospettabili" accusati, a vario titolo, di associazione di tipo mafioso, concorso esterno in associazione mafiosa ed intestazione fittizia di beni.
Le indagini dei carabinieri hanno permesso di far luce sugli assetti e le dinamiche criminali della famiglia mafiosa di Campobello di Mazara, storicamente una delle più attive del mandamento di Castelvetrano retto da Matteo Messina Denaro. In particolare è stata accertata la rivalità tra due opposti schieramenti riconducibili rispettivamente all'anziano boss Leonardo Bonafede e a Francesco Luppino, arrestato di recente nell'ambito dell'operazione "Golem", ritenuto uno dei fiancheggiatori del latitante trapanese. Gli investigatori hanno accertato la gestione occulta, da parte di cosa nostra, di società ed imprese in grado di monopolizzare il mercato olivicolo ed altri settori dell'economia.
Il Sindaco di Campobello di Mazara, Ciro Caravà, in carica dal giugno del 2006 e rieletto nelle ultime amministrative nel maggio 2011, era considerato "l'espressione politica della locale consorteria mafiosa".
Nel corso dell'operazione, oltre al capo della famiglia LEONARDO BONAFEDE, inteso "u zu Nardino", è stato arrestato FILIPPO GRECO, noto imprenditore di Campobello, da tempo trasferitosi a Gallarate (VA), ritenuto uno dei principali finanziatori nonché il "consigliere economico" dell'organizzazione mafiosa.
Misure cautelari sono state inoltre eseguite nei confronti di CATALDO LA ROSA e SIMONE MANGIARACINA, considerati il "braccio operativo" del capo della famiglia mafiosa.
Destinatari dei provvedimenti cautelari sono inoltre: CALOGERO RANDAZZO, già condannato per associazione mafiosa; GASPARE LIPARI, che avrebbe svolto la funzione di "collegamento" tra il sindaco ed il capomafia; VITO SISGNORELLO, anche egli condannato per mafia.
TRAPANI. I carabinieri del Ros stringono il cerchio attorno al superlatitante di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro: dall'alba è in corso un'operazione che ha decapitato la famiglia mafiosa di Campobello di Mazara (Trapani), ritenuta una delle ultime roccaforti del ricercato numero uno. In manette 11 persone, tra cui lo stesso sindaco di Campobello.
Al centro delle indagini, avviate nel 2006 sotto la direzione della procura distrettuale antimafia di Palermo, c'è quello che è considerato uno dei sodalizi più vicini a Messina Denaro, capo indiscusso della mafia trapanese e 'punto di riferimento' per l'intera struttura di Cosa Nostra.
Secondo gli investigatori, la famiglia mafiosa di Campobello di Mazara, storicamente tra le più attive del mandamento di Castelvetrano, avrebbe mantenuto uno stretto collegamento con il 'boss dei boss' e, "attraverso un pervasivo controllo del territorio", sarebbe riuscita ad "infiltrare progressivamente le attività imprenditoriali ed economiche dell'area".
Le 11 persone destinatarie dell'ordinanza di custodia cautelare del gip di Palermo, tutte ritenute affiliate alla 'famiglia', sono accusate a vario titolo di associazione mafiosa e intestazione fittizia di beni. Anche il sindaco di Campobello di Mazara, Ciro Caravà, in carica dal 2006, è indagato per associazione di tipo mafioso.
Caccia a Messina Denaro, nomi e ruoli degli arrestati
TRAPANI. L'indagine sulla famiglia mafiosa di Campobello di Mazara, sfociata nell'arresto di 11 persone tra cui il sindaco CIRO CARAVÀ, è stata avviata nel 2006 per fare "terra bruciata" attorno al superlatitante Matteo Messina Denaro.
L'inchiesta, coordinata dal procuratore aggiunto della Dda Maria Teresa Principato e dai sostituti procuratori Marzia Sabella e Pierangelo Padova, si è concentrata oltre che sull'attività di importanti uomini d'onore anche su alcuni "insospettabili" accusati, a vario titolo, di associazione di tipo mafioso, concorso esterno in associazione mafiosa ed intestazione fittizia di beni.
Le indagini dei carabinieri hanno permesso di far luce sugli assetti e le dinamiche criminali della famiglia mafiosa di Campobello di Mazara, storicamente una delle più attive del mandamento di Castelvetrano retto da Matteo Messina Denaro. In particolare è stata accertata la rivalità tra due opposti schieramenti riconducibili rispettivamente all'anziano boss Leonardo Bonafede e a Francesco Luppino, arrestato di recente nell'ambito dell'operazione "Golem", ritenuto uno dei fiancheggiatori del latitante trapanese. Gli investigatori hanno accertato la gestione occulta, da parte di cosa nostra, di società ed imprese in grado di monopolizzare il mercato olivicolo ed altri settori dell'economia.
Il Sindaco di Campobello di Mazara, Ciro Caravà, in carica dal giugno del 2006 e rieletto nelle ultime amministrative nel maggio 2011, era considerato "l'espressione politica della locale consorteria mafiosa".
Nel corso dell'operazione, oltre al capo della famiglia LEONARDO BONAFEDE, inteso "u zu Nardino", è stato arrestato FILIPPO GRECO, noto imprenditore di Campobello, da tempo trasferitosi a Gallarate (VA), ritenuto uno dei principali finanziatori nonché il "consigliere economico" dell'organizzazione mafiosa.
Misure cautelari sono state inoltre eseguite nei confronti di CATALDO LA ROSA e SIMONE MANGIARACINA, considerati il "braccio operativo" del capo della famiglia mafiosa.
Destinatari dei provvedimenti cautelari sono inoltre: CALOGERO RANDAZZO, già condannato per associazione mafiosa; GASPARE LIPARI, che avrebbe svolto la funzione di "collegamento" tra il sindaco ed il capomafia; VITO SISGNORELLO, anche egli condannato per mafia.
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