Questo blog di notorietà internazionale, per protesta contro uno “Stato Latitante” non verrà aggiornato.
giovedì 26 aprile 2012
Napoletano ricercato da 30 anni per morte di un poliziotto, arrestato a Londra
NAPOLI - Il latitante Gianfranco Techegnè, ricercato da circa 30 anni, è stato arrestato a Londra, nella tarda serata di martedì scorso.
A darne notizia oggi è la Direzione distrettuale antimafia di Napoli spiegando che la cattura è stata possibile grazie alle attività investigative svolte dalla squadra mobile di Napoli, in collaborazione con l'Interpol, la Serious Organized Crime Agency e Scotland Yard, coordinate dalla Direzione distrettuale antimafia presso la procura della Repubblica di Napoli.
Techegnè è della famiglia camorristica dei Licciardi di Secondigliano, e cognato di Maria Licciardi. Il latitante era ricercato dal 1982, quando partecipò con altri due soggetti a una rapina nella quale fu ferito gravemente un poliziotto, Vincenzo Truocchio, deceduto pochi giorni dopo in ospedale a causa delle ferite d'arma da fuoco riportate.
Per questi reati Techegnè deve scontare la pena definitiva di 15 anni e 4 mesi di reclusione. Uno dei grossi problemi era ricostruire l'aspetto de latitante del quale restava solo un vecchio scatto.
Apre la Bottega della Legalità intitolata al piccolo "Dodò"
E' stata inaugurata la Bottega della legalità intitolata a Domenico Gabriele il piccolo rimasto ucciso a seguito di una sparatoria nei pressi di un campo di calcetto nel Crotonese. Nella bottega sono esposti e messi in vendita i prodotti ricavati dai terreni confiscati alla mafia
Si suggella dunque l’accordo di cooperazione fortemente voluto dal Presidente del Consiglio regionale, Francesco Talarico e dal presidente della Commissione contro la 'ndrangheta, Salvatore Magarò con l’associazione «Libera» che è stato consacrato all’unanimità dall’Assemblea in un apposito ordine del giorno approvato nella seduta del 22 febbraio 2011. Ubicata al piano terra di Palazzo Campanella, la Bottega della Legalità, la prima in Calabria, è l’emblema di una bella esperienza imprenditoriale di soci reggini e del Trentino Alto Adige che la massima Istituzione della regione ha inteso sostenere. Nella Bottega sono esposti e posti in vendita i prodotti antimafia, ricavati cioè dai terreni confiscati alla 'ndrangheta e dati in gestione a cooperative sociali che, anche in Calabria, esprimono modelli di sviluppo economico fondati sulla legalità, dando opportunità di lavoro a tanti giovani. Prima del taglio del nastro che ha sancito l’apertura al pubblico della Bottega, nella sala «Nicholas Green», sono state rievocate le tappe di questo percorso ed i significati sottesi all’iniziativa che oggi ha trovato ufficialità. Al convegno sono intervenuti il Presidente del Consiglio regionale, Francesco Talarico, il presidente della Commissione contro la 'ndrangheta, Salvatore Magarò, numerosi consiglieri regionali, i referenti nazionali e regionali dell’associazione «Libera», rispettivamente Gabriella Stramaccioni e Mimmo Nasone, il presidente della cooperativa «I Chora», Dimitri Praticò, l’imprenditore Tiberio Bentivoglio e i genitori di Dodò Gabriele, Giovanni e Francesca Gabriele. Presenti all’iniziativa, inoltre, il Procuratore generale della Repubblica presso il Tribunale di Reggio, Salvatore Di Landro, il Vicario generale della Curia Arcivescovile della Diocesi Reggio-Bova, don Antonino Iachino, il Vicepresidente della Provincia di Reggio, Giovanni Verduci, l'assessore provinciale alla Cultura e alla Difesa della Legalità, Eduardo Lamberti Castronuovo, autorità militari della regione, i rappresentanti di tanti altri sodalizi impegnati sul fronte della legalità e numerosi studenti delle scuole di ogni ordine e grado della città di Reggio Calabria. I lavori del convegno si sono aperti con un concerto degli allievi della scuola «De Gasperi» diretti dal Maestro Roberto Caridi e, nel corso dell’iniziativa, il Presidente del Consiglio, Francesco Talarico e il Presidente della Commissione contro la 'ndragheta, Salvatore Magarò hanno consegnato una targa di ReggioLiberaReggio a Dimitri Praticò, presidente della cooperativa «I Chora» . Nel suo discorso, il Presidente del Consiglio regionale ha sottolineato che «Il G(i)usto di Calabria – Dodò Gabriele è il primo esempio in Italia di 'Bottega della Legalità' ospitata nella sede di un Consiglio regionale, segno di un patto forte tra Istituzioni, politica ed associazionismo per un impegno comune rivolto all’affermazione dei principi di legalità e corresponsabilità».
«In Calabria – ha aggiunto Francesco Talarico – colgo un risveglio delle coscienze che è segno di speranza. Grande è la voglia di partecipazione e forte il bisogno di riscatto, soprattutto nei giovani. Ed è proprio dal loro entusiasmo e dalla voglia di cambiare che oggi dobbiamo ripartire, mettendo nuovo slancio in tutto quello che facciamo. È tempo di riscoprire l’orgoglio di essere calabresi rifuggendo pericolose generalizzazioni, tentazioni di discredito e luoghi comuni che rappresentano il principale favore all’illegalità ed il più pesante danno ai calabresi ed alla Calabria, una regione che, fra tante difficoltà sta comunque cercando di emergere e di risollevarsi. Grazie al lavoro instancabile della magistratura e delle forze dell’ordine che tanti brillanti risultati hanno conseguito nella lotta alla criminalità, la speranza che la 'ndrangheta non è invincibile è forte ed attuale. Ce la possiamo fare tutti insieme lavorando in un’unica direzione e in nome di valori comuni. Oggi siamo qui per celebrare un traguardo che ci eravamo posti all’inizio della legislatura e che ci ha visto coesi, maggioranza e minoranza, contro la criminalità e l'illegalità, senza se e senza ma. Continueremo ad aprire le porte del Palazzo ad ogni apprezzabile iniziativa in grado di diffondere una nuova cultura, fatta di diritti e di doveri che ci renda capaci di progredire sulla strada della civiltà e nel percorso di liberazione da ogni forma di bisogno».
«L'avere intitolato la Bottega della Legalità del Consiglio regionale a Dodò Gabriele, il ragazzo undicenne ucciso mentre giocava in un campo di calcetto a Crotone, è stata una dimostrazione di vicinanza verso i genitori del bambino, ma anche un atto dalla forte carica simbolica» ha sostenuto il capogruppo dell’Udc Alfonso Dattolo, secondo cui «tutti coloro che verranno a visitare la Bottega della legalità sapranno quant'è accaduto il 25 giugno del 2009. Mentre, compito della politica, anche sulla spinta di questo delitto atroce, rimane quello di non lasciare nulla d’intentato per isolare e sconfiggere la criminalità organizzata».
REGGIO CALABRIA - Segnare con gesti tangibili il primato della legalità in un terra bella ma difficile; favorire l’imprenditoria sana e concorrenziale contro la prepotenza delle mafie che inquinano il libero mercato e le sue regole; sostenere una economia che si regga sulla libertà e sull'impegno contro la minaccia ed il ricatto. Sono questi i significati che hanno accompagnato la cerimonia di inaugurazione, a Palazzo Campanella, della Bottega della Legalità «il G(i)usto di Calabria» intitolata ad un bambino, Domenico Gabriele, chiamato affettuosamente «Dodò», finito nel mirino della criminalità, per un tragico errore del destino, mentre giocava a calcetto con altri suoi coetanei a Crotone. «E' anche questa una scelta per tenere alti la memoria e l'impegno contro le mafie», ha detto il Presidente del Consiglio regionale Francesco Talarico ricordando i tanti visitatori e le migliaia di giovani che ogni anno avranno modo di visitare a Palazzo Campanella la nuova struttura.
Si suggella dunque l’accordo di cooperazione fortemente voluto dal Presidente del Consiglio regionale, Francesco Talarico e dal presidente della Commissione contro la 'ndrangheta, Salvatore Magarò con l’associazione «Libera» che è stato consacrato all’unanimità dall’Assemblea in un apposito ordine del giorno approvato nella seduta del 22 febbraio 2011. Ubicata al piano terra di Palazzo Campanella, la Bottega della Legalità, la prima in Calabria, è l’emblema di una bella esperienza imprenditoriale di soci reggini e del Trentino Alto Adige che la massima Istituzione della regione ha inteso sostenere. Nella Bottega sono esposti e posti in vendita i prodotti antimafia, ricavati cioè dai terreni confiscati alla 'ndrangheta e dati in gestione a cooperative sociali che, anche in Calabria, esprimono modelli di sviluppo economico fondati sulla legalità, dando opportunità di lavoro a tanti giovani. Prima del taglio del nastro che ha sancito l’apertura al pubblico della Bottega, nella sala «Nicholas Green», sono state rievocate le tappe di questo percorso ed i significati sottesi all’iniziativa che oggi ha trovato ufficialità. Al convegno sono intervenuti il Presidente del Consiglio regionale, Francesco Talarico, il presidente della Commissione contro la 'ndrangheta, Salvatore Magarò, numerosi consiglieri regionali, i referenti nazionali e regionali dell’associazione «Libera», rispettivamente Gabriella Stramaccioni e Mimmo Nasone, il presidente della cooperativa «I Chora», Dimitri Praticò, l’imprenditore Tiberio Bentivoglio e i genitori di Dodò Gabriele, Giovanni e Francesca Gabriele. Presenti all’iniziativa, inoltre, il Procuratore generale della Repubblica presso il Tribunale di Reggio, Salvatore Di Landro, il Vicario generale della Curia Arcivescovile della Diocesi Reggio-Bova, don Antonino Iachino, il Vicepresidente della Provincia di Reggio, Giovanni Verduci, l'assessore provinciale alla Cultura e alla Difesa della Legalità, Eduardo Lamberti Castronuovo, autorità militari della regione, i rappresentanti di tanti altri sodalizi impegnati sul fronte della legalità e numerosi studenti delle scuole di ogni ordine e grado della città di Reggio Calabria. I lavori del convegno si sono aperti con un concerto degli allievi della scuola «De Gasperi» diretti dal Maestro Roberto Caridi e, nel corso dell’iniziativa, il Presidente del Consiglio, Francesco Talarico e il Presidente della Commissione contro la 'ndragheta, Salvatore Magarò hanno consegnato una targa di ReggioLiberaReggio a Dimitri Praticò, presidente della cooperativa «I Chora» . Nel suo discorso, il Presidente del Consiglio regionale ha sottolineato che «Il G(i)usto di Calabria – Dodò Gabriele è il primo esempio in Italia di 'Bottega della Legalità' ospitata nella sede di un Consiglio regionale, segno di un patto forte tra Istituzioni, politica ed associazionismo per un impegno comune rivolto all’affermazione dei principi di legalità e corresponsabilità».
«In Calabria – ha aggiunto Francesco Talarico – colgo un risveglio delle coscienze che è segno di speranza. Grande è la voglia di partecipazione e forte il bisogno di riscatto, soprattutto nei giovani. Ed è proprio dal loro entusiasmo e dalla voglia di cambiare che oggi dobbiamo ripartire, mettendo nuovo slancio in tutto quello che facciamo. È tempo di riscoprire l’orgoglio di essere calabresi rifuggendo pericolose generalizzazioni, tentazioni di discredito e luoghi comuni che rappresentano il principale favore all’illegalità ed il più pesante danno ai calabresi ed alla Calabria, una regione che, fra tante difficoltà sta comunque cercando di emergere e di risollevarsi. Grazie al lavoro instancabile della magistratura e delle forze dell’ordine che tanti brillanti risultati hanno conseguito nella lotta alla criminalità, la speranza che la 'ndrangheta non è invincibile è forte ed attuale. Ce la possiamo fare tutti insieme lavorando in un’unica direzione e in nome di valori comuni. Oggi siamo qui per celebrare un traguardo che ci eravamo posti all’inizio della legislatura e che ci ha visto coesi, maggioranza e minoranza, contro la criminalità e l'illegalità, senza se e senza ma. Continueremo ad aprire le porte del Palazzo ad ogni apprezzabile iniziativa in grado di diffondere una nuova cultura, fatta di diritti e di doveri che ci renda capaci di progredire sulla strada della civiltà e nel percorso di liberazione da ogni forma di bisogno».
«L'avere intitolato la Bottega della Legalità del Consiglio regionale a Dodò Gabriele, il ragazzo undicenne ucciso mentre giocava in un campo di calcetto a Crotone, è stata una dimostrazione di vicinanza verso i genitori del bambino, ma anche un atto dalla forte carica simbolica» ha sostenuto il capogruppo dell’Udc Alfonso Dattolo, secondo cui «tutti coloro che verranno a visitare la Bottega della legalità sapranno quant'è accaduto il 25 giugno del 2009. Mentre, compito della politica, anche sulla spinta di questo delitto atroce, rimane quello di non lasciare nulla d’intentato per isolare e sconfiggere la criminalità organizzata».
«L'idea di inserire negli spazi dell’Assemblea legislativa calabrese la Bottega della Legalità con l’ausilio fondamentale di Libera, è un’idea condivisa e sostenuta da tutti noi». E' l'opinione di Giuseppe Giordano, consigliere regionale di Idv, secondo cui «rappresenta, inoltre una decisione unanime e ci fa sperare che, dinanzi a fenomeni così disastrosi da ogni punto di vista come la criminalità organizzata, ci può e ci deve essere una visione coesa e non incrinata dalle diatribe politiche. Proprio perché, come ci insegna la tragedia di Dodò e della sua famiglia, la mafia non riguarda soltanto qualcuno, ma tocca tutti indistintamente».
Sorpreso mentre dormivail latitante Diego Mammoliti
E' considerato dagli inquirenti un esponente contiguo alla cosca dei Bellocco, quando lo hanno trovato stava riposando in una casa a San Ferdinando, Mammoliti è accusato di diversi reati contro il patrimonio. Fermato anche il padrone di casa e una terza persona
SAN FERDINANDO (RC) - I carabinieri della Compagnia di Gioia Tauro, hanno sorpreso nel sonno Diego Mammoliti, 27enne nato a Cinquefrondi, ritenuto vicino alla cosca Bellocco di 'ndrangheta. Il giovane era ricercato dal gennaio scorso in quanto destinatario di ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal gip del Tribunale di Palmi per reati contro il patrimonio e rapina. I militari diretti dal capitano Ivan Boracchia hanno sorpreso Mammoliti nel villagio Praia, nel comune di San Ferdinando, all’interno di un appartamento di proprietà di Vincenzo Cannatà, 28enne di Cinquefrondi. In compagnia di Mammoliti si trovava un giovane di 20 anni, Antonino Tortora di Cinquefrondi, col quale Diego divideva l’appartamento. Nel corso della perquisizione domiciliare i militari hanno rinvenuto, nella immediata disponiblità di Diego Mammoliti, una pistola Tanfoglio cal. 6.35 con matricola abrasa, pronta ad essere utilizzata con il colpo in canna e 5 cartucce nel serbatoio. I tre sono stati arrestati dai Carabinieri e condotti in carcere.Omicidio di Fabrizio Pioli domani le analisi del Ris
GLi uomini del Ris di Messina inizieranno ad analizzare i reperti a disposizione sul caso della scomparsa dell'elettrauto di Gioa Tauro. Si tratta di rilievi ed analisi nella maggior parte dei casi di natura irripetibile che acquisiscono un'importanza notevole ai fini dell'indagine
GIOIA TAURO - Inizieranno domani presso il Ris di Messina gli accertamenti tecnici irripetibili nell’ambito delle indagini sull'omicidio di Fabrizio Pioli, l’elettrauto di 38 anni di Gioia Tauro scomparso il 23 febbraio scorso. Alle operazioni, oltre ai carabinieri del Ris, parteciperanno anche il professor Sandro Lopez, esperto in balistica, ed il figlio, Gianluca, criminalista, nominati dalla famiglia di Pioli. In particolare saranno presi in esame numerosi oggetti e materiali sequestrati nel corso dei sopralluoghi effettuati dagli investigatori e dai consulenti della parte offesa. I tecnici cercheranno di trovare elementi utili per ricostruire quanto è accaduto all’elettrauto scomparso. Gli esiti degli accertamenti arriveranno non prima di un paio di mesi. Le indagini sulla scomparsa di Pioli sono coordinate dal Procuratore della Repubblica di Palmi Giuseppe Creazzo. L’uomo, secondo i magistrati della Procura della Repubblica di Palmi, è stato ucciso il giorno stesso della scomparsa ed il suo corpo occultato. Per il delitto è stato arrestato Domenico Napoli, di 22 anni, mentre suo padre, Antonio, è ricercato. I due, che vivono a Melicucco (Reggio Calabria), sono il fratello ed il padre della ragazza Simona, con cui Pioli si è incontrato prima di scomparire e con la quale aveva allacciato una relazione benchè la donna fosse sposata. La donna, che ha accusato dell’omicidio del suo amante i due congiunti, adesso si trova in una località protetta con il figlio di quattro anni.
GIOIA TAURO - Inizieranno domani presso il Ris di Messina gli accertamenti tecnici irripetibili nell’ambito delle indagini sull'omicidio di Fabrizio Pioli, l’elettrauto di 38 anni di Gioia Tauro scomparso il 23 febbraio scorso. Alle operazioni, oltre ai carabinieri del Ris, parteciperanno anche il professor Sandro Lopez, esperto in balistica, ed il figlio, Gianluca, criminalista, nominati dalla famiglia di Pioli. In particolare saranno presi in esame numerosi oggetti e materiali sequestrati nel corso dei sopralluoghi effettuati dagli investigatori e dai consulenti della parte offesa. I tecnici cercheranno di trovare elementi utili per ricostruire quanto è accaduto all’elettrauto scomparso. Gli esiti degli accertamenti arriveranno non prima di un paio di mesi. Le indagini sulla scomparsa di Pioli sono coordinate dal Procuratore della Repubblica di Palmi Giuseppe Creazzo. L’uomo, secondo i magistrati della Procura della Repubblica di Palmi, è stato ucciso il giorno stesso della scomparsa ed il suo corpo occultato. Per il delitto è stato arrestato Domenico Napoli, di 22 anni, mentre suo padre, Antonio, è ricercato. I due, che vivono a Melicucco (Reggio Calabria), sono il fratello ed il padre della ragazza Simona, con cui Pioli si è incontrato prima di scomparire e con la quale aveva allacciato una relazione benchè la donna fosse sposata. La donna, che ha accusato dell’omicidio del suo amante i due congiunti, adesso si trova in una località protetta con il figlio di quattro anni.
Sorvegliato speciale in Jaguar
Confiscati 40 milioni di beni Immobili, terreni e autovetture erano riconducibili a Francesco Costa, 69 anni, residente a Cassano Ionio. Secondo la Polizia, è ritenuto "un soggetto partecipe alle attività criminali della zona". Nel provvedimento anche un hotel
COSENZA - Beni per un valore di 40 milioni di euro sono stati confiscati dagli agenti della divisione anticrimine della Questura di Cosenza. Il patrimonio, che secondo gli inquirenti è composto da beni acquisiti illecitamente dalle organizzazioni criminali operanti nella provincia, fanno capo a Francesco Costa, 69 anni, nato a Corigliano Calabro e residente a Cassano Ionio, sorvegliato speciale. L’uomo è detenuto nel carcere di Catanzaro. Stamane gli agenti hanno dato esecuzione ad un decreto, divenuto irrevocabile, di confisca, emesso dal Tribunale di Cosenza a seguito di una pronuncia della Corte di Cassazione, che ha rigettato il ricorso presentato dall’ineressato. Costa è indicato come «soggetto partecipe da oltre trent'anni delle attività criminali della zona dell’alto Ionio Cosentino. Risulta infatti coinvolto nelle operazioni antimafia «Galassia» e «Omnia».Tra i beni confiscati, l’impresa individuale «Motel Sybaris» con sede a Cassano Ionio; l’albergo «Motel Sybars», un immobile costituito da 6 vani edificato pure a Cassano Ionio; tre terreni agricoli sempre a Cassano Ionio; un terreno edificabile a Villapiana; due terreni situati nello stesso centro; tre autovetture, fra cui due Ford Transit Torneo ed una Jaguar X-Type 2.5 V6.
Mafia, per i giovani è più forte dello Stato
Secondo un'indagine condotta dal Centro Pio La Torre, il 37,19% degli studenti del Nord e del Sud pensa che Cosa Nostra non sarà mai sconfitta. Secondo il 68,83% dei ragazzi le istituzioni non fanno abbastanza per vincere questa battaglia
PALERMO. La mafia può essere definitivamente sconfitta solo per il 23,7% degli studenti di Nord e Suditalia; il 37,19% pensa che non lo sarà. Alla domanda chi è più forte tra lo Stato e la mafia solo il 14,27% ha risposto «lo Stato»; quasi la metà, il 49,90%, ha invece risposto: «la mafia». Inoltre, per il 68,83% lo Stato non fa abbastanza per sconfiggere la mafia e per il 79,28% la mafia è forte, perchè s'infiltra nello Stato. È quanto emerge dalla sesta indagine annuale sulla percezione del fenomeno mafioso, condotta dal Centro studi Pio La Torre, che ha distribuito 1.409 questionari a un campione di ragazzi fra i 16 e i 18 anni. Il 67% di loro proviene da scuole siciliane, seguono Liguria (203 questionari, pari al 14,41% del campione), Lazio (186 questionari, 13,20) e Lombardia (76, cioè 5,39).
Il 47,13% del campione pensa che la mafia sia «abbastanza» diffusa nella propria regione; «molto diffusa» il 38%, mentre quasi il 12% la ritiene «poco diffusa». Quasi pari le
percentuali sulla percezione di una presenza concreta della mafia nella propria città: il 28,8% del campione l'ha avvertita «poco», il 27% «abbastanza», il 19% «per niente». Secondo
gli studiosi ciò è dovuto al fatto che, «per molti italiani la mafia è soltanto qualcosa di cui si è a conoscenza di seconda mano e questo vale anche per molti siciliani, a seconda dei quartieri in cui risiedono o degli ambienti che frequentano», spiega nel rapporto il sociologo Antonio La Spina, che ha curato lo studio insieme ai ricercatori Giovanni Frazzica e Attilio Scaglione.
«Chi ha risposto frequenta le ultime classi di licei, istituti tecnici e professionali - sostiene La Spina - non si è abbastanza adulti a quell'età per aver ricevuto, poniamo, una richiesta di pizzo; ma, a seconda del luogo in cui si vive, si avverte il controllo del territorio». Nel dettaglio, potendo scegliere fino a tre risposte, ciò che secondo gli studenti permette alla mafia siciliana dicontinuare a esistere è, in primo luogo, «la mentalita dei siciliani» (risposta del 51,81% del campione), segue 'la corruzione della classe dirigente« (51,03%), mentre per il 40% ci sono »le scarse opportunità di lavoro«. Per il 51,38% di loro il rapporto tra mafia e politica »è molto forte«; oltre il 30% del campione pensa che »mafia e arretratezza economica si autoalimentano«, mentre il 23,28% pensa che l'arretratezza sia un effetto della mafia. Oltre il 41% del campione, pari a 590 studenti, ritiene che la presenza della mafia sia un ostacolo per il proprio futuro; il dato sale al 50,7% per gli studenti siciliani e si attesta al 28% per i loro coetanei lombardi, 23% per i liguri e 22 per i giovani del Lazio.
Inoltre, nella ricerca di un lavoro nella propria città oltre il 34% del campione ritiene importante presentare un curriculum o frequentare un corso professionale (28,8%), contro il 21,29% che ritiene più importante rivolgersi a un politico e il 18,45% che considera »più importante rivolgersi a un mafioso«. Per il 47% dei ragazzi intervistati »sarebbe più corretto seguire criteri meritocratici«, e per il 25% per cento una persona raccomandata non è valida .
I giovani considerano più scorretto »evadere le tasse« (70,97%) e assumere lavoratori in nero (42,80), seguono il mancato rispetto dell'ambiente (27,96) e l'astensione dal voto (16,25).
«Gli studenti del campione sono consapevoli degli ostacoli che incontreranno nella vita - ha detto Vito Lo Monaco, presidente del Centro studi - nel 30/o anniversario dell'uccisione di Pio La Torre sentiamo particolarmente il compito di additare come esempio i cittadini caduti nell'adempimento del proprio lavoro».
Enna, trovata morta la ragazza scomparsa: fermato il convivente
Tragico epilogo nella vicenda di Vanessa Scialfa, 20 anni, della quale non si avevano tracce da due giorni. Il convivente della ragazza, Francesco Lo Presti, 34 anni, è stato ascoltato per ore in questura, poi sarebbe arrivata l'ammissione. La donna è stata prima strangolata e poi buttata già da un ponte. Il corpo ritrovato vicino l'ex miniera di Pasquasia
ENNA. Aveva vent'anni Vanessa Scialfa, capelli lunghi e una frangetta che ricordava il taglio delle dive del cinema. Sul viso l'espressione di chi ha curiosità per la vita, una vita finita troppo presto, per la follia di chi l'ha uccisa e poi scaraventata giù da un cavalcavia, vicino a
quella che un tempo era una fiorente miniera di salgemma dell'Ennese e ora è un posto polveroso in una Sicilia che ormai parla di sè solo al passato.
quella che un tempo era una fiorente miniera di salgemma dell'Ennese e ora è un posto polveroso in una Sicilia che ormai parla di sè solo al passato.
Vanessa era scomparsa martedì scorso da Enna, dove viveva insieme al suo fidanzato, Francesco Lo Presti, 34 anni. Erano stati i genitori di lei a denunciarne la scomparsa ai carabinieri. Alle 15.15 di due giorni fa si erano recati in caserma dopo aver parlato con il fidanzato della figlia, il quale aveva detto loro che Vanessa era uscita per un appuntamento di lavoro e aveva confusamente riferito di una lite avvenuta poco prima.
Adesso Lo Presti è stato fermato, dopo un lungo interrogatorio in questura, e su di lui pesano tutti i sospetti. I primi risultati dell'indagine portano a ipotizzare che la ragazza sia stata strangolata in casa; poi il corpo è stato avvolto in un lenzuolo e lanciato giù dal cavalcavia. Notizie che arrivano all'orecchio del padre di Vanessa, Giovanni, distrutto dal dolore, mentre si trova all'obitorio del cimitero, dove ha dovuto compiere il triste rito del riconoscimento del
cadavere. «Non lo devono arrestare - grida - perchè poi ci penserò io, con le mie mani... Lo avevo accolto in famiglia perchè pensavo che fosse un bravo ragazzo, ma come si fa a
uccidere per un futile litigio».
Vanessa e Francesco vivevano in una casa di via Filippo Gallina, in una zona periferica vicino al Castello di Lombardia, di cui il padre della ragazza, un geometra, era custode e col
suo stipendio mandava avanti una famiglia con sei figli, tre dei quali avuti dal secondo matrimonio. Dopo la scomparsa di Vanessa, su facebook erano sorti cinque gruppi per il suo
ritrovamento, a cui si erano iscritte tremila persone. «Vi prego di diramare questa foto - aveva scritto il padre agli amici del social network - è mia figlia, non abbiamo notizie da martedì 24 aprile». Dopo la scomparsa nessuno aveva pensato all'omicidio, sembrava un allontanamento volontario, ma oggi la situazione è precipitata.
Nonostante il riserbo di investigatori e inquirenti, qualcosa trapela: Lo Presti - interrogato alla presenza del suo avvocato - sarebbe presto crollato davanti all'incalzare delle domande e
la versione del litigio e dell'allontanamento della ragazza non ha retto a lungo. Da quanto si apprende, proprio lui avrebbe condotto le forze dell'ordine sul luogo in cui è stato ritrovato il corpo di Vanessa, avvolto in un lenzuolo. Intanto, la città è sgomenta. Nel Comune capoluogo di provincia, ma che conta poco meno di 30 mila abitanti, tutti conoscevano Vanessa. Il sindaco, Paolo Garofalo, non ha parole: «È terribile quello che è accaduto - dice -. Nessuno ridarà la vita a Vanessa, ma il Comune intende fare tutto ciò che potrà per i suoi familiari»
mercoledì 25 aprile 2012
Blitz nel Foggiano Arrestato «Candidato a sindaco e a killer»
APRICENA - All’apertura della campagna elettorale in piazza ci andò a cavallo. Come un cow-boy o forse sentendosi un novello Garibaldi sulla scia dell’entusiasmo non ancora sopito per i 150 anni dell’Unità d’Italia. Personaggio eclettico, candidato sindaco nato all’improvviso all’ombra di una campagna elettorale ormai prossima al traguardo del 6 e 7 maggio. È il ritratto di Michele Taurisano, 36 anni, a capo della civica «Buon giorno Apricena» in corsa per lo scranno più importante del Comune ai piedi del Gargano. È accusato di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di reati contro le persone e il patrimonio con alle spalle il racket della guardiania per gli impianti fotovoltaici. Un boccone molto appetito su cui ha allungato le sue mani la criminalità organizzata locale. Estorsioni e anche omicidi dietro il ventaglio di ipotesi accusatorie della Procura della Repubblica di Lucera che hanno portato all’emissione di otto ordinanze di custodia cautelare (sei le persone arrestate, due quelle ricercate) eseguite ieri mattina all’alba dai carabinieri della compagnia di San Severo con l’ausilio di un elicottero e un ingente numero di militari in supporto.
Con Taurisano sono finiti in carcere i sanseveresi Nicola Salvatore, 51 anni; Antonio Cursio, 54 anni; Leonardo Ferrelli, 31 anni; Nicola Ferrelli, 35 anni. Sei sono stati arrestati, due risultano irreperibili. Chiave di volta dell’indagine che ha fatto leva su u n’intensa attività investigativa da parte dei militari, è la figura di Taurisano, incensurato da poco datosi alla politica. Secondo l’accusa, a lui spettava il compito di commettere due omicidi nei confronti di due sanseveresi. Un obiettivo importante - secondo gli inquirenti - per ristabilire la leadership sulla piazza del centro dell’Alto Tavoliere dove evidentemente è in atto una «guerra» per accaparrarsi il mercato relativo alle estorsioni.
Durante le indagini è emerso che Taurisano avrebbe ricevuto in dotazione una pistola pare appartenuta all’ex boss ucciso nel 2004 con caricatore e relativo munizionamento. Perquisendo l’abitazione del candidato sindaco, gli inquirenti hanno sequestrato il silenziatore di un revolver nascosto nell´intercapedine di un box. Proprio Taurisano sarebbe stato individuato da un gruppo criminale facente capo a Nicola Salvatore, uno degli indagati arrestati ieri mattina, pregiudicato locale che era in semilibertà, con l’intento di uccidere due fratelli che operano nel settore della guardiania dei parchi fotovoltaici per accaparrarsi il controllo del lucroso giro d’affari e di vendicare l’omicidio del fratellastro in cui i due sono ritenuti implicati pur non essendo stati gli autori materiali.
Taurisano si ritiene fosse anche il custode di armi che poi avrebbe dovuto rivendere al altri pregiudicati con cui era in contatto. Non è tutto. Sempre secondo quanto accertato dai carabinieri il gruppo delinquenziale gestiva anche un giro di estorsioni nel settore delle guardianie dei campi fotovoltaici.
ANTONIO D’AMICO
Nuovo pentito di 'ndrangheta
Si tratta di Luigi Bruni. ventisettenne di Paola arrestato lo scorso 30 marzo nell'ambito dell'operazione Tela del Ragno che ha inflitto un duro colpo alle 'ndrine del Tirreno cosentino. Bruni ha iniziato a collaborare dopo che prima di lui aveva avviato i suoi rapporti con la giustizia anche il padre Gennaro
COSENZA - Verso la strada della collaborazione. Protagonista Luigi Bruni, 27 anni di Paola (Cs), coinvolto nell’operazione “Tela del Ragno” dello scorso 30 marzo, quando fu cioè assestato un duro colpo alla criminalità organizzata gravitante nel Tirreno cosentino. La notizia del suo pentimento è stata di fatto ufficializzata ieri dal procuratore generale Eugenio Facciolla, della Procura di Catanzaro, tra i titolari dell’inchiesta coordinata dalla Distrettuale Antimafia, prima che si procedesse, dinanzi ai giudici del Tribunale della Libertà, coi Riesami di alcuni imputati. Facciola ha depositato una serie di nuovi documenti d’indagine, tra cui il verbale riassuntivo delle dichiarazioni rese proprio dal giovane Bruni. La curiosità è che era stato da poco rimesso in libertà dal Riesame di Catanzaro. Poche settimane fa stessa decisione fu presa dal padre Gennaro, 56 anni, i cui verbali sono già in mano agli addetti ai lavori. I due si sono ora affidati all’avvocato Capparelli, del foro di Castrovillari, che difende proprio i collaboratori di giustizia.Lo scorso 30 marzo Luigi Bruni era stato tratto in arresto dai carabinieri con l’accusa di essere tra gli “azionisti del clan in occasione di danneggiamenti e atti intimidatori funzionali alle finalità illecite dell’associazione, nonchè nelle attività di supporto nella consumazione di agguati mafiosi contro esponenti del clan avverso”. La Dda di Catanzaro cita ad esempio l’omicidio di Luciano Martello, ucciso a Fuscaldo il 12 luglio del 2003, nel quale il padre Gennaro figura tra coloro i quali avrebbero preso parte alla fase esecutiva.
ROBERTO GRANDINETTI
Ecco com'è finita la latitanza di Trimboli
I carabinieri alla porta, il boss che esce ammanettato
Le immagini del blitz che ha permesso di catturare uno dei ricercati considerati più pericolosi. Dalla Locride gestiva gli affari delle cosche in Lombardia e Piemonte. Aveva preso un posto di rilievo dopo che era stato ucciso Marando, l'uomo del quale era stato luogotenente
REGGIO CALABRIA – Le immagini riprendono i carabinieri mentre fanno irruzione nella località in cui si nascondeva. E poi lo ritraggono mentre esce ammanettato, a testa bassa. Rocco Trimboli stava diventando pian piano un boss. Ed il rispetto da parte dei capi delle altre cosche di 'ndrangheta se lo stava conquistando gestendo affari in Piemonte e Lombardia dalla Locride, dalla quale non si era mai spostato. Il latitante, 45 anni, di Platì, è stato arrestato a Casignana dai carabinieri del Comando provinciale di Reggio Calabria e del Ros dopo che è riuscito a sfuggire all'arresto per due anni. Era stato a lungo il luogotenente del boss Pasquale Marando, stratega dei traffici internazionali di cocaina e ne aveva preso il posto nel 2001 quando Marando era stato vittima di lupara bianca. Da quel momento il ruolo di Trimboli all’interno della 'ndrangheta era diventato sempre più influente.
Sulle montagne di Platì, il 10 ottobre 2001 fu localizzato ed arrestato da personale del Ros, dello Squadrone Eliportato Cacciatori di Calabria e dal Gruppo di Locri, mentre si trovava in compagnia di un altro latitante, Pasquale Barbaro, 51 anni, detto «Testa di Muschitta», appartenente alla 'ndrina dei Castani e cognato di Giuseppe Pelle detto Gambazza. Con loro finirono in carcere altri 8 affiliati, tutti sorpresi durante un summit di 'ndrangheta. Poi, però, nel 2003 venne scarcerato per decorrenza dei termini di custodia cautelare e avvalendosi della collaborazione dei fratelli Saverio (già latitante inserito nell’elenco dei 100) e Natale (tuttora latitante) ed in virtù del suo rilevante ruolo in seno alla 'ndrangheta del paese di origine, avrebbe continuato a rappresentare un punto di riferimento per le 'ndrine.
Il suo contributo costante allo sviluppo dell’organizzazione mafiosa al Nord è stato alla base del provvedimento restrittivo scaturito dall’operazione «Minotauro», condotta dai carabinieri in Piemonte nel giugno del 2011 con l’arresto di 151 indagati, ritenuti appartenenti alla 'ndrangheta in Calabria, Lombardia, Liguria ed Emilia Romagna. In Piemonte, in particolare, Trimboli continuava a recarsi prima del successivo stato di latitanza, per partecipare a riti di affiliazione di nuove leve 'ndranghetiste, organizzate al Nord ma sempre decise dai vertici del «locale» di Platì, tra cui Trimboli. Tra il 2009 ed il 2010, l’Arma, sotto il coordinamento della Procura Distrettuale di Reggio Calabria, ha individuato e sequestrato ben 10 bunker risultati nella disponibilità di soggetti legati o appartenenti alla 'ndrina capeggiata da Trimboli.
E' proprio dall’operazione Minotauro, come ha spiegato il procuratore aggiunto della Dda di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, che «è emerso il ruolo di Trimboli, prima della latitanza, di fare la spola tra il Piemonte e la Calabria per dirigere l’attività delle cosche di 'ndrangheta che si trovano nel nord». Attività che ha riguardato non soltanto i traffici di droga ma anche l’accaparramento di appalti pubblici per milioni di euro.
«Trimboli, però – ha detto ancora Gratteri – non ha mai voluto allontanarsi dalla Locride perchè ha capito che se lo avesse fatto avrebbe perso la sua leadership. E questo un aspirante boss non può permetterselo». Le varie fasi dell’arresto di Trimboli sono state illustrate dal capitano del Ros Massimiliano D’Angeloantonio. «Il latitante – ha detto – si nascondeva in una piccola casa nel centro di Casignana immersa in un dedalo di vicoli e viuzze in cui era molto difficile districarsi. Prima di scovarlo abbiamo perquisito una ventina di case, ma alla fine siamo riusciti ad individuarlo. All’inizio Trimboli ha negato la sua identità, ma alla fine ha dovuto arrendersi». «Soltanto i carabinieri del Ros e quelli del reparto Cacciatori – ha commentato Gratteri – potevano arrivare al covo impenetrabile di Trimboli». Nella casa in cui si nascondevano il latitante c'erano anche due donne, una delle quali molto anziana, che sono state denunciate. Sul letto di Trimboli sono stati trovati alcuni frammenti di pizzini, che adesso si sta cercando di ricostruire, un computer e alcuni telefoni cellulari».
La Cassazione: Berlusconi da vittima pagò la mafia
ROMA. In "posizione di vittima", l'ex premier Silvio Berlusconi, all'epoca "imprenditore" - sottolinea la Cassazione nella sentenza 15727 - pagò "cospicue somme" in favore di Cosa Nostra in cambio "dell'accordo protettivo" contro il rischio di sequestri ai suoi danni e dei suoi familiari.
La Cassazione, nel confermare gli addebiti di concorso esterno in associazione a delinquere, a carico di Marcello Dell'Utri per i fatti contestatigli fino al 1978 (quando ancora non era stata introdotta nel codice l'aggravante mafiosa) afferma che non è importante la circostanza che le somme pagate da Berlusconi non siano state indicate con precisione in quanto il pentito Di Carlo le quantifica in 100 milioni di lire, mentre il pentito Galliano parla di un regalo di 50 milioni fatto dall'imprenditore, e il pentito Cucuzza parla di versamenti di 50 milioni l'anno. Quel che è "rimasto invariato e ripetuto" sottolinea la Cassazione é "il tema della ricerca e del raggiungimento di un accordo tra Berlusconi e Cosa Nostra per il tramite di Cinà e di Dell'Utri". Accordo - prosegue la Cassazione - "volto a realizzare una proficua e reciproca collaborazione di intenti".
La Cassazione: Dell'Utri mediatore tra mafia e Berlusconi
Ecco le motivazioni della sentenza che ha annullato con rinvio la condanna per concorso esterno al senatore del Pdl. L’ex premier pagò a Cosa Nostra "cospicue somme" per la sua sicurezza e quella dei suoi familiari
ROMA. Il senatore Marcello Dell'Utri è stato il "mediatore" dell'accordo protettivo per il quale Berlusconi pagò alla mafia "cospicue somme" per la sua sicurezza e quella dei suoi familiari. Lo scrive la Cassazione nelle motivazioni depositate della sentenza che ha annullato con rinvio la condanna per concorso esterno a Dell'Utri.
Spiegano i supremi giudici - nella sentenza 15727 di 146 pagine - che in maniera "corretta" sono state valutate, dai giudici della Corte d'Appello di Palermo, le "convergenti dichiarazioni" di più collaboratori sul tema "dell'assunzione, per il tramite di Dell'Utri, di Mangano ad Arcore, come la risultante di convergenti interessi di Berlusconi e di Cosa Nostra". Provata anche la "non gratuità dell'accordo protettivo, in cambio del quale sono state versate cospicue somme da parte di Berlusconi in favore della mafia".
Per quanto riguarda l'assunzione del mafioso 'Stalliere' Mangano alla villa di Arcore, ad avviso della Suprema Corte il dato di fatto "indipendentemente dalle ricostruzioni dei cosiddetti pentiti, è stato congruamente delineato dai giudici di merito come indicativo, senza possibilità di valide alternative, di un accordo di natura protettiva e collaborativa raggiunto da Berlusconi con la mafia per il tramite di Dell'Utri che, di quella assunzione, è stato l'artefice grazie anche all'impegno specifico profuso da Cinà".
Spiegano i supremi giudici - nella sentenza 15727 di 146 pagine - che in maniera "corretta" sono state valutate, dai giudici della Corte d'Appello di Palermo, le "convergenti dichiarazioni" di più collaboratori sul tema "dell'assunzione, per il tramite di Dell'Utri, di Mangano ad Arcore, come la risultante di convergenti interessi di Berlusconi e di Cosa Nostra". Provata anche la "non gratuità dell'accordo protettivo, in cambio del quale sono state versate cospicue somme da parte di Berlusconi in favore della mafia".
Per quanto riguarda l'assunzione del mafioso 'Stalliere' Mangano alla villa di Arcore, ad avviso della Suprema Corte il dato di fatto "indipendentemente dalle ricostruzioni dei cosiddetti pentiti, è stato congruamente delineato dai giudici di merito come indicativo, senza possibilità di valide alternative, di un accordo di natura protettiva e collaborativa raggiunto da Berlusconi con la mafia per il tramite di Dell'Utri che, di quella assunzione, è stato l'artefice grazie anche all'impegno specifico profuso da Cinà".
La ragazza al citofono tradì la latitanza di Zagaria
«Papà, rispondi a zio Michele»
CASERTA - L’ingenuità di una ragazzina ne ha tradito la presenza. Una parola di troppo, anzi un nome improvvidamente pronunciato a voce alta, ha bruciato la lunghissima latitanza del capo del cartello casalese. Il suo nome, Michele, detto mentre lei parlava con un’amica. È stato per questo, per quel nome sfuggito, che la polizia ha capito che la fine della caccia si avvicinava. E che Michele Zagaria era là, dalle parti di vico Mascagni, nella sua Casapesenna, in un rifugio collegato alla casa del tubista Vincenzo Inquieto attraverso un citofono.
Quella sera - era il primo dicembre del 2011, cinque mesi fa - intorno alle 20,20, la ragazzina aveva ricevuto la telefonata della sua coetanea, probabilmente una compagna di scuola. Stavano parlando e provando a commutare la conversazione in video quando i poliziotti avevano sentito chiaramente, in sottofondo, lo squillo di un citofono. Uno solo, secco. La ragazzina aveva risposto, poi aveva chiamato il padre: «Pronto, chi è? Un secondo...papà, papà.... zio Michele».
Poteva essere davvero un parente con quel nome. Ma gli incroci anagrafici l’hanno escluso categoricamente.
Non c’è nessun Michele nello stato di famiglia, pur dilatato all’inverosimile, di Vincenzo Inquieto e Maria Rosaria Massa, la moglie. L’uomo che la ragazzina considerava uno zio era, in realtà, proprio Michele Zagaria. Con il quale, probabilmente, ha convissuto per tempi lunghissimi e con il quale ha avuto rapporti di frequentazione non occasionali, alla luce del sole - almeno della luce delle case-rifugio del boss - e per un arco temporale molto lungo, tale da giustificare l’estrema familiarità e la confidenza. Per lei, dunque, Zagaria non era (non era mai stato) un ospite ingombrante, imbarazzante, pericoloso. Ma qualcosa di più di un amico di famiglia, quasi un parente stretto. Uno zio, appunto.
Sei giorni dopo, il 7 dicembre, finiva l’incredibile fuga dell’uomo che era riuscito ad arrivare ai vertici del clan camorristico più potente d’Italia. Il citofono era, con ogni probabilità, quello che collegava il bunker sotterraneo di vico Mascagni con i piani superiori della casa. Oppure l’altro, quello installato in via Alcide De Gasperi, a 367 metri di distanza, una sorta di centrale di smistamento delle comunicazioni tra il capoclan e il resto del mondo. Chi doveva parlare con Michele Zagaria, andava a bussare al deposito di Inquieto e parlava con il boss senza possibilità alcuna di essere intercettato.
La telefonata tra la ragazzina e la sua amica è contenuta nell’informativa finale sulla cattura del capo del cartello casalese, firmata dal capo della Squadra mobile di Napoli, Andrea Curtale, e depositata l’altro giorno dal pm antimafia Catello Maresca nel processo a carico di Vincenzo Inquieto. Processo celebrato con il rito abbreviato dinanzi al gup Tommaso Miranda, che lo ha condannato a quattro anni di reclusione con la confisca della casa in cui è stato arrestato Zagaria.
Nella relazione è ricostruita la successione temporale delle indagini tecniche, con l’attenzione investigativa focalizzata sulla famiglia Inquieto a far data dalla fine di gennaio dell’anno scorso. Attenzione rinnovata, in realtà, perché già nel 2004 - si legge nell’informativa - quel cognome era comparso negli atti del fascicolo sulle ricerche del latitante, a quel tempo non ancora condannato all’ergastolo ma già irreperibile da quasi nove anni. Il 13 gennaio del 2004, dunque, i carabinieri avevano controllato l’abitazione di un fratello di Vincenzo il tubista, Nicola, a San Cipriano d’Aversa. Avevano trovato il padrone di casa, la moglie rumena e Antonio Zagaria. Nicola Inquieto e il fratello del boss avevano cercato di evitare gli investigatori scappando attraverso una botola. Che aveva ospitato, in tempi precedenti, un latitante di cui furono trovate alcune tracce. Annota ancora il vicequestore Curtale: «Inquieto Nicola è costantemente presente in Romania ove curerebbe molti degli interessi del ricercato (Michele Zagaria, ndr) ed avrebbe nella sua disponibilità, in una cittadina vicino a Bucarest, anche una serie di appartamenti che metterebbe a disposizione dello Zagaria quando questi ivi si reca».
Quella sera - era il primo dicembre del 2011, cinque mesi fa - intorno alle 20,20, la ragazzina aveva ricevuto la telefonata della sua coetanea, probabilmente una compagna di scuola. Stavano parlando e provando a commutare la conversazione in video quando i poliziotti avevano sentito chiaramente, in sottofondo, lo squillo di un citofono. Uno solo, secco. La ragazzina aveva risposto, poi aveva chiamato il padre: «Pronto, chi è? Un secondo...papà, papà.... zio Michele».
Poteva essere davvero un parente con quel nome. Ma gli incroci anagrafici l’hanno escluso categoricamente.
Non c’è nessun Michele nello stato di famiglia, pur dilatato all’inverosimile, di Vincenzo Inquieto e Maria Rosaria Massa, la moglie. L’uomo che la ragazzina considerava uno zio era, in realtà, proprio Michele Zagaria. Con il quale, probabilmente, ha convissuto per tempi lunghissimi e con il quale ha avuto rapporti di frequentazione non occasionali, alla luce del sole - almeno della luce delle case-rifugio del boss - e per un arco temporale molto lungo, tale da giustificare l’estrema familiarità e la confidenza. Per lei, dunque, Zagaria non era (non era mai stato) un ospite ingombrante, imbarazzante, pericoloso. Ma qualcosa di più di un amico di famiglia, quasi un parente stretto. Uno zio, appunto.
Sei giorni dopo, il 7 dicembre, finiva l’incredibile fuga dell’uomo che era riuscito ad arrivare ai vertici del clan camorristico più potente d’Italia. Il citofono era, con ogni probabilità, quello che collegava il bunker sotterraneo di vico Mascagni con i piani superiori della casa. Oppure l’altro, quello installato in via Alcide De Gasperi, a 367 metri di distanza, una sorta di centrale di smistamento delle comunicazioni tra il capoclan e il resto del mondo. Chi doveva parlare con Michele Zagaria, andava a bussare al deposito di Inquieto e parlava con il boss senza possibilità alcuna di essere intercettato.
La telefonata tra la ragazzina e la sua amica è contenuta nell’informativa finale sulla cattura del capo del cartello casalese, firmata dal capo della Squadra mobile di Napoli, Andrea Curtale, e depositata l’altro giorno dal pm antimafia Catello Maresca nel processo a carico di Vincenzo Inquieto. Processo celebrato con il rito abbreviato dinanzi al gup Tommaso Miranda, che lo ha condannato a quattro anni di reclusione con la confisca della casa in cui è stato arrestato Zagaria.
Nella relazione è ricostruita la successione temporale delle indagini tecniche, con l’attenzione investigativa focalizzata sulla famiglia Inquieto a far data dalla fine di gennaio dell’anno scorso. Attenzione rinnovata, in realtà, perché già nel 2004 - si legge nell’informativa - quel cognome era comparso negli atti del fascicolo sulle ricerche del latitante, a quel tempo non ancora condannato all’ergastolo ma già irreperibile da quasi nove anni. Il 13 gennaio del 2004, dunque, i carabinieri avevano controllato l’abitazione di un fratello di Vincenzo il tubista, Nicola, a San Cipriano d’Aversa. Avevano trovato il padrone di casa, la moglie rumena e Antonio Zagaria. Nicola Inquieto e il fratello del boss avevano cercato di evitare gli investigatori scappando attraverso una botola. Che aveva ospitato, in tempi precedenti, un latitante di cui furono trovate alcune tracce. Annota ancora il vicequestore Curtale: «Inquieto Nicola è costantemente presente in Romania ove curerebbe molti degli interessi del ricercato (Michele Zagaria, ndr) ed avrebbe nella sua disponibilità, in una cittadina vicino a Bucarest, anche una serie di appartamenti che metterebbe a disposizione dello Zagaria quando questi ivi si reca».
Rosaria Capacchione
Terrore a Pianura: commando uccide uomo in pieno giorno
NAPOLI - Nel quartiere napoletano di Pianura, un uomo di 34 anni, Antonio Taglialatela, residente a Giugliano in Campania, è stato ucciso mentre camminava sul marciapiedi. Sconosciuti che gli hanno sparato numerosi colpi d'arma da fuoco.
L' agguato è avvenuto in via Girolamo Cardano. Per Taglialatela non c'è stato nulla da fare. Indagano i carabinieri della compagnia Bagnoli e della locale caserma. Secondo i carabinieri l'uomo sarebbe stato già noto alle forze dell'ordine.
Si scava nel passato di Antonio Taglialatela per tentare di capire chi abbia deciso di uccidere l'uomo ammazzato poco dopo mezzogiorno nel quartiere napoletano di Pianura. Taglialatela si trovava in via Cardano, una strada senza uscita, quando è stato avvicinato da alcuni sconosciuti che hanno esploso diversi colpi d'arma da fuoco. I sicari hanno fatto fuoco per uccidere visto che Taglialatela è stato raggiunto al torace e alla testa. Quando sono arrivati i soccorritori per l'uomo non c'era più nulla da fare.
lunedì 23 aprile 2012
Ucciso a Bari durante una lite
Cinque arrestati
BARI - Agenti della squadra mobile di Bari hanno arrestato per omicidio doloso e rissa aggravata Joseph Lattarulo, di 21 anni, ritenuto responsabile dell'uccisione di Roberto Cannella avvenuto ieri durante una lite in un negozio di parrucchiere a Bari. Con lui sono stati arrestati anche il padre, Pasquale Lattarulo, di 64 anni, la madre, di 51 e la sorella, di 25 anni, accusati di rissa. Il quinto arrestato, sempre con l'accusa di rissa, è Sergio Mezzina di 38 anni, con precedenti per traffico di droga, amico della vittima.
Secondo la ricostruzione fatta dalla polizia, il tutto è avvenuto per vecchi dissapori tra Mezzina, e la famiglia Lattarulo. Sembra infatti, che circa un anno fa, durante una lite violenta tra Mezzina, che all'epoca era sorvegliato speciale, e alcuni componenti della sua famiglia, i Lattarulo abbiano chiamato i carabinieri facendo arrestare l'uomo. Non appena questi è uscito di prigione, qualche giorno fa, avrebbe cominciato a vendicarsi perseguitando coloro che lo avevano denunciato e arrivando una volta a schiaffeggiare per strada Joseph Lattarulo.
Temendo ulteriori ritorsioni, la famiglia di quest'ultimo aveva deciso di tenersi pronta armandosi con coltelli. Ieri pomeriggio, la vittima, Roberto Cannella, amico di Mezzina, sarebbe andato nel negozio di parrucchiere gestito dai Lattarulo invitando Joseph ad uscire perchè Mezzina lo aspettava fuori. Il giovane avrebbe reagito colpendo a morte Cannella. A quanto si è appreso, inizialmente la famiglia Lattarulo avrebbe cercato di depistare le indagini sostenendo che la vittima e il suo amico erano armati. Cosa che, al momento, viene esclusa dagli investigatori.
BARI - Agenti della squadra mobile di Bari hanno arrestato per omicidio doloso e rissa aggravata Joseph Lattarulo, di 21 anni, ritenuto responsabile dell'uccisione di Roberto Cannella avvenuto ieri durante una lite in un negozio di parrucchiere a Bari. Con lui sono stati arrestati anche il padre, Pasquale Lattarulo, di 64 anni, la madre, di 51 e la sorella, di 25 anni, accusati di rissa. Il quinto arrestato, sempre con l'accusa di rissa, è Sergio Mezzina di 38 anni, con precedenti per traffico di droga, amico della vittima.
Secondo la ricostruzione fatta dalla polizia, il tutto è avvenuto per vecchi dissapori tra Mezzina, e la famiglia Lattarulo. Sembra infatti, che circa un anno fa, durante una lite violenta tra Mezzina, che all'epoca era sorvegliato speciale, e alcuni componenti della sua famiglia, i Lattarulo abbiano chiamato i carabinieri facendo arrestare l'uomo. Non appena questi è uscito di prigione, qualche giorno fa, avrebbe cominciato a vendicarsi perseguitando coloro che lo avevano denunciato e arrivando una volta a schiaffeggiare per strada Joseph Lattarulo.
Temendo ulteriori ritorsioni, la famiglia di quest'ultimo aveva deciso di tenersi pronta armandosi con coltelli. Ieri pomeriggio, la vittima, Roberto Cannella, amico di Mezzina, sarebbe andato nel negozio di parrucchiere gestito dai Lattarulo invitando Joseph ad uscire perchè Mezzina lo aspettava fuori. Il giovane avrebbe reagito colpendo a morte Cannella. A quanto si è appreso, inizialmente la famiglia Lattarulo avrebbe cercato di depistare le indagini sostenendo che la vittima e il suo amico erano armati. Cosa che, al momento, viene esclusa dagli investigatori.
Denis Bergamini fu evirato e morì dissanguato
La Procura: «Non si può dire che fu un atto voluto»
Avato, nella sua perizia riportata dal Quotidiano in edicola oggi, parla di «eviscerazione e disabitazione di tutti gli organi situati nel piccolo bacino». Giacomantonio, però, è prudente sull'ipotesi dell'atto volontario da parte di uno o più assassini: «Le ferite riscontrate sul corpo di Bergamini sono più verosimilmente riconducibili allo schiacciamento subìto dall'addome e dovuto al peso dell'autoarticolato che lo ha investito».
Avato, nella sua relazione, sottolineando che «la causa della morte deve essere riferita all’emorragia iperacuta connessa alla lesione vasale (della vena che passa dall’inguine, ndr)» ha rilevato però «l’assenza di lesioni al capo, al torace, agli arti superiori, alle ginocchia» che il corpo avrebbe dovuto mostrare in caso di investimento da parte di un mezzo pesante. E in un'intervista rilasciata al Quotidiano, anche la cosentina Rosa Maria Gaudio, docente di medicina legale all'università di Ferrara e allieva proprio di Avato, ha dichiarato: «Da medico legale vedo ogni anno decine di morti suicidi, ma non mi è mai capitato nessuno che per uccidersi si sia lanciato sotto un camion; d'impulso per di più».
Sotto questo aspetto, già ieri in realtà il Quotidiano anticipava che anche l'esperto Roberto Testi ha confermato che il calciatore era già privo di vita quando è stato travolto dal camion sotto al quale per anni si è voluto far credere che Denis si fosse suicidato. Secondo Testi il suo corpo inerme era invece già stato adagiato in precedenza sull'asfalto della statale 106. E anche i rilievi dei Ris di Messina sugli effetti personali di Bergamini non hanno trovato traccia del tragico tuffo sotto al camion, descritto per anno come la causa della morte di Denis.
Sull'ipotesi del suicidio è intervenuto oggi anche Gianni Di Marzio che allenò il centrocampista ferrarese a Cosenza: «Ai funerali parlai con il papà di Denis e gli dissi di far eseguire l’autopsia, perchè ero sicuro che un ragazzo così non si poteva suicidare», afferma il tecnico, dicendo di non essere quindi stupito che le perizie ora avrebbero accertato che non si tolse la vita volontariamente. «Quel che mi stupisce – sostiene Di Marzio – è che allora nessuno si accorse di nulla, del martirio che subì quel giovane pieno di vita. È anche questa una cosa che va accertata».
L'esito della perizia firmata dal professor Avato nel 1990 riferisce di terribili mutilazioni sul corpo del calciatore. Il procuratore di Castrovillari resta prudente: «Le ferite sono quelle ma non si può parlare dell'azione voluta di un soggetto». L'ex allenatore Di Marzio: «Un ragazzo così non si poteva suicidare»
CASTROVILLARI – Denis Bergamini in quella drammatica notte del 1989 fu evirato e poi morì dissanguato. Una fine atroce, che era stata documentata già nel 1990, nella perizia firmata dal professor Francesco Maria Avato che in questi giorni sta trovando conferme nei riscontri che la Procura di Castrovillari ha richiesto dopo aver ripreso in mano il caso del giocatore del Cosenza morto misteriosamente nel 1989. E' proprio il procuratore capo Franco Giacomantonio, però, a frenare: «Le ferite sono quelle, ma non sono mai emersi fatti che facessero pensare ad un'azione voluta di un soggetto, ad un atto consapevole. Non è stato mai detto allora e non si può affermare oggi».Avato, nella sua perizia riportata dal Quotidiano in edicola oggi, parla di «eviscerazione e disabitazione di tutti gli organi situati nel piccolo bacino». Giacomantonio, però, è prudente sull'ipotesi dell'atto volontario da parte di uno o più assassini: «Le ferite riscontrate sul corpo di Bergamini sono più verosimilmente riconducibili allo schiacciamento subìto dall'addome e dovuto al peso dell'autoarticolato che lo ha investito».
Avato, nella sua relazione, sottolineando che «la causa della morte deve essere riferita all’emorragia iperacuta connessa alla lesione vasale (della vena che passa dall’inguine, ndr)» ha rilevato però «l’assenza di lesioni al capo, al torace, agli arti superiori, alle ginocchia» che il corpo avrebbe dovuto mostrare in caso di investimento da parte di un mezzo pesante. E in un'intervista rilasciata al Quotidiano, anche la cosentina Rosa Maria Gaudio, docente di medicina legale all'università di Ferrara e allieva proprio di Avato, ha dichiarato: «Da medico legale vedo ogni anno decine di morti suicidi, ma non mi è mai capitato nessuno che per uccidersi si sia lanciato sotto un camion; d'impulso per di più».
Sotto questo aspetto, già ieri in realtà il Quotidiano anticipava che anche l'esperto Roberto Testi ha confermato che il calciatore era già privo di vita quando è stato travolto dal camion sotto al quale per anni si è voluto far credere che Denis si fosse suicidato. Secondo Testi il suo corpo inerme era invece già stato adagiato in precedenza sull'asfalto della statale 106. E anche i rilievi dei Ris di Messina sugli effetti personali di Bergamini non hanno trovato traccia del tragico tuffo sotto al camion, descritto per anno come la causa della morte di Denis.
Sull'ipotesi del suicidio è intervenuto oggi anche Gianni Di Marzio che allenò il centrocampista ferrarese a Cosenza: «Ai funerali parlai con il papà di Denis e gli dissi di far eseguire l’autopsia, perchè ero sicuro che un ragazzo così non si poteva suicidare», afferma il tecnico, dicendo di non essere quindi stupito che le perizie ora avrebbero accertato che non si tolse la vita volontariamente. «Quel che mi stupisce – sostiene Di Marzio – è che allora nessuno si accorse di nulla, del martirio che subì quel giovane pieno di vita. È anche questa una cosa che va accertata».
La truffa sulle pay-tv: blitz nel Palermitano
La Guardia di finanza di Bagheria ha scoperto un sistema studiato per decodificare il segnale delle pay per view e dirottarlo verso altri utenti, tramite la rete internet Adsl. 57 i denunciati
PALERMO. Guardavano a basso prezzo Sky, Mediaset Premium e i principali canali a pagamento, con canoni da 15 a 20 euro, a fronte di una spesa che, con abbonamenti regolari, sarebbe stata ben più consistente. La Guardia di finanza di Bagheria (Palermo), nell'ambito dell'operazione denominata "Card Sharing", coordinata dalla Procura di Palermo, ha scoperto un sistema studiato per decodificare il segnale delle pay per view e a dirottarlo verso altri utenti, tramite la rete internet Adsl. 57 i denunciati.
La frode è stata messa in atto da un abitante di Bagheria, insieme a un complice, che in un deposito di mezzi agricoli aveva realizzato un laboratorio usando pc, server e decoder, oltre a varie card Sky e Mediaset Premium. Da un abbonamento regolarmente attivato, il segnale criptato veniva violato e decodificato, in modo da renderlo visibile in chiaro; successivamente, tramite internet, il segnale veniva trasmesso ai decoder utilizzato dai clienti, i quali potevano vedere l'intera programmazione offerta dalle pay-tv.
I finanzieri sono riusciti a risalire ai nomi degli utilizzatori attraverso l'esame degli indirizzi Ip rilevati dai pc trovati nel box dell'ideatore del sistema. Uno dei due ideatori della truffa aveva il compito di procacciare persone alle quali intestare gli abbonamenti regolari, dai quali veniva prelevato e smistato il segnale satellitare. Gli abbonati, solo in alcune circostanze, erano consapevoli. Al pagamento dei canoni mensili provvedevano i componenti del sodalizio, attraverso carte di credito prepagate, anch'esse intestate a persone ignare.
La frode è stata messa in atto da un abitante di Bagheria, insieme a un complice, che in un deposito di mezzi agricoli aveva realizzato un laboratorio usando pc, server e decoder, oltre a varie card Sky e Mediaset Premium. Da un abbonamento regolarmente attivato, il segnale criptato veniva violato e decodificato, in modo da renderlo visibile in chiaro; successivamente, tramite internet, il segnale veniva trasmesso ai decoder utilizzato dai clienti, i quali potevano vedere l'intera programmazione offerta dalle pay-tv.
I finanzieri sono riusciti a risalire ai nomi degli utilizzatori attraverso l'esame degli indirizzi Ip rilevati dai pc trovati nel box dell'ideatore del sistema. Uno dei due ideatori della truffa aveva il compito di procacciare persone alle quali intestare gli abbonamenti regolari, dai quali veniva prelevato e smistato il segnale satellitare. Gli abbonati, solo in alcune circostanze, erano consapevoli. Al pagamento dei canoni mensili provvedevano i componenti del sodalizio, attraverso carte di credito prepagate, anch'esse intestate a persone ignare.
Piano per uccidere il pm Pacifico Un altro arresto a Catania
Nel mirino della squadra mobile Orazio Finocchiaro, 40 anni, figura emergente del clan dei Carateddi. Secondo l'accusa, Finocchiaro, durante la detenzione nel carcere di Udine, con alcuni pizzini aveva ordinato l'assassinio del magistrato per il suo impegno antimafia sulla cosca
CATANIA. Una nuova ordinanza di custodia cautelare per associazione mafiosa è stata notificata in carcere dalla squadra mobile della Questura di Catania a Orazio Finocchiaro, 40 anni, figura emergente del clan dei 'Carateddi', nell'ambito dell'inchiesta sul piano per uccidere il sostituto procuratore della Dda Pasquale Pacifico, che coordina le inchieste sulla cosca Cappello.
Agli atti del fascicolo sono stati acquisiti nuovi elementi di prova rispetto a quelli già contestati nel marzo scorso all'indagato dalla Procura di Messina. Secondo l'accusa, Finocchiaro, durante la detenzione nel carcere di Udine, con alcuni 'pizzini' aveva ordinato l'assassinio del magistrato per il suo impegno antimafia sulla cosca. A rivelare di essere stato incaricato da Finocchiaro di uccidere Pasquale Pacifico è stato l'ex collaboratore di Giustizia Giacomo Cosenza. I messaggi venivano recapitati in carcere grazie a un detenuto comune che faceva da "postino" tra Finocchiaro, sottoposto al 41 bis, e gli esponenti del clan.
Agli atti del fascicolo sono stati acquisiti nuovi elementi di prova rispetto a quelli già contestati nel marzo scorso all'indagato dalla Procura di Messina. Secondo l'accusa, Finocchiaro, durante la detenzione nel carcere di Udine, con alcuni 'pizzini' aveva ordinato l'assassinio del magistrato per il suo impegno antimafia sulla cosca. A rivelare di essere stato incaricato da Finocchiaro di uccidere Pasquale Pacifico è stato l'ex collaboratore di Giustizia Giacomo Cosenza. I messaggi venivano recapitati in carcere grazie a un detenuto comune che faceva da "postino" tra Finocchiaro, sottoposto al 41 bis, e gli esponenti del clan.
Latitante accusato di camorra catturato
Sul veliero nel Golfo
NAPOLI - I Carabinieri del Nucleo Investigativo di Napoli hanno catturato Luigi Felaco, 39enne latitante di Marano Marano di Napoli, ritenuto elemento di vertice del clan camorristico Nuvoletta-Polverino.
Felaco era ricercato dal 20 ottobre 2011, da quando si era dato alla macchia per sfuggire ad un mandato di arresto europeo emesso dall'autorità spagnola, per associazione mafiosa e riciclaggio. I militari dell’Arma lo hanno scovato mentre era a bordo di un veliero bialbero di 18 metri, intestato ad un suo prestanome, ormeggiato a Capo Miseno, intento ad eseguire lavori di manutenzione al natante insieme a 4 ignari operai.
Si ritiene abbia trascorso il periodo alla macchia tra Tenerife e Italia, ove è giunto a bordo dell’imbarcazione prima delle festività di Pasqua e tra pochi giorni sarebbe ripartito alla volta della Spagna.
Dalle attività investigative è emerso che Felaco aveva il delicato compito di reimpiegare ed investire in Spagna, in particolare nell'edilizia e nell’immobiliare, gli ingenti capitali ricavati dalle attività illecite del clan, in particolare traffico di stupefacenti ed estorsioni.
NAPOLI - I Carabinieri del Nucleo Investigativo di Napoli hanno catturato Luigi Felaco, 39enne latitante di Marano Marano di Napoli, ritenuto elemento di vertice del clan camorristico Nuvoletta-Polverino.
Felaco era ricercato dal 20 ottobre 2011, da quando si era dato alla macchia per sfuggire ad un mandato di arresto europeo emesso dall'autorità spagnola, per associazione mafiosa e riciclaggio. I militari dell’Arma lo hanno scovato mentre era a bordo di un veliero bialbero di 18 metri, intestato ad un suo prestanome, ormeggiato a Capo Miseno, intento ad eseguire lavori di manutenzione al natante insieme a 4 ignari operai.
Si ritiene abbia trascorso il periodo alla macchia tra Tenerife e Italia, ove è giunto a bordo dell’imbarcazione prima delle festività di Pasqua e tra pochi giorni sarebbe ripartito alla volta della Spagna.
Dalle attività investigative è emerso che Felaco aveva il delicato compito di reimpiegare ed investire in Spagna, in particolare nell'edilizia e nell’immobiliare, gli ingenti capitali ricavati dalle attività illecite del clan, in particolare traffico di stupefacenti ed estorsioni.
venerdì 20 aprile 2012
Scandalo sanità
Cliniche private quei favori per i Ds
BARI - Chiedevano di far presto. Intervenire prima che una nuova legge chiudesse le porte della sanità pubblica. Rosicchiare una quota di rimborsi ai concorrenti. Accaparrarsi tutte le piccole cliniche. «E che hanno trovato il Texas nella Puglia, questi?», si stupisce Lucia Buonamico, la dirigente regionale che secondo la procura di Bari era il crocevia nel sistema degli accreditamenti: era da lei che passavano tutti gli imprenditori, anche quelli impegnati a cercare una sponda in politica.
Come il giovane Francesco Ritella, che per aprire a Putignano la sua Kentron si attrezza con i Ds. E fa quel che può, annota la Finanza: «Dispone di un appartamento in pieno centro a Roma - a spese della Kentron - gestito dal suo amico Mimmo dei Ds, che a sua volta, sembra lo “amministri” mettendolo a disposizione per il personaggio del momento con la formula “ufficio di rappresentanza”». Mimmo è Mimmo Di Cintio, caposcorta di Massimo D’Alema, il politico cui manda un regalo per il Natale del 2007. A occuparsi del recapito è sempre il fidato Mimmo, ma per sceglierlo, annotano i carabinieri, «Ritella discute con Radogna». Ovvero con Donato Radogna, uno dei più noti commercialisti baresi, incappato nell’inchiesta sulle sentenze tributarie aggiustate e citato nell’indagine sulla Dec dei Degennaro.
In quest’ambito gli investigatori ascoltano (e trascrivono) 32 telefonate di Roberto De Santis, «consulente di impresa e lobbista con molteplici conoscenze nel mondo politico», altro uomo considerato vicino a D’Alema: il 21 dicembre 2007 De Santis e Ritella sono a pranzo insieme alla «Pignata» di Bari con l’ex vicepresidente della Regione, Sandro Frisullo.
In una perquisizione i finanzieri gli trovano «una borsa risultata successivamente di proprietà di Fortunato (Giuseppe Fortunato, segretario particolare di D’Alema al ministero degli Esteri, ndr), ivi contenente documentazione relativa ad un viaggio estero istituzionale dell’allora ministro D’Alema».
Ma non c’è solo Kentron, e non ci sono solo Ritella e i suoi soci. Nelle carte c’è la clinica Padre Pio di Adelfia, il cui titolare Francesco Paolo Pellicani racconta ai pm di essere stato costretto con l’inganno ad assumere la figlia della dirigente dell’assessorato Lucia Buonamico. Poi, quando la ragazza viene licenziata, scatta una ispezione. Rappresaglie? Pellicani pensa di sì, e parla con la Digeronimo anche di quando in assessorato gli tagliavano le quote di rimborso: «Non sapendo a che santi votarmi - mette a verbale -, vado presso un altro assessore che conoscevo, l’assessore Introna, e lo prego di intercedere presso il direttore generale (all’epoca Domeniconi, ndr) se poteva aumentarmi questo tetto, e mi fu aumentato di altri 300mila euro».
La procura ritiene che sulle delibere finite nel mirino abbia molto influito l’ex assessore Alberto Tedesco, al netto delle manovre della Buonamico che - ormai a conoscenza dell’inchiesta - al telefono se la prende con i giornalisti («A pezzi li farei, ignoranti!») e con Tedesco minimizza il proprio ruolo sui posti letto della riabilitazione: «Che ne so del piano! Il pianoforte è stato suonato da altri». Ma la Kentron di Ritella passa in due anni dal cantiere all’accreditamento. Il 27 novembre 2007 la delibera 2033 che autorizza la clinica non viene portata in giunta da Alberto Tedesco (quel giorno è a Roma per impegni istituzionali) ma dall’assessore alla Cultura, Silvia Godelli. Un'altra conferma del fatto che non si poteva perdere tempo.
Giovanni Longo e Massimiliano Scagliarini
BARI - Chiedevano di far presto. Intervenire prima che una nuova legge chiudesse le porte della sanità pubblica. Rosicchiare una quota di rimborsi ai concorrenti. Accaparrarsi tutte le piccole cliniche. «E che hanno trovato il Texas nella Puglia, questi?», si stupisce Lucia Buonamico, la dirigente regionale che secondo la procura di Bari era il crocevia nel sistema degli accreditamenti: era da lei che passavano tutti gli imprenditori, anche quelli impegnati a cercare una sponda in politica.
Come il giovane Francesco Ritella, che per aprire a Putignano la sua Kentron si attrezza con i Ds. E fa quel che può, annota la Finanza: «Dispone di un appartamento in pieno centro a Roma - a spese della Kentron - gestito dal suo amico Mimmo dei Ds, che a sua volta, sembra lo “amministri” mettendolo a disposizione per il personaggio del momento con la formula “ufficio di rappresentanza”». Mimmo è Mimmo Di Cintio, caposcorta di Massimo D’Alema, il politico cui manda un regalo per il Natale del 2007. A occuparsi del recapito è sempre il fidato Mimmo, ma per sceglierlo, annotano i carabinieri, «Ritella discute con Radogna». Ovvero con Donato Radogna, uno dei più noti commercialisti baresi, incappato nell’inchiesta sulle sentenze tributarie aggiustate e citato nell’indagine sulla Dec dei Degennaro.
In quest’ambito gli investigatori ascoltano (e trascrivono) 32 telefonate di Roberto De Santis, «consulente di impresa e lobbista con molteplici conoscenze nel mondo politico», altro uomo considerato vicino a D’Alema: il 21 dicembre 2007 De Santis e Ritella sono a pranzo insieme alla «Pignata» di Bari con l’ex vicepresidente della Regione, Sandro Frisullo.
In una perquisizione i finanzieri gli trovano «una borsa risultata successivamente di proprietà di Fortunato (Giuseppe Fortunato, segretario particolare di D’Alema al ministero degli Esteri, ndr), ivi contenente documentazione relativa ad un viaggio estero istituzionale dell’allora ministro D’Alema».
Ma non c’è solo Kentron, e non ci sono solo Ritella e i suoi soci. Nelle carte c’è la clinica Padre Pio di Adelfia, il cui titolare Francesco Paolo Pellicani racconta ai pm di essere stato costretto con l’inganno ad assumere la figlia della dirigente dell’assessorato Lucia Buonamico. Poi, quando la ragazza viene licenziata, scatta una ispezione. Rappresaglie? Pellicani pensa di sì, e parla con la Digeronimo anche di quando in assessorato gli tagliavano le quote di rimborso: «Non sapendo a che santi votarmi - mette a verbale -, vado presso un altro assessore che conoscevo, l’assessore Introna, e lo prego di intercedere presso il direttore generale (all’epoca Domeniconi, ndr) se poteva aumentarmi questo tetto, e mi fu aumentato di altri 300mila euro».
La procura ritiene che sulle delibere finite nel mirino abbia molto influito l’ex assessore Alberto Tedesco, al netto delle manovre della Buonamico che - ormai a conoscenza dell’inchiesta - al telefono se la prende con i giornalisti («A pezzi li farei, ignoranti!») e con Tedesco minimizza il proprio ruolo sui posti letto della riabilitazione: «Che ne so del piano! Il pianoforte è stato suonato da altri». Ma la Kentron di Ritella passa in due anni dal cantiere all’accreditamento. Il 27 novembre 2007 la delibera 2033 che autorizza la clinica non viene portata in giunta da Alberto Tedesco (quel giorno è a Roma per impegni istituzionali) ma dall’assessore alla Cultura, Silvia Godelli. Un'altra conferma del fatto che non si poteva perdere tempo.
Giovanni Longo e Massimiliano Scagliarini
Tremila euro e un orologio di lusso
Per uccidere l'estorsore del clan rivale
CASERTA - Erano gli ultimi componenti ancora liberi del commando omicida che, nel 2003, assassinarono in maniera cruenta e in pieno centro a Marcianise (Caserta), il ventenne Francesco Sagliocco, estorsore dell'opposto clan dei Piccolo.
Oggi, la Squadra Mobile di Caserta - diretta dal vice questore aggiunto Angelo Morabito - ha arrestato tre esponenti del clan Belforte di Marcianise in esecuzione di altrettante ordinanze di custodia cautelare in carcere emesse al termine di indagini coordinate dalla Procura Distrettuale di Napoli.
L'uccisione di Sagliano avvenne in maniera cruenta e dopo un lungo inseguimento durante il quale i sicari non esitarono a sparare all'impazzata rischiando di fare vittime innocenti. I Belforte ritennero Sagliano «colpevole» di avere chiesto il «pizzo» a imprenditori già da loro taglieggiati per conto dell'opposto clan dei Piccolo. La contesa, tra i Belforte e i Piccolo, delle attività criminali nel comprensorio di Casertano, tra Marcianise e i comuni vicini al capoluogo, risale agli anni '90.
I tre arrestati sono accusati di omicidio, detenzione e porto di armi comuni e da guerra e rapina, reati peraltro aggravati dal metodo mafioso. Gli altri componenti il commando vennero arrestati dalla Squadra Mobile durante precedenti operazioni.
Tremila euro e un orologio di lusso marca Rolex: questa la ricompensa ricevuta da ciascuno dei componenti il commando killer del clan Belforte di Marcianise che, nel 2003, assassinò in maniera cruente e dopo un lungo inseguimento il poco più che ventenne Francesco Sagliano, estorsore dell'opposto clan dei Piccolo.
CASERTA - Erano gli ultimi componenti ancora liberi del commando omicida che, nel 2003, assassinarono in maniera cruenta e in pieno centro a Marcianise (Caserta), il ventenne Francesco Sagliocco, estorsore dell'opposto clan dei Piccolo.
Oggi, la Squadra Mobile di Caserta - diretta dal vice questore aggiunto Angelo Morabito - ha arrestato tre esponenti del clan Belforte di Marcianise in esecuzione di altrettante ordinanze di custodia cautelare in carcere emesse al termine di indagini coordinate dalla Procura Distrettuale di Napoli.
L'uccisione di Sagliano avvenne in maniera cruenta e dopo un lungo inseguimento durante il quale i sicari non esitarono a sparare all'impazzata rischiando di fare vittime innocenti. I Belforte ritennero Sagliano «colpevole» di avere chiesto il «pizzo» a imprenditori già da loro taglieggiati per conto dell'opposto clan dei Piccolo. La contesa, tra i Belforte e i Piccolo, delle attività criminali nel comprensorio di Casertano, tra Marcianise e i comuni vicini al capoluogo, risale agli anni '90.
I tre arrestati sono accusati di omicidio, detenzione e porto di armi comuni e da guerra e rapina, reati peraltro aggravati dal metodo mafioso. Gli altri componenti il commando vennero arrestati dalla Squadra Mobile durante precedenti operazioni.
Tremila euro e un orologio di lusso marca Rolex: questa la ricompensa ricevuta da ciascuno dei componenti il commando killer del clan Belforte di Marcianise che, nel 2003, assassinò in maniera cruente e dopo un lungo inseguimento il poco più che ventenne Francesco Sagliano, estorsore dell'opposto clan dei Piccolo.
Pensionato ucciso durante rapina a Reggio Calabria
Domenico Arillotta è stato ucciso durante una rapina in casa da dei ladri al momento ricercati dagli inquirenti. Il fatto è avvenuto durante la notte nella frazione Pellaro di Reggio Calabria. L'uomo di 82 anni è stato legato con una cinta e soffocato con un cuscino
REGGIO CALABRIA - Un anziano pensionato è stato ucciso durante una rapina subìta in casa. Il crimine è avvenuto durante la scorsa notte. Sul posto sono intervenute le forze dell’ordine per appurare l'accaduto. La vittima è Domenico Arillotta, di 82 anni. L’uomo è stato soffocato con un cuscino dai malviventi che si sono successivamente dileguati a bordo di una Fiat Uno. Il fatto è avvenuto intorno alle 3 nella frazione Pellaro della città calabrese dello Stretto. Le indagini sono svolte dai carabinieri. Il cadavere di Arillotta è stato trovato sul letto. Secondo i primi accertamenti dei carabinieri, il pensionato sarebbe morto soffocato dopo che i ladri, per non farlo gridare, gli avevano posto un cuscino sul viso. Arillotta viveva da solo. I ladri si sono anche impossessati dell’auto del pensionato, con la quale sono fuggiti. I carabinieri sono giunti sul posto, nella frazione Pellaro di Reggio Calabria, dopo essere stati avvertiti da alcuni parenti di Arillotta, che vivono in un’abitazione vicina a quella dell’anziano e che avevano avvertito alcuni rumori. Gli stessi familiari avevano anche notato alcune persone che si allontanavano frettolosamente dalla zona. Arillotta, immobilizzato con una cintura, è stato anche colpito alla testa con un corpo contundente. L’abitazione dell’anziano è stata messa a soqquadro dai ladri, che si sono impossessati, secondo i rilievi eseguiti dai carabinieri della Sezione investigazioni scientifiche, di alcuni oggetti di scarso valore. I posti di blocco istituiti nel tentativo d’intercettare la fuga dei rapinatori non hanno dato esito. La Procura della Repubblica di Reggio Calabria ha disposto l'autopsia sul corpo dell’anziano
REGGIO CALABRIA - Un anziano pensionato è stato ucciso durante una rapina subìta in casa. Il crimine è avvenuto durante la scorsa notte. Sul posto sono intervenute le forze dell’ordine per appurare l'accaduto. La vittima è Domenico Arillotta, di 82 anni. L’uomo è stato soffocato con un cuscino dai malviventi che si sono successivamente dileguati a bordo di una Fiat Uno. Il fatto è avvenuto intorno alle 3 nella frazione Pellaro della città calabrese dello Stretto. Le indagini sono svolte dai carabinieri. Il cadavere di Arillotta è stato trovato sul letto. Secondo i primi accertamenti dei carabinieri, il pensionato sarebbe morto soffocato dopo che i ladri, per non farlo gridare, gli avevano posto un cuscino sul viso. Arillotta viveva da solo. I ladri si sono anche impossessati dell’auto del pensionato, con la quale sono fuggiti. I carabinieri sono giunti sul posto, nella frazione Pellaro di Reggio Calabria, dopo essere stati avvertiti da alcuni parenti di Arillotta, che vivono in un’abitazione vicina a quella dell’anziano e che avevano avvertito alcuni rumori. Gli stessi familiari avevano anche notato alcune persone che si allontanavano frettolosamente dalla zona. Arillotta, immobilizzato con una cintura, è stato anche colpito alla testa con un corpo contundente. L’abitazione dell’anziano è stata messa a soqquadro dai ladri, che si sono impossessati, secondo i rilievi eseguiti dai carabinieri della Sezione investigazioni scientifiche, di alcuni oggetti di scarso valore. I posti di blocco istituiti nel tentativo d’intercettare la fuga dei rapinatori non hanno dato esito. La Procura della Repubblica di Reggio Calabria ha disposto l'autopsia sul corpo dell’anziano
Mafia ed estorsioni, colpo alla cosca di Barcellona
Il blitz dei carabinieri nel Messinese ha portato all’arresto di otto persone. Tra i destinatari un esponente di rilievo del clan locale e alcune nuove leve
BARCELLONA POZZO DI GOTTO. I carabinieri hanno eseguito otto ordinanze di custodia cautelare in carcere nei confronti di presunti esponenti del clan mafioso di Barcellona Pozzo di Gotto. Gli indagati - che devono rispondere, a vario titolo, di associazione mafiosa, estorsione, violenza privata, lesioni e danneggiamento - sono ritenuti responsabili di una serie di estorsioni nei confronti di alcuni commercianti messe a segno tra l'agosto 2011 e il gennaio scorso.
Il provvedimento è stato emesso dal Gip del Tribunale di Messina, su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia e dalla Procura di Barcellona Pozzo di Gotto. Tra i destinatari della misura cautelare, oltre ad un esponente di rilievo della cosca di Barcellona, vi sono alcune "nuove leve", rappresentate dai figli di alcuni elementi di spicco del clan attualmente detenuti.
Il provvedimento è stato emesso dal Gip del Tribunale di Messina, su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia e dalla Procura di Barcellona Pozzo di Gotto. Tra i destinatari della misura cautelare, oltre ad un esponente di rilievo della cosca di Barcellona, vi sono alcune "nuove leve", rappresentate dai figli di alcuni elementi di spicco del clan attualmente detenuti.
L'analisi del perito: "Falsificato il documento contro marò"
Il verbale della perizia sui proiettili con cui la magistratura indiana accusa i fucilieri di Marina, Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, di avere ucciso due pescatori indiani sarebbe stato “grossolanamente falsificato”. A sostenerlo è l’ingegnere Luigi Di Stefano, già perito per il disastro di Ustica. Come rivela Il Resto del Carlino, l’esperto ha smontato pezzo per pezzo il documento dei giudici indiani in cui si associano i proiettili alle vittime, il 45enne Valentine Jelestine e il 19enne Ajeesh Pink, colpiti rispettivamente alla testa e al cuore. Il testo originale sarebbe stato cancellato e quindi sovrascritto con una seconda macchina da scrivere.
Il giurista: Soltanto la Germania può “liberare” i marò
Nelle frasi relative ad Ajeesh Pink comparirebbero persino dei residui del documento autentico sotto quello manipolato. Il testo è infatti allineato a sinistra, ma il nome della vittima e la data compaiono sulla destra, e lo stesso avviene nel punto relativo al proiettile che ha colpito Jelestine alla testa. Di Stefano ha analizzato i fermo immagine dei video trasmessi dalla Rai, osservando che l’indicazione del mese passa da Cr No. 02/12 a Cr. No: 02/12. Dettagli, se si pensa che a cambiare è soprattutto il calibro dei proiettili. La dimensione di quelli originali, rilevati dal professor Sisikala, autore dell’autopsia, era pari a 7 e 62 per 54 con una lunghezza di 31 millimetri.
L’ex ministro Frattini: L’Europa fermi le violazioni dell’India al diritto internazionale
La seconda trascrizione riporta però un calibro 5,56, cioè la misura delle pallottole in dotazione alla Marina e all’Esercito italiano. Mentre il calibro dei proiettili originali è identico a quelli del mitra Pk di fabbricazione sovietica, utilizzato per esempio dalla Guardia costiera dello Sri Lanka. Infine foto e filmati mostrano che i vetri del peschereccio Saint Anthony, sul quale si trovavano le vittime, sono misteriosamente intatti.
Il giurista: Soltanto la Germania può “liberare” i marò
Nelle frasi relative ad Ajeesh Pink comparirebbero persino dei residui del documento autentico sotto quello manipolato. Il testo è infatti allineato a sinistra, ma il nome della vittima e la data compaiono sulla destra, e lo stesso avviene nel punto relativo al proiettile che ha colpito Jelestine alla testa. Di Stefano ha analizzato i fermo immagine dei video trasmessi dalla Rai, osservando che l’indicazione del mese passa da Cr No. 02/12 a Cr. No: 02/12. Dettagli, se si pensa che a cambiare è soprattutto il calibro dei proiettili. La dimensione di quelli originali, rilevati dal professor Sisikala, autore dell’autopsia, era pari a 7 e 62 per 54 con una lunghezza di 31 millimetri.
L’ex ministro Frattini: L’Europa fermi le violazioni dell’India al diritto internazionale
La seconda trascrizione riporta però un calibro 5,56, cioè la misura delle pallottole in dotazione alla Marina e all’Esercito italiano. Mentre il calibro dei proiettili originali è identico a quelli del mitra Pk di fabbricazione sovietica, utilizzato per esempio dalla Guardia costiera dello Sri Lanka. Infine foto e filmati mostrano che i vetri del peschereccio Saint Anthony, sul quale si trovavano le vittime, sono misteriosamente intatti.
giovedì 19 aprile 2012
Morosini, in 5mila per l'ultimo saluto
Lacrime e commozione al funerale A Bergamo le esequie del calciatore di 25 anni morto durante Pescara-Livorno. Prandelli: il calcio deve porsi delle domande
BERGAMO - Bergamo si ferma per i funerali di Piermario Morosini, e un velo di profonda tristezza avvolge la città che commemora il calciatore di 25 anni morto durante sabato scorso la partita di serie B Pescara-Livorno. Il feretro di Morosini è stato trasportato dai suoi amici fuori dalla chiesa accompagnato da un lunghissimo applauso, tra le lacrime e gli abbracci tra amici, familiari e don Luciano Manenti, che ha celebrato il funerale. Una folla di migliaia di tifosi all'esterno, in cui si mischiano i colori delle squadre in cui ha giocato Morosini (Livorno, Pescara, Atalanta, Vicenza e Udinese). Gli ultras hanno acceso fumogeni e intonato cori, facendo sentire la loro presenza.
Oltre cinquemila tifosi erano arrivati già in nottata per poter dare l'ultimo saluto a Piermario Morosini. Nella chiesa amici e familiari della chiesa di San Gregorio Barbarigo si sono stretti nella commozione. C'è anche Anna, la fidanzata di Piermario. La folla all'esterno che segue il funerale dall'esterno su dei maxischermi è enorme.
La madre della fidanzata. «Abbiamo perso un figlio e un fratello, il dolore è grande ma sappiamo che non ci vuoi tristi ma con il sorriso, quel sorriso che illuminava sempre tuo viso»: è questo il ricordo di Mariella Vavassori, la madre di Anna, fidanzata di Piermario Morosini, nel corso del funerale del giovane giocatore del Livorno. «Ciao Mario, ti ringraziamo della presenza nella nostra vita - ha detto Mariella Vavassori - ci hai insegnato tanto, hai reso i nostri cuori più veri e leali, liberi come eri tu». «Ti ringraziamo per aver donato tanto tanto amore alla nostra Anna - ha concluso - ti chiedo solo un favore, chiamami Mariella e non più signora, almeno quando mi chiamerai dal cielo».
«Piermario, Piermario». Un centinaio di ultras dell'Atalanta scandiscono il nome di Morosini e applaudono a lungo quando di fronte alla chiesa di Monterosso arrivano i pullman con a bordo le squadre di Atalanta e Udinese, due delle squadre dove ha militato il centrocampista morto sabato scorso.
L'omelia. «Dolce amico mio, timido compagno mio, ripartiamo da te»: inizia con queste parole l'omelia di don Luciano Manenti. Morosini è «venuto dalla terra e noi siamo uomini di terra qui». A Morosini bisogna solo dire grazie, aggiunge, «ma saresti tu il primo a dirci che questo grazie va girato alla gente che ti ha cresciuto e quindi alla tua mamma e al tuo papà. Senza di loro tu non saresti tu e noi non saremmo noi». Don Luciano chiude la sua omelia con un ultimo ringraziamento a Piermario. «Ti ringrazio perché in questi giorni mi hai insegnato a essere papà e ho capito di più cosa vuol dire che Dio è nostro papà». Poi un lungo applauso, fuori e dentro la chiesa, mentre don Luciano scende dal pulpito per andare ad abbracciare i parenti di Morosini.
Prandelli. «Di fronte a questa tragedia il calcio deve porsi degli interrogativi. Medicina sportiva e prevenzione in Italia sono all'avanguardia, ma si può migliorare», ha detto il ct della Nazionale Cesare Prandelli al termine dei funerali. Nel giorno dei suoi funerali, Piermario Morosini «ha fatto il miracolo di unire tutte le bandiere che durante la settimana e a ogni partita di calcio sono una contro l'altra», ha aggiunto il ct della Nazionale, sottolineando che Morosini «ha insegnato che si può affrontare le difficoltà della vita sempre con il sorriso».
Cinquecento i posti nella chiesa, di cui duecento riservati agli esponenti delle società sportive. In chiesa arrivano corone di fiori tra la commozione generale. Sulla scalinata ci sono tante bandiere, soprattutto quelle della curva nord dell'Atalanta. Fotografie, immagini, striscioni sono stati messi lungo tutto il percorso che porta alla chiesa. In chiesa anche i vertici del calcio italiano, da Giancarlo Abete presidente della Figc, a Maurizio Beretta numero uno della Lega calcio. Ci sono anche il ct della nazionale, Cesare Prandelli, e quello dell'Under 21, Ciro Ferrara. Come loro sono entrati in silenzio anche l'amministratore delegato dell'Inter Ernesto Paolillo, il direttore sportivo del Milan Ariedo Braida, l'amministratore delegato della Juventus Beppe Marotta, l'allenatore del Parma Roberto Donadoni, il presidente della Lega Pro Mario Macalli e Bernd Fisa, collaboratore del presidente della Fifa Joseph Blatter. Presente anche l'Atalanta al completo.
BERGAMO - Bergamo si ferma per i funerali di Piermario Morosini, e un velo di profonda tristezza avvolge la città che commemora il calciatore di 25 anni morto durante sabato scorso la partita di serie B Pescara-Livorno. Il feretro di Morosini è stato trasportato dai suoi amici fuori dalla chiesa accompagnato da un lunghissimo applauso, tra le lacrime e gli abbracci tra amici, familiari e don Luciano Manenti, che ha celebrato il funerale. Una folla di migliaia di tifosi all'esterno, in cui si mischiano i colori delle squadre in cui ha giocato Morosini (Livorno, Pescara, Atalanta, Vicenza e Udinese). Gli ultras hanno acceso fumogeni e intonato cori, facendo sentire la loro presenza.
Oltre cinquemila tifosi erano arrivati già in nottata per poter dare l'ultimo saluto a Piermario Morosini. Nella chiesa amici e familiari della chiesa di San Gregorio Barbarigo si sono stretti nella commozione. C'è anche Anna, la fidanzata di Piermario. La folla all'esterno che segue il funerale dall'esterno su dei maxischermi è enorme.
La madre della fidanzata. «Abbiamo perso un figlio e un fratello, il dolore è grande ma sappiamo che non ci vuoi tristi ma con il sorriso, quel sorriso che illuminava sempre tuo viso»: è questo il ricordo di Mariella Vavassori, la madre di Anna, fidanzata di Piermario Morosini, nel corso del funerale del giovane giocatore del Livorno. «Ciao Mario, ti ringraziamo della presenza nella nostra vita - ha detto Mariella Vavassori - ci hai insegnato tanto, hai reso i nostri cuori più veri e leali, liberi come eri tu». «Ti ringraziamo per aver donato tanto tanto amore alla nostra Anna - ha concluso - ti chiedo solo un favore, chiamami Mariella e non più signora, almeno quando mi chiamerai dal cielo».
«Piermario, Piermario». Un centinaio di ultras dell'Atalanta scandiscono il nome di Morosini e applaudono a lungo quando di fronte alla chiesa di Monterosso arrivano i pullman con a bordo le squadre di Atalanta e Udinese, due delle squadre dove ha militato il centrocampista morto sabato scorso.
L'omelia. «Dolce amico mio, timido compagno mio, ripartiamo da te»: inizia con queste parole l'omelia di don Luciano Manenti. Morosini è «venuto dalla terra e noi siamo uomini di terra qui». A Morosini bisogna solo dire grazie, aggiunge, «ma saresti tu il primo a dirci che questo grazie va girato alla gente che ti ha cresciuto e quindi alla tua mamma e al tuo papà. Senza di loro tu non saresti tu e noi non saremmo noi». Don Luciano chiude la sua omelia con un ultimo ringraziamento a Piermario. «Ti ringrazio perché in questi giorni mi hai insegnato a essere papà e ho capito di più cosa vuol dire che Dio è nostro papà». Poi un lungo applauso, fuori e dentro la chiesa, mentre don Luciano scende dal pulpito per andare ad abbracciare i parenti di Morosini.
Prandelli. «Di fronte a questa tragedia il calcio deve porsi degli interrogativi. Medicina sportiva e prevenzione in Italia sono all'avanguardia, ma si può migliorare», ha detto il ct della Nazionale Cesare Prandelli al termine dei funerali. Nel giorno dei suoi funerali, Piermario Morosini «ha fatto il miracolo di unire tutte le bandiere che durante la settimana e a ogni partita di calcio sono una contro l'altra», ha aggiunto il ct della Nazionale, sottolineando che Morosini «ha insegnato che si può affrontare le difficoltà della vita sempre con il sorriso».
Cinquecento i posti nella chiesa, di cui duecento riservati agli esponenti delle società sportive. In chiesa arrivano corone di fiori tra la commozione generale. Sulla scalinata ci sono tante bandiere, soprattutto quelle della curva nord dell'Atalanta. Fotografie, immagini, striscioni sono stati messi lungo tutto il percorso che porta alla chiesa. In chiesa anche i vertici del calcio italiano, da Giancarlo Abete presidente della Figc, a Maurizio Beretta numero uno della Lega calcio. Ci sono anche il ct della nazionale, Cesare Prandelli, e quello dell'Under 21, Ciro Ferrara. Come loro sono entrati in silenzio anche l'amministratore delegato dell'Inter Ernesto Paolillo, il direttore sportivo del Milan Ariedo Braida, l'amministratore delegato della Juventus Beppe Marotta, l'allenatore del Parma Roberto Donadoni, il presidente della Lega Pro Mario Macalli e Bernd Fisa, collaboratore del presidente della Fifa Joseph Blatter. Presente anche l'Atalanta al completo.
Inchiesta su migliaia di libri antichi spariti
Sequestrata la biblioteca dei Girolamini
Indagato per peculato il direttore De Caro Il ministro Ornaghi: il direttore si è autosospeso dall'incarico
NAPOLI - La storica biblioteca dei Girolamini in via Duomo a Napoli è stata sequestrata dai carabinieri del Nucleo tutela patrimonio artistico, su disposizione della Procura di Napoli. Il sequestro rientra nell'ambito dell'inchiesta sul furto di migliaia di volumi antichi denunciato nei giorni scorsi dal direttore Marino Massimo De Caro. Sulla gestione della biblioteca è in atto da tempo una polemica tra studiosi con pesanti accuse allo stesso De Caro che l'interessato ha respinto seccamente.
Indagato il direttore De Caro. Il direttore della Biblioteca dei Girolamini, Marino Massimo De Caro, è indagato per peculato nell'ambito dell'inchiesta sul furto di migliaia di volumi condotta dalla procura di Napoli. Nelle scorse ore i carabinieri hanno compiuto numerose perquisizioni sia nell'abitazione veneta di De Caro, sia nella foresteria interna al complesso dei Girolamini, di cui il direttore si serve insieme alla segretaria, sia nell'alloggio di Don Marsano. A quanto si è appreso sono stati ritrovati numerosi libri antichi, alcuni dei quali potrebbero provenire dalla biblioteca. Gli investigatori hanno anche acquisito alcuni filmati delle telecamere di sorveglianza e sentito diverse persone informate dei fatti, tra cui il docente universitario Tomaso Montanari, promotore della petizione con circa 2 mila firme rivolta al ministro Ornaghi per ottenere l'allontanamento di De Caro dalla biblioteca.
Ornaghi: De Caro si è autosospeso. Il direttore della Biblioteca dei Girolamini Massimo De Caro «si è autosospeso dall'incarico fino al completamento di ogni indagine». Ne dà notizia il ministro dei beni culturali Lorenzo Ornaghi rispondendo alla Camera ad una interrogazione presentata dal Pd. Nella sua risposta Ornaghi ha anche sottolineato che la nomina del direttore della storica Biblioteca non dipende dal ministero bensì dalla Congregazione religiosa che la gestisce.
La lettera con la quale il direttore De Caro si è autosospeso, ha precisato Ornaghi, è del 17 aprile 2012. A nominare De Caro, in deroga all'articolo dello statuto della biblioteca che imporrebbe l'obbligo di affidare quel ruolo ad un religioso, secondo quanto ha sottolineato il ministro, il Conservatore della Congregazione, Sandro Manzano, in seguito alle dimissioni del precedente direttore Alberto Bianco, primo laico a svolgere quelle funzioni. Il ministero, attraverso il direttore generale per le arti e il paesaggio Maurizio Fallace, si è limitata a «prendere atto della nomina».
Quanto al rapporto di consulenza che lega De Caro al Mibac, Ornaghi ha precisato che si tratta di una consulenza decisa dal suo predecessore (Galan ndr), che lui si è limitato a confermare. Il ministro ha quindi riferito di una serie di ispezioni che il ministero ha fatto negli anni alla Biblioteca. Da queste ispezioni, ha detto, sarebbero emerse «gravi inadempienze» nella contabilità e nella custodia dei libri. Oggi, ha ricordato Ornaghi ai parlamentari, il sequestro conservativo ordinato dalla procura di Napoli ed eseguito dai carabinieri, con l'affido della custodia a Mauro Giancaspro, professore all'università di Napoli. «Attendiamo sereni - ha concluso Ornaghi - l'esito delle indagini».
La videosorveglianza. Secondo quanto si apprende, la denuncia sarebbe stata presentata dai dipendenti della biblioteca. Al centro della denuncia ci sarebbero le immagini del sistema di videosorveglianza. Alcuni libri, come dimostrerebbero i video, sono stati inscatolati e portati all'esterno della biblioteca. Secondo il direttore, però, i volumi sono stati inseriti nelle scatole e succcessivamente portati all'esterno della struttura a causa di alcuni lavori interni alle sale della biblioteca.
Il decreto di sequestro della biblioteca dei Girolamini a Napoli è stato emesso in via d'urgenza «al fine - si legge in un comunicato a firma del procuratore aggiunto Giovanni Melillo e del procuratore facente funzioni Alessandro Pennasilico - di preservare l'integrità del materiale letterario di enorme valore custodito nella struttura». Il direttore della Biblioteca nazionale Vittorio Emanuele III, si legge ancora nella nota, è stato contestualmente nominato custode della biblioteca dei Girolamini.
Rinviata la conferenza stampa organizzata per questa mattina dai responsabili della biblioteca dei Girolamini. Annullata anche la "giornata di verità" che prevedeva una visita alla biblioteca aperta alla cittadinanza. «Siamo tranquilli - ha detto un seminarista della Congregazione dell'Oratorio, proprietaria della storica biblioteca - il sequestro è la conseguenza della denuncia presentata dal direttore Massimo Massimo De Caro ai carabinieri sulla sparizione di centinaia di volumi». Piccolo gruppi di visitatori sono stati ammessi all'interno del chiostro e della quadreria del complesso monumentale.
La libreria è stata a lungo frequentata da Giambattista Vico. È una delle più antiche, aperta dal 1586 con libri rarissimi. La Biblioteca dei Girolamini a Napoli, oggi sequestrata su disposizione della Procura che intende vederci chiaro su un furto di migliaia di volumi antichi, aperta nel 1586 è uno stupendo scrigno di ricchezze artistiche, oltre che per la monumentale presenza libraria, per le quattro stupende sale settecentesche.
La Biblioteca, che dipende dal Ministero per i Beni culturali, è annessa al Monumento nazionale dei Girolami contiene circa 160 mila volumi, tra cui 5000 edizioni del Cinquecento, 10 mila edizioni rare e di pregio, ed è stata arricchita negli anni grazie all'acquisizione di diversi Fondi librari. Si tratta di una delle biblioteche più specializzate in testi di Teologia cristiana e Filosofia.
Casalesi, rubata la mano d'oro dalla tomba di don Diana
Rubate le ostie nella sua parrocchia La Dda: «È un furto gravissimo, qualunque ne sia la matrice»
CASERTA - Ignoti hanno rubato la mano d'oro posta sulla tomba a Casal di Principe a ricordo di don Giuseppe Diana, il sacerdote ucciso dai casalesi il 19 marzo di 20 anni fa.
Secondo furto. Non solo. In serata si è appreso che i ladri hanno fatto incursione anche nella parocchia dove don Diana esercitava il ministero. Sono scomparse ostie consacrate con il calice e le pissidi. Due furti che sanno di sfregio, per la coincidenza temporale di due episodi che colpiscono la memoria del sacerdote. Si indaga oltre il semplice furto-
Mano d'oro. La mano d'oro, donata nel 2009 da don Ciotti, fu collocata in occasione del 15esimo anniversario dell'uccisione del sacerdote, massacarato con un colpo di pistola alla bocca dai sicari mentre si trovava in sacrestia nel giorno della festa di San Giuseppe. I ladri avrebbero sfondato la porta di ingresso della cappella con un calcio portando via la preziosa mano d'oro.
Gravissimo . «Il furto nella cappella intitolata a don Peppe Diana è gravissimo, qualunque ne sia la matrice. Don Diana infatti è un simbolo di riscatto per una terra martoriata; è una figura che a distanza di 18 anni dà ancora molto fastidio». È quanto ha affermato il pubblico ministero della Dda di Napoli Cesare Sirignano in visita questa mattina all'Istituto Alberghero di Castel Volturno in merito al furto avvenuto nella cappella del cimitero di Casal di Principe dove riposa la salma del prete ucciso dai Casalesi il 19 marzo del 1994.
Il fratello. Parole di condanna anche da Emilio Diana, fratello dell'ex parroco della chiesa di San Nicola di Bari. «Sono cose che non dovrebbero accadere e che io e la mia famiglia condanniamo; è probabile però che siano stati dei ladri comuni a rubare, forse avevano bisogno di soldi in quanto hanno asportato solo la targa d'oro incastonata nel marmo e un calice. C'erano anche altri oggetti di minor valore che non sono stati presi. Ciò che conta comunque è la grande attenzione che c'è attorno alla figura di mio fratello e che noi continueremo a far crescere con numerose iniziative. Ogni giorno tante scolaresche vengono a visitare la cappella; ai ragazzi dobbiamo far capire il senso del suo messaggio».
La targa d'oro a forma di mano del diametro di sette centimetri era stata donata ai familiari di don Diana da don Luigi Ciotti, fondatore di Libera, in occasione del diciassettesimo anniversario della morte di don Diana.
Il dono. Don Ciotti aveva ricevuto il premio, denominato «Follaro d'Oro» dall'associazione Capua Nova ma aveva voluto donarlo ai genitori del prete in segno di riconoscenza. Dai primi accertamenti sembra che il furto sia avvenuto due notti fa in quanto già ieri qualcuno ha notato la porta della cappella aperta ma ha pensato che all'interno si stessero facendo delle pulizie. Stamattina, un militante del comitato Don Diana che stava accompagnando in visita alla cappella alcune scolaresche ha notato che il cancello era aperto contattando immediatamente Emilio Diana; è stato quest'ultimo ad accorgersi che la targa non c'era più.
Coincidenze. «Ma ci sono troppe strane coincidenze - spiega don Franco Picone parlando dei due furti - i ladri mi sembra abbiano voluto fare un gesto doppiamente simbolico: hanno colpito don Diana e la fede cristiana portandosi via le ostie consacrate; di solito rubano le pissidi ma poi gettano le ostie, noi invece non siamo riusciti a trovarle da nessuna parte. Oggi poi è 19 aprile, esattamente 18 anni e un mese dopo il tragico omicidio di don Peppe. Sono indignato e preoccupato».
Tracce. Tracce significative non sono state rinvenute dai carabinieri della compagnia di Casal di Principe: tra l'altro le chiavi del tabernacolo, usate dai ladri per portarsi via le pissidi, sono troppo piccole per potervi trovare impronte digitali. È probabile che i ladri abbiano agito verso le 15, quando don Franco ha aperto la chiesa.
Prima tenta di violentare la 14enne
Mentre porta il cane a spasso, poi all'uscita della palestra: arresto a Pianura
NAPOLI - Gli agenti del commissariato di polizia San Paolo, hanno sottoposto a fermo di polizia giudiziaria S.T., 56enne, gravemente indiziato del reato di violenza sessuale ai danni di una 14enne. Lo scorso 28 marzo, la ragazzina, accompagnata dalla madre, aveva denunciato ai poliziotti la violenza. Da qualche tempo si era accorta che un uomo la seguiva. La sera prima della denuncia, era uscita per portare il cane a fare una passeggiata ed aveva incontrato l'uomo che questa volta l'aveva esplicitamente invitata a seguirla in un luogo appartato. Al suo rifiuto questi l'aveva tirata con forza e trascinata in via Serena, una stradina buia di campagna.
L'intervento di una ragazza che aveva capito cosa stava succedendo ha evitato il peggio. Resosi conto di essere stato scoperto, il 56enne si è dato alla fuga. Grazie alla denuncia ed alla descrizione dell'uomo da parte della minore e della ragazza accorsa in suo aiuto, sono iniziate le indagini per la sua identificazione. Ieri pomeriggio la ragazzina è uscita dalla palestra che abitualmente frequenta, seguita però a distanza da una zia. Come nelle precedenti occasioni l'uomo ha iniziato a seguirla, ma la zia lo ha raggiunto e bloccato. A questo punto sono giunti sul posto i poliziotti che hanno subito raccolto la testimonianza della minore. La 14enne ha infatti riferito che quello bloccato dalla zia era effettivamente quello dei fatti dello scorso 28 marzo. Sul posto è anche arrivata la ragazza che aveva messo l'uomo in fuga ed anche lei ha confermato di riconoscere in lui l'autore della violenza ai danni della 14enne. L'uomo è stato pertanto sottoposto a fermo e subito condotto al carcere di Poggioreale.
NAPOLI - Gli agenti del commissariato di polizia San Paolo, hanno sottoposto a fermo di polizia giudiziaria S.T., 56enne, gravemente indiziato del reato di violenza sessuale ai danni di una 14enne. Lo scorso 28 marzo, la ragazzina, accompagnata dalla madre, aveva denunciato ai poliziotti la violenza. Da qualche tempo si era accorta che un uomo la seguiva. La sera prima della denuncia, era uscita per portare il cane a fare una passeggiata ed aveva incontrato l'uomo che questa volta l'aveva esplicitamente invitata a seguirla in un luogo appartato. Al suo rifiuto questi l'aveva tirata con forza e trascinata in via Serena, una stradina buia di campagna.
L'intervento di una ragazza che aveva capito cosa stava succedendo ha evitato il peggio. Resosi conto di essere stato scoperto, il 56enne si è dato alla fuga. Grazie alla denuncia ed alla descrizione dell'uomo da parte della minore e della ragazza accorsa in suo aiuto, sono iniziate le indagini per la sua identificazione. Ieri pomeriggio la ragazzina è uscita dalla palestra che abitualmente frequenta, seguita però a distanza da una zia. Come nelle precedenti occasioni l'uomo ha iniziato a seguirla, ma la zia lo ha raggiunto e bloccato. A questo punto sono giunti sul posto i poliziotti che hanno subito raccolto la testimonianza della minore. La 14enne ha infatti riferito che quello bloccato dalla zia era effettivamente quello dei fatti dello scorso 28 marzo. Sul posto è anche arrivata la ragazza che aveva messo l'uomo in fuga ed anche lei ha confermato di riconoscere in lui l'autore della violenza ai danni della 14enne. L'uomo è stato pertanto sottoposto a fermo e subito condotto al carcere di Poggioreale.
«Adesso basta», imprenditore getta la spugna
Aveva fatto arrestare i suoi estortori
Un giovane imprenditore di 25 anni, Daniele Stuppia, titolare dell'autosalone Cars Srl, dopo aver denunciato i propri estortori all'ennesimo attentato contro la sua famiglia e il suo autosalone avrebbe deciso di gettare la spugna: «Ora basta non ne posso più, chiudo tutto»
VIBO VALENTIA - «Adesso basta. Non ne posso più. Sono stato costretto a licenziare già quattro dipendenti. Domani chiudo e mi autolicenzio anche io». E' questo l’amaro sfogo di Daniele Stuppia, un giovane di 25 anni, titolare dell’autosalone "Cars Srl" aperto a Vibo Valentia, in seguito all’ennesimo attentato intimidatorio avvenuto stanotte contro la serranda del suo autosalone. L’ultimo di una serie caratterizzata da una vera e propria escalation che ha registrato bombe e richieste di estorsioni con aggressioni fisiche e minacce di morte. Estorsioni che il venticinquenne imprenditore non ha esitato a denunciare facendo agli inquirenti anche i nomi di chi ha tentato di taglieggiarlo in alcuni casi anche facendo arrestare i presunti responsabili.«Giorni addietro – afferma ancora l'uomo – la testa mozzata di un cane chiusa in un sacco assieme ad alcune cartucce di fucile contenute in un guanto di lattice, è stata depositata dinnanzi all’ingresso di casa mia. Prima ancora l’uccisione di un cavallo, la distruzione, con una bomba, della mia casa che, una volta ricostruita, è stata anche incendiata. Infine l'incendio del parco macchine. Ma la cosa che più mi scoraggia – spiega ancora il giovane – è che dopo che le forze dell’ordine li mettono in galera, dopo pochi giorni i delinquenti sono nuovamente fuori e continuano come se nulla fosse a perseguitarmi mettendo in pericolo me e la mia famiglia. E mentre io ed i miei anziani genitori stiamo crepando, loro continuano nella loro criminale carriera. Un qualcosa insomma che fa a pugni con quanto denunciato dalle autorità giudiziarie: Vale a dire che i cittadini non collaborano e non denunciano. E quando lo fanno? È la morte civile ed economica e - conclude laconicamente Stuppia - non sai più dove sbattere la testa».
Le sedi dell'impresa sono videosorvegliate, con estrema probabilità, dunque, i filmati saranno acquisiti dagli inquirenti per verificare se è possibile trarre elementi utili ai fini delle indagini aperte sulle intimidazioni.
Il 30 dicembre dello scorso anno è stato fatto anche un attentato contro il panificio industriale sempre di proprietà della famiglia Stuppia. «Sono nel mirino di queste persone – dice ancora Stuppia – e non posso più sostenere questa situazione. Servono provvedimenti concreti. Chi mi perseguita è libero ed io vivo nell’inferno. Forse sarebbe stato meglio se avessi pagato quanto mi era stato chiesto. Voglio andarmene all’estero perchè in Italia non si capisce più nulla».
Iscriviti a:
Post (Atom)