Questo blog di notorietà internazionale, per protesta contro uno “Stato Latitante” non verrà aggiornato.
martedì 30 ottobre 2012
Notaio evasore totale scoperto seguendo gli atti che firmava
TERZIGNO - Notaio occulta compensi per oltre un milione e mezzo di euro, evitando di presentare dichiarazioni dei redditi per ben due anni. Ma la truffa ai danni dell'erario è scoperta dalla Guardia di Finanza di Ottaviano, grazie agli atti firmati dal professionista, che gli sequestrano in via preventiva 365mila euro.
L'ordinanza di sequestro è stata emessa dal gip del tribunale di Nola, a seguito di indagini che hanno consentito di accertare un'evasione fiscale totale per due anni, quando il professionista di Terzigno, che opera nei paesi vesuviani, avrebbe occultato compensi per quasi un milione e 600mila euro.
Il volume d'affari del notaio, è stato ricostruito grazie ai registri di repertori mortis causa e inter vivos, ed il registro dei protesti, risalendo agli atti del professionista.
Gli inquirenti, quindi, hanno proceduto ad accertamenti patrimoniali, individuando non solo un cospicuo patrimonio immobiliare, intestato a stretti familiari, ma anche conti correnti intestati a terzi.
Danno da 12 milioni
la Corte dei Conti cita in giudizio l'ex assessore Ganapini
NAPOLI - L'ex assessore all'Ambiente della Regione Campania Walter Ganapini e tre dirigenti regionali sono stati citati in giudizio dalla Corte dei Conti, che attribuisce loro un danno all'ente di circa 12 milioni per la cattiva gestione dei depuratori. In particolare , secondo la magistratura contabile, non sono mai state riscosse le sanzioni erogate per varie irregolarità alle società che gestivano gli impianti di depurazione; un migliaio i verbali relativi al periodo 2002-2005 lasciati prescrivere.
Gli accertamenti sono stati compiuti dal Nucleo regionale di polizia tributaria della Guardia di Finanza, che ha calcolato in 12 milioni 108 mila 115 euro il danno.
La Corte dei Conti ha dunque disposto il sequestro conservativo di beni per tale ammontare nei confronti di Ganapini, degli ex coordinatori dell'Area generale tutela ambiente Mario Lupacchini e Luigi Rauci nonchè del dirigente del Settore ciclo integrato delle acque Generoso Schiavone.
L'udienza è fissata per il 29 novembre davanti al giudice Marzia De Falco.
NAPOLI - L'ex assessore all'Ambiente della Regione Campania Walter Ganapini e tre dirigenti regionali sono stati citati in giudizio dalla Corte dei Conti, che attribuisce loro un danno all'ente di circa 12 milioni per la cattiva gestione dei depuratori. In particolare , secondo la magistratura contabile, non sono mai state riscosse le sanzioni erogate per varie irregolarità alle società che gestivano gli impianti di depurazione; un migliaio i verbali relativi al periodo 2002-2005 lasciati prescrivere.
Gli accertamenti sono stati compiuti dal Nucleo regionale di polizia tributaria della Guardia di Finanza, che ha calcolato in 12 milioni 108 mila 115 euro il danno.
La Corte dei Conti ha dunque disposto il sequestro conservativo di beni per tale ammontare nei confronti di Ganapini, degli ex coordinatori dell'Area generale tutela ambiente Mario Lupacchini e Luigi Rauci nonchè del dirigente del Settore ciclo integrato delle acque Generoso Schiavone.
L'udienza è fissata per il 29 novembre davanti al giudice Marzia De Falco.
Si è costituito il consigliere provinciale accusato a Cosenza della truffa all'Inps
Antonio Carmine Caravetta era irreperibile dopo essere stato colpito da un'ordinanza di custodia cautelare in carcere lo scorso 19 ottobre, quando furono effettuati quindici arresti e sequestrati 66 milioni di euro di beni. Secondo l'accusa è accusato di avere sfruttato il patronato Epas di Schiavonea di Corigliano Calabro di cui, negli anni scorsi, ha avuto la gestione di fatto
COSENZA - Si è costituito alla guardia di finanza, a Rossano, il consigliere provinciale di Cosenza Antonio Carmine Caravetta, ricercato nell’ambito di un’inchiesta su una truffa all’Inps da 11 milioni di euro che il 19 ottobre scorso ha portato a 15 arresti ed al sequestro di beni per 66 milioni di euro. Caravetta, in quei giorni, si trovava in vacanza all’estero e dopo essere tornato in Italia si è presentato oggi ai finanzieri insieme al suo avvocato, Giovanni Zagarese. Caravetta, così come gli altri indagati, è stato posto ai domiciliari.
L’esponente politico, espulso dall’Udc dopo che è emerso il suo coinvolgimento nell’inchiesta, è accusato di avere sfruttato il patronato Epas di Schiavonea di Corigliano Calabro di cui, negli anni scorsi, ha avuto la gestione di fatto (Caravetta non era più responsabile da 3 anni), per distribuire indennità di disoccupazione, di malattia e di maternità in cambio di voti alle elezioni del 2009 per il rinnovo del Consiglio provinciale di Cosenza e del Comune di Corigliano Calabro, consultazioni al termine delle quali è risultato eletto. Al Comune Caravetta era in maggioranza, ma l’ente è stato poi sciolto per infiltrazioni mafiose nell’estate del 2011.
Prestanome per coprire le truffe di un autosalone
A Corigliano scatta un sequestro da 750 mila euro
A giugno sono scattati gli arresti, ora la Guardia di finanza ha messo i sigilli a due ville di lusso ritenute riconducibili all'amministratore di una rivendita di autoveicoli accusato di aver fatto sparire liquidità dalle casse della società e di aver evaso le tasse e l'iva
COSENZA – Dopo gli arresti ed i sequestri operati lo scorso mese di giugno, nei confronti di un noto commerciante di autoveicoli di Corigliano Calabro a cui il gip del tribunale di Rossano ha contestato i reati di bancarotta fraudolenta, truffa e falso, i finanzieri della tenenza di Corigliano Calabro hanno apposto i sigilli a due ville di lusso riconducibili allo stesso imprenditore benchè formalmente intestate a terzi. Gli immobili, del valore complessivo di 750 mila euro allo scopo di mascherarne l'effettiva proprietà, erano infatti stati intestati a prestanome.
Le indagini della Guardia di finanza hanno però dimostrato la riconducibilità dei al legale rappresentante della società, Pietro Russo, di 48 anni, attualmente detenuto. Le Fiamme Gialle, a conclusione di una verifica fiscale nei confronti della «Autorusso» s.r.l. con sede a Corigliano Calabro, hanno accertato un’evasione di base imponibile per oltre tre milioni e mezzo di euro, di iva per circa seicentomila euro e la «sottrazione sistematica e continuata» di liquidità dalle casse della società, per finanziare investimenti immobiliari di pregio. Dopo una serie di accertamenti sui documenti contabili ed i conti bancari dell’impresa, è stata inoltrata una comunicazione di notizia di reato alla procura della Repubblica di Rossano, accompagnata dal la proposta di sequestro preventivo, finalizzato alla confisca per equivalente, di due ville bifamiliari di lusso, edificate proprio con i soldi sottratti all’attività dell’impresa.
Un pentito: i soldi dei boss nelle attività di Berlusconi
Lo ha raccontato il pentito Gaetano Grado deponendo, nell'aula bunker del carcere romano di Rebibbia, al processo d'appello per concorso in associazione mafiosa al senatore del Pdl Marcello Dell'Utri
PALERMO. Negli anni '70 un flusso di denaro proveniente dai traffici di droga di Cosa nostra sarebbe stato investito nelle attività economiche «Milano 1 e Milano 2», di Silvio Berlusconi. Lo ha raccontato il pentito Gaetano Grado deponendo, nell'aula bunker del carcere romano di Rebibbia, al processo d'appello per concorso in associazione mafiosa al senatore del Pdl Marcello Dell'Utri.
Grado, citato dal procuratore generale dopo essere stato interrogato dai pm di Palermo ad agosto, ha anche parlato dei rapporti tra il boss Vittorio Mangano, poi assunto nella villa di Arcore dell'ex premier come stalliere, e Dell'Utri. «Mangano mi rispettava e chiese a me il permesso di andare ad Arcore a lavorare. So che a interessarsi per farlo andare lì erano stati Tanino Cinà (altro capomafia ndr) e Dell'Utri. Dei viaggi a Milano di Mangano, che avrebbe portato i soldi del narcotraffico accumulati dalle famiglie mafiose a Dell'Utri perchè li investisse nelle attività di Berlusconi, Grado avrebbe saputo dallo stesso »stalliere« e dal fratello Antonino. Il pentito, che solo nel 2012 ha parlato della vicenda, nonostante più volte sia stato sentito dai pm, non ha saputo indicare, però, circostanze più precise: »quando si trattava di droga - ha detto - non facevo domande perchè la cosa mi ripugnava«.
Il collaboratore ha anche raccontato che nel 1980 i boss, con l'aiuto di Mangano, misero una bomba davanti al cancello della villa di Arcore come atto dimostrativo. Grado lo avrebbe saputo dal boss Stefano Bontade. A conferma dell'attendibilità del pentito la corte ha sentito anche un altro collaboratore di giustizia: l'ex camorrista Bruno Rossi.
Grado, citato dal procuratore generale dopo essere stato interrogato dai pm di Palermo ad agosto, ha anche parlato dei rapporti tra il boss Vittorio Mangano, poi assunto nella villa di Arcore dell'ex premier come stalliere, e Dell'Utri. «Mangano mi rispettava e chiese a me il permesso di andare ad Arcore a lavorare. So che a interessarsi per farlo andare lì erano stati Tanino Cinà (altro capomafia ndr) e Dell'Utri. Dei viaggi a Milano di Mangano, che avrebbe portato i soldi del narcotraffico accumulati dalle famiglie mafiose a Dell'Utri perchè li investisse nelle attività di Berlusconi, Grado avrebbe saputo dallo stesso »stalliere« e dal fratello Antonino. Il pentito, che solo nel 2012 ha parlato della vicenda, nonostante più volte sia stato sentito dai pm, non ha saputo indicare, però, circostanze più precise: »quando si trattava di droga - ha detto - non facevo domande perchè la cosa mi ripugnava«.
Il collaboratore ha anche raccontato che nel 1980 i boss, con l'aiuto di Mangano, misero una bomba davanti al cancello della villa di Arcore come atto dimostrativo. Grado lo avrebbe saputo dal boss Stefano Bontade. A conferma dell'attendibilità del pentito la corte ha sentito anche un altro collaboratore di giustizia: l'ex camorrista Bruno Rossi.
Mafia, confiscati beni per 25 milioni a imprenditore
Vincenzo Pergolizzi, 59 anni, è stato sottoposto alla sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno nel comune di residenza per 4 anni. Sequestrati appartamenti, terreni, automezzi, conti bancari e un'imbarcazione
MESSINA. I carabinieri hanno confiscato beni per circa 25 milioni di euro a Vincenzo Pergolizzi, 59 anni, sottoposto contestualmente alla sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno nel comune di residenza, per la durata di quattro anni. E' la confisca di beni più cospicua registrata nella provincia di Messina. I beni erano stati sequestrati a Pergolizzi nel novembre del 2010.
L'imprenditore era stato accusato di favoreggiamento personale nei confronti di esponenti della criminalità organizzata del catanese e del messinese. In particolare, è emerso che Pergolizzi aveva rapporti con il boss etneo Salvatore Cappello e con il capomafia di Barcellona Pozzo di Gottto Carmelo Vito Foti riuscendo così ad affermarsi sul mercato, nel settore dell'edilizia e del commercio di prodotti della panificazione.
La confisca ha riguardato diverse società; sei appartamenti; quattro terreni; un fabbricato con annesso terreno e due immobili a Messina. Sono stati confiscati anche quattordici
automezzi, tra cui una Cadillac e una Jaguar, un'imbarcazione di oltre 20 metri e 22 conti bancari.
L'imprenditore era stato accusato di favoreggiamento personale nei confronti di esponenti della criminalità organizzata del catanese e del messinese. In particolare, è emerso che Pergolizzi aveva rapporti con il boss etneo Salvatore Cappello e con il capomafia di Barcellona Pozzo di Gottto Carmelo Vito Foti riuscendo così ad affermarsi sul mercato, nel settore dell'edilizia e del commercio di prodotti della panificazione.
La confisca ha riguardato diverse società; sei appartamenti; quattro terreni; un fabbricato con annesso terreno e due immobili a Messina. Sono stati confiscati anche quattordici
automezzi, tra cui una Cadillac e una Jaguar, un'imbarcazione di oltre 20 metri e 22 conti bancari.
lunedì 29 ottobre 2012
Condanne per 113 anni a esponenti clan mafioso agrigentino
Condanne per 113 anni
di Achille Castello
Tredici anni ad Angelo Longo, ritenuto il capo della famiglia mafiosa di Cammarata, nell’Agrigentino. E’ la pena più pesante tra le undici inflitte a conclusione del processo, celebrato con il rito abbreviato, scaturito dal blitz antimafia denominato “Kamarat”.
Complessivamente sono 113 gli anni di pena contenuti nella sentenza pronunciata nella tarda serata di ieri da Gup del Tribunale di Palermo, Giuliano Castiglia. Due invece le assoluzioni.
Longo (nella foto a sinistra), 47 anni, originario di Cammarata, è stato riconosciuto colpevole per il reato di associazione mafiosa, ma è stato assolto dall’accusa di omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo e da altri capi d’imputazione come l’estorsione.
Dieci anni ciascuno a Mariano Gentile, 58 anni, di Castronovo di Sicilia, a Calogero Scozzaro, 53 anni, di Casteltermini, Vincenzo Giovanni Scavetto, 70 anni, di Casteltermini; Francesco Baiamonte, 64 anni, di Casteltermini, a Giovanni Chianetta, 33 anni, di Favara, a Salvatore Vitale Collura, 59 anni, di Castronovo di Sicilia, a Salvatore Costanza, 62 anni, di San Giovanni Gemini, a Giuseppe Di Piazza, 43 anni, di Casteltermini. Diciotto anni (in continuazione con un’altra condanna) a Vincenzo Di Piazza, 71 anni, di Casteltermini; due anni a Giuseppe Salvatore Vaccaro, 42 anni, collaboratore di giustizia di Sant’Angelo Muxaro.
Assolti Salvatore Giambrone, 43 anni, di San Giovanni Gemini e Salvatore Fragapane, 55 anni, di Santa Elisabetta, dall’accusa dell’omicidio di Costantino Lo Sardo. Per quest’ultimo e per Angelo Longo la Direzione distrettuale antimafia di Palermo aveva chiesto l’ergastolo.
Il Gup ha inoltre condannato gli imputati al risarcimento del danno e al pagamento di una provvisionale di 20 mila euro in favore dell’associazione antiracket “Libere Terre”, presieduta dall’imprenditore e testimone di giustizia Ignazio Cutro’, il quale si è costituito parte civile.
Complessivamente sono 113 gli anni di pena contenuti nella sentenza pronunciata nella tarda serata di ieri da Gup del Tribunale di Palermo, Giuliano Castiglia. Due invece le assoluzioni.
Longo (nella foto a sinistra), 47 anni, originario di Cammarata, è stato riconosciuto colpevole per il reato di associazione mafiosa, ma è stato assolto dall’accusa di omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo e da altri capi d’imputazione come l’estorsione.
Dieci anni ciascuno a Mariano Gentile, 58 anni, di Castronovo di Sicilia, a Calogero Scozzaro, 53 anni, di Casteltermini, Vincenzo Giovanni Scavetto, 70 anni, di Casteltermini; Francesco Baiamonte, 64 anni, di Casteltermini, a Giovanni Chianetta, 33 anni, di Favara, a Salvatore Vitale Collura, 59 anni, di Castronovo di Sicilia, a Salvatore Costanza, 62 anni, di San Giovanni Gemini, a Giuseppe Di Piazza, 43 anni, di Casteltermini. Diciotto anni (in continuazione con un’altra condanna) a Vincenzo Di Piazza, 71 anni, di Casteltermini; due anni a Giuseppe Salvatore Vaccaro, 42 anni, collaboratore di giustizia di Sant’Angelo Muxaro.
Assolti Salvatore Giambrone, 43 anni, di San Giovanni Gemini e Salvatore Fragapane, 55 anni, di Santa Elisabetta, dall’accusa dell’omicidio di Costantino Lo Sardo. Per quest’ultimo e per Angelo Longo la Direzione distrettuale antimafia di Palermo aveva chiesto l’ergastolo.
Il Gup ha inoltre condannato gli imputati al risarcimento del danno e al pagamento di una provvisionale di 20 mila euro in favore dell’associazione antiracket “Libere Terre”, presieduta dall’imprenditore e testimone di giustizia Ignazio Cutro’, il quale si è costituito parte civile.
domenica 28 ottobre 2012
Ecco i paradisi dove fuggire e vivere (bene) con una pensione da 1.000 euro
Sempre più anziani si trasferiscono all'estero e non è roba da privilegiati. Dalla Thailandia al Kenya, si può campare dignitosamente senza avere una fortuna
La benzina costa oltre la metà, il cibo è buono e si paga meno che al mercato, i ristoranti sono un'occasione e la sicurezza non è un problema: il giro del mondo delle località più convenienti
Scappare in un paradiso terrestre e vivere felici, da pensionati. Non è roba da ricchi o da privilegiati, anzi l'opposto. Si può vivere (bene) in Kenya o Thailandia, Brasile o Capo Verde spendendo 1.000 euro o poco più al mese. Praticamente, i soldi incassati dall'Inps. Gli italiani all'estero che ogni anno ricevono la loro previdenza sono 400mila. Di questi molti sono con doppia cittadinanza e assenti dallo Stivale da anni. Ma molti hanno seguito la strada della "fuga", che non è solo fiscale ma una scelta di (qualità della) vita. Lo rivela un'inchiesta dell'ultimo numero del settimanale Panorama: secondo il sito specializzato voglioviverecosi.com, le richieste nell'ultimo anno sono aumentate del 40%, sintomo che in Italia la crisi picchia duro e che potendo è meglio andarsene.
La testimonianza - Potendo, appunto. In realtà non si deve essere ricchi per prendere baracca e burattini e trasferirsi oltre Oceano, o semplicemente oltre Mediterraneo. C'è chi, come l'ex dipendente pubblico Ciro Fantini, 70 anni, dice di campare benissimo con una pensione media, da 1.000 euro, in Tunisia: facile, paga il 25% di tasse sul 20% del reddito, un'inezia rispetto a quanto accade da noi. "Questo - spiega - mi permette di recuperare una parte consistente della mia pensione. Sono andato da un cardiologo privato e ho pagato 50 dinari, 25 euro".
Perché scappare - Qualità della vita (benzina che costa la metà e oltre rispetto all'Italia), clima (magari il trasferimento è temporaneo, si vive ai Tropici soltanto nei mesi invernali), cibo (mangiare al ristorante con meno di 5 euro, fare la spesa come nel più conveniente mercato rionale), soprattutto poche tasse e costi del mattone in caduta libera (a differenza della maggior parte delle città italiane) Panorama stila una lista di località da scegliere perché convenienti e sicure, sotto vari punti di vista.
Dove scappare: l'Asia - La Thailandia, innanzitutto: per avere il visto da pensionati basta dimostrare di avere un'entrata fissa mensile e un deposito nel Paese asiatico di 800mila baht (20mila euro) per almeno 3 mesi. Si pagano le tasse solo in Italia, la vita costa poco e Bangkok e Phuket, le due principali città, sono piuttosto sicure. Situazione simile nella vicina Indonesia: a Bali occorre dimostrare di avere oltre 55 anni, dichiarare di non voler lavorare e avere un'assicurazione sanitaria.
Dove scappare: l'America - Spostandosi nel continente americano, ecco la Repubblica Dominicana: residenza definitiva in soli 45 giorni (con pensioni o rendite di 1.500 dollari mensili, 1.150 euro) con esenzione del 50% su imposte immobiliari e tasse automobilistiche. In Costa Rica occorre invece un reddito mensile di 1.000 dollari (poco più di 700 euro) da depositare su un conto corrente costaricano. Il Brasile offre molte possibilità, ma più rischi: la soglia minima di pensione è stata recentemente innalzata a 6mila reis al mese (2.300 euro) e soprattutto si tratta di uno dei Paesi più violenti al mondo, con tassi di omicidi in aumento.
Dove scappare: l'Africa - Per chi ha voglia di restare più vicino all'Italia, le alternative non mancano. Le Canarie, spagnole, sono isole sotto l'egida dell'Unione europea ma con agevolazioni fiscali. Unico inghippo: per ricevere la pensione italiana lì, occorre risiedervi per almeno 183 giorni. In Tunisia, a un paio d'ore di volo da qua, ottenere il visto è facile: dopo quello provvisorio di 3 mesi, basta fare richiesta per quello definitivo dimostrando di avere un reddito certo e adatto alla sopravvivenza. Una convenzione evita la doppia imposizione, ma c'è il neo-sicurezza: la Primavera araba sta un po' appassendo. In Kenya, da Malindi a Mombasa, per avere la residenza occorre avere una pensione e una casa di proprietà o in affitto, mentre a Capo Verde occorre dimostrare di avere una rendita cumulativa di 130mila scudi (1.000 euro) e avere sufficiente denaro per pagare le spese mediche. Anche qui, come nel resto di questi Paradisi, non si vedono Professori all'orizzonte.
La testimonianza - Potendo, appunto. In realtà non si deve essere ricchi per prendere baracca e burattini e trasferirsi oltre Oceano, o semplicemente oltre Mediterraneo. C'è chi, come l'ex dipendente pubblico Ciro Fantini, 70 anni, dice di campare benissimo con una pensione media, da 1.000 euro, in Tunisia: facile, paga il 25% di tasse sul 20% del reddito, un'inezia rispetto a quanto accade da noi. "Questo - spiega - mi permette di recuperare una parte consistente della mia pensione. Sono andato da un cardiologo privato e ho pagato 50 dinari, 25 euro".
Perché scappare - Qualità della vita (benzina che costa la metà e oltre rispetto all'Italia), clima (magari il trasferimento è temporaneo, si vive ai Tropici soltanto nei mesi invernali), cibo (mangiare al ristorante con meno di 5 euro, fare la spesa come nel più conveniente mercato rionale), soprattutto poche tasse e costi del mattone in caduta libera (a differenza della maggior parte delle città italiane) Panorama stila una lista di località da scegliere perché convenienti e sicure, sotto vari punti di vista.
Dove scappare: l'Asia - La Thailandia, innanzitutto: per avere il visto da pensionati basta dimostrare di avere un'entrata fissa mensile e un deposito nel Paese asiatico di 800mila baht (20mila euro) per almeno 3 mesi. Si pagano le tasse solo in Italia, la vita costa poco e Bangkok e Phuket, le due principali città, sono piuttosto sicure. Situazione simile nella vicina Indonesia: a Bali occorre dimostrare di avere oltre 55 anni, dichiarare di non voler lavorare e avere un'assicurazione sanitaria.
Dove scappare: l'America - Spostandosi nel continente americano, ecco la Repubblica Dominicana: residenza definitiva in soli 45 giorni (con pensioni o rendite di 1.500 dollari mensili, 1.150 euro) con esenzione del 50% su imposte immobiliari e tasse automobilistiche. In Costa Rica occorre invece un reddito mensile di 1.000 dollari (poco più di 700 euro) da depositare su un conto corrente costaricano. Il Brasile offre molte possibilità, ma più rischi: la soglia minima di pensione è stata recentemente innalzata a 6mila reis al mese (2.300 euro) e soprattutto si tratta di uno dei Paesi più violenti al mondo, con tassi di omicidi in aumento.
Dove scappare: l'Africa - Per chi ha voglia di restare più vicino all'Italia, le alternative non mancano. Le Canarie, spagnole, sono isole sotto l'egida dell'Unione europea ma con agevolazioni fiscali. Unico inghippo: per ricevere la pensione italiana lì, occorre risiedervi per almeno 183 giorni. In Tunisia, a un paio d'ore di volo da qua, ottenere il visto è facile: dopo quello provvisorio di 3 mesi, basta fare richiesta per quello definitivo dimostrando di avere un reddito certo e adatto alla sopravvivenza. Una convenzione evita la doppia imposizione, ma c'è il neo-sicurezza: la Primavera araba sta un po' appassendo. In Kenya, da Malindi a Mombasa, per avere la residenza occorre avere una pensione e una casa di proprietà o in affitto, mentre a Capo Verde occorre dimostrare di avere una rendita cumulativa di 130mila scudi (1.000 euro) e avere sufficiente denaro per pagare le spese mediche. Anche qui, come nel resto di questi Paradisi, non si vedono Professori all'orizzonte.
Commercialista truffatore: alle vittime maxicartelle da Equitalia
di Francesca Raspavolo
TORRE DEL GRECO - Un noto commercialista del centro storico è accusato dai suoi stessi clienti di aver intascato migliaia di euro senza aver mai curato le loro pratiche. Stando alle vittime, per decenni l’uomo non avrebbe versato all’Inps i soldi che i clienti gli davano per pagare tasse e contributi, esponendoli così a tutte le conseguenze dell’evasione fiscale.
A denunciarlo gli stessi assistiti che, dopo aver smascherato il raggiro, hanno fatto partire l’inchiesta. Già otto gli imprenditori che si sono rivolti alla Procura lamentando una truffa da oltre 100mila euro ciascuno. Ma i numeri sono destinati a salire.
Tra le vittime accertate due giovani imprenditori.
«Gli abbiamo dato regolarmente i soldi per pagare Irpef, Iva e Irap ma se li è intascati per 15 anni - raccontano - ci ha imbrogliato, ci ha fatti passare per evasori mentre noi eravamo convinti di aver pagato tutto». Quando hanno ricevuto il primo avviso di mancato pagamento da Equitalia, il contabile-truffatore ha scaricato la responsabilità sulle collaboratrici: «Ci ha detto che erano state le sue assistenti a derubarci ma non gli abbiamo creduto. In questi anni abbiamo sborsato 50mila euro per pagare la tasse ma ci ritroviamo indebitati con l’Inps per almeno il doppio. Abbiamo un’ipoteca sulla casa e una sul negozio e svariate cartelle esattoriali da saldare. È tutta colpa sua».
Peggio ancora è andata a un altro imprenditore finito nella rete del commercialista: dopo 40 anni di attività - 25 dei quali assistito per le pratiche contabili proprio dal professionista - il negoziante ha scoperto di non aver maturato i requisiti minimi necessari per andare in pensione. E non perché l’uomo, 63 anni ed una vita di duro lavoro sulle spalle, non avesse i titoli di legge ma semplicemente perché il commercialista non aveva mai versato all’Inps i contributi e le tasse. Ora l’anziano commerciante dovrà continuare a lavorare e fare addirittura gli straordinari per pagare decenni di imposte arretrate e cancellare le ipoteche su casa e negozio.
Nei guai sono finiti anche un ristoratore, un profumiere ed un gelataio, sprofondati in una vera e propria voragine di debiti. Oggi, dopo anni di inganni, le vittime del raggiro sperano di poter uscire dal tunnel: per questo hanno presentato una denuncia e chiesto la sospensione delle cartelle esattoriali.
Sulla vicenda la Procura di Torre Annunziata ha aperto un’inchiesta già dallo scorso maggio ma, da allora, nessuno sviluppo: «Il pm non ci ha ancora ascoltati, abbiamo consegnato tutte le prove che inchiodano il commercialista eppure quell’uomo continua a lavorare - raccontano le vittime - abbiamo chiesto il sequestro preventivo dei beni: solo attingendo al suo tesoretto potremo recuperare i nostri soldi e ripianare i debiti che ci ha causato».
Intanto anche l’Ordine dei commercialisti ha avviato un’azione disciplinare nei confronti del contabile-imbroglione: l’esperto di tributi sarà ascoltato ufficialmente ai primi di novembre per rispondere della maxitruffa denunciata dai suoi clienti.
A denunciarlo gli stessi assistiti che, dopo aver smascherato il raggiro, hanno fatto partire l’inchiesta. Già otto gli imprenditori che si sono rivolti alla Procura lamentando una truffa da oltre 100mila euro ciascuno. Ma i numeri sono destinati a salire.
Tra le vittime accertate due giovani imprenditori.
«Gli abbiamo dato regolarmente i soldi per pagare Irpef, Iva e Irap ma se li è intascati per 15 anni - raccontano - ci ha imbrogliato, ci ha fatti passare per evasori mentre noi eravamo convinti di aver pagato tutto». Quando hanno ricevuto il primo avviso di mancato pagamento da Equitalia, il contabile-truffatore ha scaricato la responsabilità sulle collaboratrici: «Ci ha detto che erano state le sue assistenti a derubarci ma non gli abbiamo creduto. In questi anni abbiamo sborsato 50mila euro per pagare la tasse ma ci ritroviamo indebitati con l’Inps per almeno il doppio. Abbiamo un’ipoteca sulla casa e una sul negozio e svariate cartelle esattoriali da saldare. È tutta colpa sua».
Peggio ancora è andata a un altro imprenditore finito nella rete del commercialista: dopo 40 anni di attività - 25 dei quali assistito per le pratiche contabili proprio dal professionista - il negoziante ha scoperto di non aver maturato i requisiti minimi necessari per andare in pensione. E non perché l’uomo, 63 anni ed una vita di duro lavoro sulle spalle, non avesse i titoli di legge ma semplicemente perché il commercialista non aveva mai versato all’Inps i contributi e le tasse. Ora l’anziano commerciante dovrà continuare a lavorare e fare addirittura gli straordinari per pagare decenni di imposte arretrate e cancellare le ipoteche su casa e negozio.
Nei guai sono finiti anche un ristoratore, un profumiere ed un gelataio, sprofondati in una vera e propria voragine di debiti. Oggi, dopo anni di inganni, le vittime del raggiro sperano di poter uscire dal tunnel: per questo hanno presentato una denuncia e chiesto la sospensione delle cartelle esattoriali.
Sulla vicenda la Procura di Torre Annunziata ha aperto un’inchiesta già dallo scorso maggio ma, da allora, nessuno sviluppo: «Il pm non ci ha ancora ascoltati, abbiamo consegnato tutte le prove che inchiodano il commercialista eppure quell’uomo continua a lavorare - raccontano le vittime - abbiamo chiesto il sequestro preventivo dei beni: solo attingendo al suo tesoretto potremo recuperare i nostri soldi e ripianare i debiti che ci ha causato».
Intanto anche l’Ordine dei commercialisti ha avviato un’azione disciplinare nei confronti del contabile-imbroglione: l’esperto di tributi sarà ascoltato ufficialmente ai primi di novembre per rispondere della maxitruffa denunciata dai suoi clienti.
Ragusa ricorda il cronista Spampinato
Un incontro in memoria del giornalista, ucciso quarant’anni fa all’età di 25 anni
RAGUSA. Fu ucciso quando aveva 25 anni, Giovanni Spampinato: "Assassinato perché cercava la verità" fu il titolo del quotidiano L'Ora di cui era corrispondente. A quarant'anni dalla sua morte, il Centro Studi 'Feliciano Rossitto', la sezione di Ragusa dell'Assostampa e l'Aiga di Ragusa hanno promosso un incontro per ricordare il cronista col contributo del giornalista Franco Nicastro, dell'avvocato Gaetano Barone e dell'ex segretario regionale del Pci dell'epoca Achille Occhetto. I lavori sono stati aperti dal presidente del Centro Studi Giorgio Chessari.
"Giovanni Spampinato - ha detto il segretario dell' Assostampa iblea, Gianni Molé,- scompaginò ruoli e modi dell'informazione ragusana in una provincia che tutti definivano ‘babba’, ma solo per chi non voleva vedere cosa ci fosse oltre la siepe, oltre il perbenismo ovattato, cortina fumogena che nascondeva traffici di ogni tipo".
Franco Nicastro ha ripercorso quei giorni drammatici dell'assassinio."Giovanni Spampinato - ha detto - era un collega che voleva fare semplicemente il giornalista. Un giornalismo di verità e di inchiesta come dovrebbe essere normale, invece di un giornalismo omologato". "Quando celebriamo Spampinato - ha detto Occhetto - bisogna togliere i veli alla stagione stragista che ci fu in quegli anni in Italia: dalla strage di piazza Fontana all'Italicus".
"Giovanni Spampinato - ha detto il segretario dell' Assostampa iblea, Gianni Molé,- scompaginò ruoli e modi dell'informazione ragusana in una provincia che tutti definivano ‘babba’, ma solo per chi non voleva vedere cosa ci fosse oltre la siepe, oltre il perbenismo ovattato, cortina fumogena che nascondeva traffici di ogni tipo".
Franco Nicastro ha ripercorso quei giorni drammatici dell'assassinio."Giovanni Spampinato - ha detto - era un collega che voleva fare semplicemente il giornalista. Un giornalismo di verità e di inchiesta come dovrebbe essere normale, invece di un giornalismo omologato". "Quando celebriamo Spampinato - ha detto Occhetto - bisogna togliere i veli alla stagione stragista che ci fu in quegli anni in Italia: dalla strage di piazza Fontana all'Italicus".
sabato 27 ottobre 2012
Sicilia Domani si vota per decidere il domani di una regione fatta a pezzi
Sicilia elezioni per il rinnovo del parlamento siciliano
Dalle 8 alle 22, soltanto domenica 28 ottobre 2012. Quattordici ore che i siciliani (non tutti, si capisce, ma molti che sono troppi) vivranno sospesi tra panza e coscienza. Perché si vota per decidere il futuro di una regione a pezzi, con il tasso di disoccupazione più alto del Paese, con centinaia d’imprese che muoiono, con i giovani che emigrano, con i fondi per le opere da realizzare bloccati a Bruxelles perché non esiste la possibilità di cofinanziamento. Siamo dentro il burrone, da tempo in caduta libera. Molti hanno cercato di distrarci e di non farcelo capire, c’è stato il solito adeguamento alla situazione alla siciliana, nella speranza che, morti tutti gli altri, qualcosa avanzasse per la propria personale causa.
Bene, nella tragedia collettiva non è avanzato più niente quasi per nessuno. Persino i privilegiati, quelli che la politica trascina con sé, grazie ai quattrini indebitamente sottratti all’uso pubblico, sono diminuiti. Più sprechi, sì, ma meno beneficiari, quasi sempre gli stessi. E questo è un segnale, questo è l’elemento che apre un dubbio: tra centinaia di migliaia di persone che erano in attesa di un favore e non l’hanno ricevuto, quanti avranno il coraggio e lo stomaco per ridare fiducia a chi non ha rispettato nemmeno quell’impegno minimo e strettamente privato? Stavolta, dicono le previsioni, saranno tanti quelli che liquiderebbero con un vaffanculo sonoro chi ha promesso e non ha mantenuto.
Ma non c’è da fidarsi, perché, se no, non saremmo qui a dire che si starà sospesi tra panza e presenza. Perché così funziona il sistema degenerato, disperatamente, sino alla fine, c’è chi spera che qualcosa accada, tanto più oggi che si perdono nella crisi migliaia di posti di lavoro. Eppure dovrebbero essere chiare due cose: la prima è che chi non ha rispettato i patti ieri, potrebbe non rispettarli anche domani. E rimandare il regalo, il favore, ad altra data. La seconda è che bisogna ragionare anche sulle modalità della protesta. Premesso che non mi scandalizza affatto l’astensionismo, tutt’altro, lo giudico stavolta più che frutto della rabbia, conseguenza della rassegnazione. E guai, perché la rassegnazione è il sentimento su cui puntano i politicanti di sempre e i questuanti di oggi. Meno si è in lista, sostanzialmente, più un favore può essere canalizzato.
Per questo oggi non votare è più rischioso che votare, anche se la tentazione di andarsi a fare un giro per i boschi, tra gli gnomi e le fate, anziché fare il gioco di nani e ballerine, beh c’è. E il voto di protesta? Si ragiona molto anche di questo, di Grillo, delle piazze piene e di quelle vuote. Ogni voto ha un senso, anche qui mettiamo al bando le generalizzazioni, l’idea di rinchiudere nel ghetto chi ci spaventa, fosse il buono o fosse il cattivo. Non si emargina nessuno, non si demonizza nessuno. Si sceglie. La Sicilia ha bisogno di scelte, non di balbettii, non di dibattiti senza fine tra chi, peraltro, sulla pelle dei siciliani discute già da diversi decenni. Grillo, intanto, è servito a dare la scossa a tutti, a far cambiare linguaggi, approcci, dinamiche. Passate le 14 ore vissute tra panza e coscienza sapremo: sapremo se i siciliani hanno scelto chi ha riempito le piazza, oppure chi ha riempito le segreterie politiche, oppure chi ha diviso qualche pacco di pasta, oppure chi ha promesso ancora una volta il miracolo. Vedremo i siciliani come hanno immaginato il loro futuro, cinque anni che potrebbero finire di farci affondare o farci riprendere faticosamente quota.
Dalle 8 alle 22, soltanto domenica 28 ottobre 2012. Quattordici ore che i siciliani (non tutti, si capisce, ma molti che sono troppi) vivranno sospesi tra panza e coscienza. Perché si vota per decidere il futuro di una regione a pezzi, con il tasso di disoccupazione più alto del Paese, con centinaia d’imprese che muoiono, con i giovani che emigrano, con i fondi per le opere da realizzare bloccati a Bruxelles perché non esiste la possibilità di cofinanziamento. Siamo dentro il burrone, da tempo in caduta libera. Molti hanno cercato di distrarci e di non farcelo capire, c’è stato il solito adeguamento alla situazione alla siciliana, nella speranza che, morti tutti gli altri, qualcosa avanzasse per la propria personale causa.
Bene, nella tragedia collettiva non è avanzato più niente quasi per nessuno. Persino i privilegiati, quelli che la politica trascina con sé, grazie ai quattrini indebitamente sottratti all’uso pubblico, sono diminuiti. Più sprechi, sì, ma meno beneficiari, quasi sempre gli stessi. E questo è un segnale, questo è l’elemento che apre un dubbio: tra centinaia di migliaia di persone che erano in attesa di un favore e non l’hanno ricevuto, quanti avranno il coraggio e lo stomaco per ridare fiducia a chi non ha rispettato nemmeno quell’impegno minimo e strettamente privato? Stavolta, dicono le previsioni, saranno tanti quelli che liquiderebbero con un vaffanculo sonoro chi ha promesso e non ha mantenuto.
Ma non c’è da fidarsi, perché, se no, non saremmo qui a dire che si starà sospesi tra panza e presenza. Perché così funziona il sistema degenerato, disperatamente, sino alla fine, c’è chi spera che qualcosa accada, tanto più oggi che si perdono nella crisi migliaia di posti di lavoro. Eppure dovrebbero essere chiare due cose: la prima è che chi non ha rispettato i patti ieri, potrebbe non rispettarli anche domani. E rimandare il regalo, il favore, ad altra data. La seconda è che bisogna ragionare anche sulle modalità della protesta. Premesso che non mi scandalizza affatto l’astensionismo, tutt’altro, lo giudico stavolta più che frutto della rabbia, conseguenza della rassegnazione. E guai, perché la rassegnazione è il sentimento su cui puntano i politicanti di sempre e i questuanti di oggi. Meno si è in lista, sostanzialmente, più un favore può essere canalizzato.
Per questo oggi non votare è più rischioso che votare, anche se la tentazione di andarsi a fare un giro per i boschi, tra gli gnomi e le fate, anziché fare il gioco di nani e ballerine, beh c’è. E il voto di protesta? Si ragiona molto anche di questo, di Grillo, delle piazze piene e di quelle vuote. Ogni voto ha un senso, anche qui mettiamo al bando le generalizzazioni, l’idea di rinchiudere nel ghetto chi ci spaventa, fosse il buono o fosse il cattivo. Non si emargina nessuno, non si demonizza nessuno. Si sceglie. La Sicilia ha bisogno di scelte, non di balbettii, non di dibattiti senza fine tra chi, peraltro, sulla pelle dei siciliani discute già da diversi decenni. Grillo, intanto, è servito a dare la scossa a tutti, a far cambiare linguaggi, approcci, dinamiche. Passate le 14 ore vissute tra panza e coscienza sapremo: sapremo se i siciliani hanno scelto chi ha riempito le piazza, oppure chi ha riempito le segreterie politiche, oppure chi ha diviso qualche pacco di pasta, oppure chi ha promesso ancora una volta il miracolo. Vedremo i siciliani come hanno immaginato il loro futuro, cinque anni che potrebbero finire di farci affondare o farci riprendere faticosamente quota.
Morte Enrico Mattei, un mistero lungo 50 anni
L’ingegno è vedere possibilità dove gli altri non ne vedono
Un imprenditore, un dirigente pubblico, un politico. Ma soprattutto un innovatore. Fu tutto questo e molto di più Enrico Mattei, uno dei protagonisti assoluti del boom economico dell’Italia del secondo dopoguerra. In un’esistenza lunga 56 anni fu protagonista di diverse vite. Operaio, partigiano, deputato della Democrazia Cristiana, commissario liquidatore dell’Agip, presidente dell’Eni. Di Mattei si è parlato tanto in vita, ma ancora più rumore ha fatto la sua tragica morte. Era la sera del 27 ottobre 1962, esattamente 50 anni fa, quando l’aereo su cui si era imbarcato a Catania cadde nei pressi di Bascapè, vicino Pavia, poco prima dell’atterraggio previsto nello scalo di Linate a Milano. Incidente o attentato sono stati per anni alternative imperscrutabili di uno dei misteri dell’attualità italiana. Le recenti verità giudiziarie hanno avvalorato la tesi dell’omicidio, anzi dell’attentato. Nell’aereo si è certificato che venne inserita una bomba stimata in 150 grammi di tritolo. Ma non sono bastati cinque decenni per chiarire totalmente i responsabili e gli interessi che hanno portato alla morte di Mattei.
Erano in tanti a poter volere la scomparsa del dirigente italiano. Innanzitutto le cosiddette sette sorelle del petrolio, Standard Oil of New Jersey successivamente trasformatasi in Esso e poi ExxonMobil, Royal Dutch Shell, Anglo-Persian Oil Company, poi divenuta in British Petroleum (BP), Standard Oil of New York, diventata in seguito Mobil e fusa con la Exxon, Texaco, unitasi alla Chevron per diventare ChevronTexaco, Standard Oil of California (Socal), poi Chevron, Gulf Oil, in buona parte confluita nella Chevron. Ma anche la Cia, i servizi segreti americani, in quel periodo di piena ‘Guerra fredda’, non vedeva di buon occhio i rapporti commerciali tra Mattei e l’Urss. Tanti nemici per un uomo potente, che era riuscito a rompere l’oligopolio del mercato petrolifero per abbassare i costi energetici per l’Italia e facilitare, in questo modo, lo sviluppo industriale.
Un progetto ambizioso, fondato sull’intuizione che i paesi arabi, in un quadro di profondi cambiamenti geopolitici dovuto anche alla decolonizzazione, avrebbero assunto il controllo delle riserve di oro nero. Questa convinzione, poi rivelatasi indovinata, spinse Mattei a cercare contatti diretti con i governi dei paesi emergenti e a firmare contratti di partnership di grande importanza. Nonostante il campo minato, il presidente dell’Eni stava realizzando il suo intento. Anche grazie ad un’attenta strategia di consenso, costruita a più livelli. Basti pensare che fu Mattei il vero artefice della nascita nel 1956 del quotidiano “Il Giorno”, uno strumento, capace di notevoli novità nel linguaggio giornalistico, a cui delegare la comunicazione del gruppo del cane a sei zampe.
Enrico Mattei era dotato di un’intelligenza e di un fiuto per gli affari al di sopra del comune. Di strada ne aveva fatta tanta da quando il 29 aprile del 1906 era nato ad Acqualanda, un piccolo paese delle Marche, in provincia di Pesaro e Urbino. La sua era una famiglia modesta. Il padre Antonio, sottoufficiale dei Carabinieri, spinse il figlio Enrico, dopo la licenza elementare e gli studi alla Regia Scuola Tecnica di Vasto, a lavorare in una fabbrica di letti metallici. Divenuto ragioniere, il giovane Mattei, intraprese la carriera dirigenziale in una piccola azienda in cui era entrato quale operaio, si trasferì poi a Milano, dove inizialmente svolse l’attività di agente di commercio nel settore chimico e delle vernici. Ma lo spirito imprenditoriale non tardò a farsi sentire. Così, mentre non disdegnava contatti politici con il regime fascista e il mondo dell’area democristiana, a trent'anni avviò una propria attività nel settore chimico, fino a divenire fornitore delle Forze Armate.
Un imprenditore, un dirigente pubblico, un politico. Ma soprattutto un innovatore. Fu tutto questo e molto di più Enrico Mattei, uno dei protagonisti assoluti del boom economico dell’Italia del secondo dopoguerra. In un’esistenza lunga 56 anni fu protagonista di diverse vite. Operaio, partigiano, deputato della Democrazia Cristiana, commissario liquidatore dell’Agip, presidente dell’Eni. Di Mattei si è parlato tanto in vita, ma ancora più rumore ha fatto la sua tragica morte. Era la sera del 27 ottobre 1962, esattamente 50 anni fa, quando l’aereo su cui si era imbarcato a Catania cadde nei pressi di Bascapè, vicino Pavia, poco prima dell’atterraggio previsto nello scalo di Linate a Milano. Incidente o attentato sono stati per anni alternative imperscrutabili di uno dei misteri dell’attualità italiana. Le recenti verità giudiziarie hanno avvalorato la tesi dell’omicidio, anzi dell’attentato. Nell’aereo si è certificato che venne inserita una bomba stimata in 150 grammi di tritolo. Ma non sono bastati cinque decenni per chiarire totalmente i responsabili e gli interessi che hanno portato alla morte di Mattei.
Erano in tanti a poter volere la scomparsa del dirigente italiano. Innanzitutto le cosiddette sette sorelle del petrolio, Standard Oil of New Jersey successivamente trasformatasi in Esso e poi ExxonMobil, Royal Dutch Shell, Anglo-Persian Oil Company, poi divenuta in British Petroleum (BP), Standard Oil of New York, diventata in seguito Mobil e fusa con la Exxon, Texaco, unitasi alla Chevron per diventare ChevronTexaco, Standard Oil of California (Socal), poi Chevron, Gulf Oil, in buona parte confluita nella Chevron. Ma anche la Cia, i servizi segreti americani, in quel periodo di piena ‘Guerra fredda’, non vedeva di buon occhio i rapporti commerciali tra Mattei e l’Urss. Tanti nemici per un uomo potente, che era riuscito a rompere l’oligopolio del mercato petrolifero per abbassare i costi energetici per l’Italia e facilitare, in questo modo, lo sviluppo industriale.
Un progetto ambizioso, fondato sull’intuizione che i paesi arabi, in un quadro di profondi cambiamenti geopolitici dovuto anche alla decolonizzazione, avrebbero assunto il controllo delle riserve di oro nero. Questa convinzione, poi rivelatasi indovinata, spinse Mattei a cercare contatti diretti con i governi dei paesi emergenti e a firmare contratti di partnership di grande importanza. Nonostante il campo minato, il presidente dell’Eni stava realizzando il suo intento. Anche grazie ad un’attenta strategia di consenso, costruita a più livelli. Basti pensare che fu Mattei il vero artefice della nascita nel 1956 del quotidiano “Il Giorno”, uno strumento, capace di notevoli novità nel linguaggio giornalistico, a cui delegare la comunicazione del gruppo del cane a sei zampe.
Enrico Mattei era dotato di un’intelligenza e di un fiuto per gli affari al di sopra del comune. Di strada ne aveva fatta tanta da quando il 29 aprile del 1906 era nato ad Acqualanda, un piccolo paese delle Marche, in provincia di Pesaro e Urbino. La sua era una famiglia modesta. Il padre Antonio, sottoufficiale dei Carabinieri, spinse il figlio Enrico, dopo la licenza elementare e gli studi alla Regia Scuola Tecnica di Vasto, a lavorare in una fabbrica di letti metallici. Divenuto ragioniere, il giovane Mattei, intraprese la carriera dirigenziale in una piccola azienda in cui era entrato quale operaio, si trasferì poi a Milano, dove inizialmente svolse l’attività di agente di commercio nel settore chimico e delle vernici. Ma lo spirito imprenditoriale non tardò a farsi sentire. Così, mentre non disdegnava contatti politici con il regime fascista e il mondo dell’area democristiana, a trent'anni avviò una propria attività nel settore chimico, fino a divenire fornitore delle Forze Armate.
Droga, usura e violenze 14 arresti nel Foggiano
FOGGIA - Si occupava soprattutto di spaccio di sostanze stupefacenti la banda sgominata stamane, alle prime luci dell’alba, a Troia, in provincia di Foggia, dai carabinieri del Comando provinciale, coordinati dalla Procura della repubblica di Lucera, ma dalle indagini è emerso che due dei componenti di spicco, in particolare due fratelli, in un’occasione, insieme ad un altro arrestato, hanno prestato denaro ad un interesse variabile dal 15 al 30% mensile.
Partendo da un prestito di 30.000 euro, un operaio ha dovuto restituire in 6 mesi una somma di 60.000 euro. Quando la vittima non è riuscita più a coprire immediatamente le richieste, gli usurai lo hanno minacciato, picchiato e procurato danneggiamenti. Tra gli episodi contestati anche l’incendio della sua auto, tanto che l’operaio è stato costretto a fuggire dal paese e ad abbandonare la sua famiglia.
Sono 14 le ordinanze di custodia cautelare emesse dal gip del Tribunale della cittadina federiciana nei confronti di altrettanti italiani, tutti di Troia. La banda spacciava soprattutto cocaina e operava indisturbata con la forza della violenza e dell’intimidazione. Le indagini sono partite dal novembre 2011 e sono terminate ad aprile di quest’anno.
Centrale il ruolo dei due fratelli, che spesso non si limitavano al solo smercio di droga. La banda annoverava tra i suoi membri un intero nucleo famigliare, nel quale i carabinieri hanno identificato e arrestato il figlio 'piromanè, che negli ultimi mesi del 2011 aveva terrorizzato i cittadini della piccola cittadina alle pendici del Subappenino. Il ventitreenne era solito uscire nel cuore della notte, quando poteva agire indisturbato, e, dopo averle scelte a caso al solo scopo di distruggerle, incendiava le auto utilizzando diavolina e liquido infiammabile.
Palermo, ritirato il passaporto a Ciancimino jr
PALERMO - I giudici delle misure di prevenzione di Palermo hanno applicato in via provvisoria l'obbligo di soggiorno a Massimo Ciancimino e il temporaneo ritiro del passaporto. Per il tribunale, il figlio dell'ex sindaco mafioso continuerebbe a curare le sorti di una società che gli è stata sequestrata e avrebbe manifestato più volte l'intenzione di andarsene dall'Italia non appena riuscirà a liquidare i suoi interessi economici.
Il tribunale, davanti al quale dal 2007 pende il procedimento per l'applicazione delle misure di prevenzione personale e patrimoniale nei confronti di Ciancimino, ha deciso d'ufficio l'applicazione provvisoria dell' obbligo di soggiorno e il ritiro momentaneo dei documenti validi per l'espatrio.
Il collegio è presieduto dal giudice Silvana Saguto. A indurre il tribunale a disporre la misura di prevenzione provvisoria sono stati gli atti ricevuti dalla Procura di Roma che indaga su un presunto maxiriciclaggio di cui Ciancimino sarebbe protagonista.
"Dall'informativa dei carabinieri risulta - scrive il collegio - che Ciancimino è tuttora in contatto con svariati soggetti residenti in Italia e all'estero che curano interessi economici rilevantissimi inerenti a beni sequestrati dal tribunale di Palermo e in particolare della Ecorec SA (società rumena che gestisce la discarica di Glina vicino Bucarest, una delle più grandi d'Europa n.d.r.)".
Secondo gli investigatori la società (che vale 115 milioni di euro) sarebbe riconducibile a Massimo Ciancimino, che avrebbe reinvestito nel business dei rifiuti romeni, grazie prestanome, il tesoro illecito del padre, l'ex sindaco mafioso di Palermo.
Sulla vicenda sono aperte due inchieste, una a Palermo per cui i pm hanno chiesto l'archiviazione, ma il gip ha imposto ulteriori indagini, l'altra a Roma. Secondo gli inquirenti, Ciancimino starebbe cercando di vendere la discarica e la Ecorec a una società straniera, la Ecovision International, in modo da monetizzare il capitale e "disperderne le tracce". Valutazione condivisa dai giudici della prevenzione di Palermo che desumono dalle intercettazioni ricevute dai pm romani "l'intenzione dell'indagato di andarsene non appena riuscirà a liquidare i suoi interessi".
Per il collegio Ciancimino, inoltre, "approfitta dei permessi che ottiene per raggiungere Bologna" dove viene convocato dalla Finanza per allungare l'itinerario a Milano e incontrare i suoi coindagati.
Pronta la replica di Ciancimino: "A tre giorni dall'udienza preliminare sulla trattativa Stato-mafia, prendo atto dell'ennesimo tentativo di screditarmi e di condizionare il mio ruolo di teste nel processo". "Non intendo a questo punto - aggiunge - subire ulteriori pressioni da parte di soggetti come il colonnello De Caprio, che ha dato origine all'ultima fantomatica e inutile replica di un'inchiesta che va avanti da anni, del procuratore Pignatone, che dal 2005 sembra non sia ancora riuscito a sequestare la Ecorec, e della dottoresa Saguto". "Mi rivolgerò al più presto alla sedi appropriate - conclude - per dimostrare la loro malafede".
venerdì 26 ottobre 2012
Omicidio Rea, ergastolo a Parolisi
Il giudice: «Ha ucciso la moglie». Lui impassibile dopo la sentenza, ha ribadito: sono innocente. La difesa: Salvatore è un combattente, impugneremo la sentenza»
TERAMO - Ergastolo per Salvatore Parolisi. Il caporalmaggiore dell'Esercito, giudicato con rito abbreviato, è stato condannato al massimo della pena per l'omicidio della moglie, Melania Rea, assassinata con 35 coltellate il 18 aprile 2011 sul Colle San Marco di Ascoli Piceno.
A emettere la sentenza, accogliendo in toto la richiesta dei pm Greta Aloisi e Davide Rosati, il gup Marina Tommolini al termine di quasi quattro di camera di consiglio.
A Parolisi il Gup ha comminato anche tutte le sanzioni accessorie, compresa la perdita della patria potestà genitoriale, stabilendo inoltre il pagamento di una provvisionale di un milione a favore della figlia Vittoria e di 500mila euro per i genitori di Melania. Doccia fredda, dunque per la difesa, rappresentata dagli avvocati Valter Biscotti e Nicodemo Gentile, che oggi avevano chiesto per il loro assistito l'assoluzione piena.
Giubbotto nero e jeans, Parolisi, a quanto riferito dai presenti, è apparso imperturbabile in aula, dove il processo si è tenuto comunque a porte chiuse. «Innocente, sono innocente», ha solo ribadito ai suoi avvocati dopo che il gup lo ha condannato all'ergastolo. Unico momento di commozione quando il suo avvocato ha fatto cenno alla figlia, la piccola Vittoria, che l'uomo non vede ormai dal momento dell'arresto, nel luglio 2011. Il suo legale ha commentato: «Le sentenze non si discutono. Si impugnano». «Salvatore è un soldato, sa che bisogna combattere e noi siamo pronti a combattere con lui - ha aggiunto - non ci sono problemi, la testa è alta, la sentenza è sfavorevole. La commenteremo quando avremo le motivazioni e la impugneremo».
Fischi e urla della folla fuori dal Tribunale di Teramo all'uscita del cellulare della polizia penitenziaria con a bordo, presumibilmente, il caporalmaggiore Salvatore Parolisi, diretto al carcere di Castrogno per trascorrere la sua prima notte da ergastolano. Clima diverso solo pochi minuti prima quando dal cancello del tribunale erano usciti i famigliari Rea dentro la macchina dell'avvocato Gionni: applausi a scena aperta da parte delle centinaia di curiosi.
È stato il giorno più lungo per Salvatore Parolisi. A un anno e mezzo da quel maledetto 18 aprile del 2011 è arrivata la sentenza per l'omicidio della compagna. A Salvatore Parolisi sono state comminate tutte le sanzioni accessorie, dall'interdizione perpetua dai pubblici uffici alla perdita della patria potestà genitoriale. Il dispositivo della sentenza è contenuto in due pagine: in considerazione del rito abbreviato è stato escluso l'isolamento diurno.
In caserma. Nessun commento ufficiale dal 235° Reggimento Piceno alla sentenza. E' stato rispettato un silenzio in coerenza con la linea tenuta dai vertici della caserma dove Parolisi lavorava come istruttore delle soldatesse. Parla invece il sindaco di Folignano (Ascoli Piceno) Angelo Flaiani, il paese della cintura ascolana in cui Melania, Salvatore e la piccola figlia vivevano. «Dal punto di vista della sentenza era quello che tutti pensavano, non c'è sorpresa - dice a caldo Flaiani - Stupisce eventualmente l'ergastolo, ma evidentemente il giudice ha riconosciuto che c'erano gli estremi per una pena così grave. Faccio i complimenti a chi ha svolto le indagini sia ad Ascoli che a Teramo. Fin dall'inizio sono andate per il verso giusto».
TERAMO - Ergastolo per Salvatore Parolisi. Il caporalmaggiore dell'Esercito, giudicato con rito abbreviato, è stato condannato al massimo della pena per l'omicidio della moglie, Melania Rea, assassinata con 35 coltellate il 18 aprile 2011 sul Colle San Marco di Ascoli Piceno.
A emettere la sentenza, accogliendo in toto la richiesta dei pm Greta Aloisi e Davide Rosati, il gup Marina Tommolini al termine di quasi quattro di camera di consiglio.
A Parolisi il Gup ha comminato anche tutte le sanzioni accessorie, compresa la perdita della patria potestà genitoriale, stabilendo inoltre il pagamento di una provvisionale di un milione a favore della figlia Vittoria e di 500mila euro per i genitori di Melania. Doccia fredda, dunque per la difesa, rappresentata dagli avvocati Valter Biscotti e Nicodemo Gentile, che oggi avevano chiesto per il loro assistito l'assoluzione piena.
Giubbotto nero e jeans, Parolisi, a quanto riferito dai presenti, è apparso imperturbabile in aula, dove il processo si è tenuto comunque a porte chiuse. «Innocente, sono innocente», ha solo ribadito ai suoi avvocati dopo che il gup lo ha condannato all'ergastolo. Unico momento di commozione quando il suo avvocato ha fatto cenno alla figlia, la piccola Vittoria, che l'uomo non vede ormai dal momento dell'arresto, nel luglio 2011. Il suo legale ha commentato: «Le sentenze non si discutono. Si impugnano». «Salvatore è un soldato, sa che bisogna combattere e noi siamo pronti a combattere con lui - ha aggiunto - non ci sono problemi, la testa è alta, la sentenza è sfavorevole. La commenteremo quando avremo le motivazioni e la impugneremo».
Fischi e urla della folla fuori dal Tribunale di Teramo all'uscita del cellulare della polizia penitenziaria con a bordo, presumibilmente, il caporalmaggiore Salvatore Parolisi, diretto al carcere di Castrogno per trascorrere la sua prima notte da ergastolano. Clima diverso solo pochi minuti prima quando dal cancello del tribunale erano usciti i famigliari Rea dentro la macchina dell'avvocato Gionni: applausi a scena aperta da parte delle centinaia di curiosi.
È stato il giorno più lungo per Salvatore Parolisi. A un anno e mezzo da quel maledetto 18 aprile del 2011 è arrivata la sentenza per l'omicidio della compagna. A Salvatore Parolisi sono state comminate tutte le sanzioni accessorie, dall'interdizione perpetua dai pubblici uffici alla perdita della patria potestà genitoriale. Il dispositivo della sentenza è contenuto in due pagine: in considerazione del rito abbreviato è stato escluso l'isolamento diurno.
In caserma. Nessun commento ufficiale dal 235° Reggimento Piceno alla sentenza. E' stato rispettato un silenzio in coerenza con la linea tenuta dai vertici della caserma dove Parolisi lavorava come istruttore delle soldatesse. Parla invece il sindaco di Folignano (Ascoli Piceno) Angelo Flaiani, il paese della cintura ascolana in cui Melania, Salvatore e la piccola figlia vivevano. «Dal punto di vista della sentenza era quello che tutti pensavano, non c'è sorpresa - dice a caldo Flaiani - Stupisce eventualmente l'ergastolo, ma evidentemente il giudice ha riconosciuto che c'erano gli estremi per una pena così grave. Faccio i complimenti a chi ha svolto le indagini sia ad Ascoli che a Teramo. Fin dall'inizio sono andate per il verso giusto».
Casalinghe prostitute per pagarsi il Bingo
Allarme della Caritas
di Maria Chiara Aulisio
NAPOLI - Esplode la povertà. Aumenta il numero delle persone che vivono per strada e si abbassa l’età di chi finisce sotto i ponti. Si gioca d’azzardo e ci si prostituisce, venti euro o poco più per guadagnarsi una partita a Bingo, sesso a basso costo nelle playroom per saldare i debiti con gli usurai.
Sì, esplode la povertà. Si allungano le file all’ingresso delle mense della Caritas e cresce il numero dei senza lavoro. Dal 2004 al 2012 la Campania ha perso 194.000 posti attestandosi in vetta alla classifica delle città d’Italia che maggiormente fanno ricorso alla cassa integrazione.
Rispetto al 2010 i senza lavoro accertati sono 30mila in più con un tasso di disoccupazione pari al 15.5 per cento, mentre tra i cosiddetti occupati il 35 per cento lavora solo ed esclusivamente in nero. A ciò si aggiunge la sensibile riduzione delle risorse economiche disponibili per le Politiche sociali che ha portato una inevitabile contrazione dei servizi. Fa sorridere scoprire che, proprio sul fronte delle Politiche sociali, il budget previsto dalla Regione Campania per i singoli cittadini è di 20 centesimi pro capite contro i 160 euro a testa, giusto per fare un esempio, stanziati dalla Valle d’Aosta. Dati allarmanti, cifre da brividi che emergono dal rapporto sulla povertà 2012 della Caritas Italiana che sarà presentato ufficialmente il prossimo gennaio.
«È terribilmente difficile cercare di essere obiettivi di fronte alla disastrosa precarietà nella quale è precipitata la città di Napoli in questi ultimi anni. - dice con amarezza don Vincenzo Cozzolino, direttore della Caritas Diocesana di Napoli - Quello che viene fuori è il profilo di una polveriera che troppo assomiglia al vulcano in sonno che la sovrasta». Don Enzo parla di legalità, impegno, voglia di riscatto e passione civica. «Gli unici pilastri ai quali ci si può aggrappare per non farsi battere dalle statistiche, per non rientrare tra gli oltre settecentomila cervelli in fuga che negli ultimi anni hanno abbandonato il campo. Desiderio legittimo, per carità, ma una condanna se questa resta la strada obbligata di ogni possibilità di riscatto».
E la Caritas intanto fa quel che può. Solo in questi primi sei mesi dell’anno la Diocesi di Napoli ha già speso oltre 100mila euro, la stessa cifra che nel 2011 era bastata a soddisfare le richieste di aiuto dell’intero anno. È crollato il sistema del Welfare, denunciano i vertici dell’organismo pastorale istituito dal Vescovo, ed esplode l’evidente incapacità del sistema di farsi carico delle nuove povertà e delle nuove emergenze sociali. E le cifre confermano: da un anno all’altro raddoppia il numero dei pasti serviti ogni giorno nelle dieci mense della Caritas che in totale raggiungono quota 1200 a fronte dei 600 consumati nel 2011.
«La chiesa - prosegue don Enzo Cozzolino - fa ben più di quello che dovrebbe, ma è impensabile che da sola possa far fronte alle carenze di un intero sistema: è dunque urgente e ineludibile un profondo ripensamento da parte di tutti gli organi istituzionali sul tema delle politiche sociali».
Ma andiamo avanti. Il rapporto Caritas, nell’anticipazione offerta al Mattino, parla di 909 persone che, sulla base di una ricerca Istat, vivono senza fissa dimora in una condizione di assoluta povertà. E la solitudine aggrava i problemi. Da qui il ricorso alle parrocchie, vero motore della carità cristiana, che quotidianamente rispondono ai bisogni primari di chi vive gravi difficoltà economiche e personali. Dagli alimenti ai prodotti per neonati, dalle medicine a libri e quaderni per i bambini che devono andare a scuola. Le 283 parrocchie napoletane sono tutte attrezzate per far fronte ogni giorno alle esigenze delle famiglie indigenti. «Perché - conclude don Enzo citando un antico proverbio arabo - ”quando tutto è perso c’è il futuro” e per noi il futuro è speranza».
Sì, esplode la povertà. Si allungano le file all’ingresso delle mense della Caritas e cresce il numero dei senza lavoro. Dal 2004 al 2012 la Campania ha perso 194.000 posti attestandosi in vetta alla classifica delle città d’Italia che maggiormente fanno ricorso alla cassa integrazione.
Rispetto al 2010 i senza lavoro accertati sono 30mila in più con un tasso di disoccupazione pari al 15.5 per cento, mentre tra i cosiddetti occupati il 35 per cento lavora solo ed esclusivamente in nero. A ciò si aggiunge la sensibile riduzione delle risorse economiche disponibili per le Politiche sociali che ha portato una inevitabile contrazione dei servizi. Fa sorridere scoprire che, proprio sul fronte delle Politiche sociali, il budget previsto dalla Regione Campania per i singoli cittadini è di 20 centesimi pro capite contro i 160 euro a testa, giusto per fare un esempio, stanziati dalla Valle d’Aosta. Dati allarmanti, cifre da brividi che emergono dal rapporto sulla povertà 2012 della Caritas Italiana che sarà presentato ufficialmente il prossimo gennaio.
«È terribilmente difficile cercare di essere obiettivi di fronte alla disastrosa precarietà nella quale è precipitata la città di Napoli in questi ultimi anni. - dice con amarezza don Vincenzo Cozzolino, direttore della Caritas Diocesana di Napoli - Quello che viene fuori è il profilo di una polveriera che troppo assomiglia al vulcano in sonno che la sovrasta». Don Enzo parla di legalità, impegno, voglia di riscatto e passione civica. «Gli unici pilastri ai quali ci si può aggrappare per non farsi battere dalle statistiche, per non rientrare tra gli oltre settecentomila cervelli in fuga che negli ultimi anni hanno abbandonato il campo. Desiderio legittimo, per carità, ma una condanna se questa resta la strada obbligata di ogni possibilità di riscatto».
E la Caritas intanto fa quel che può. Solo in questi primi sei mesi dell’anno la Diocesi di Napoli ha già speso oltre 100mila euro, la stessa cifra che nel 2011 era bastata a soddisfare le richieste di aiuto dell’intero anno. È crollato il sistema del Welfare, denunciano i vertici dell’organismo pastorale istituito dal Vescovo, ed esplode l’evidente incapacità del sistema di farsi carico delle nuove povertà e delle nuove emergenze sociali. E le cifre confermano: da un anno all’altro raddoppia il numero dei pasti serviti ogni giorno nelle dieci mense della Caritas che in totale raggiungono quota 1200 a fronte dei 600 consumati nel 2011.
«La chiesa - prosegue don Enzo Cozzolino - fa ben più di quello che dovrebbe, ma è impensabile che da sola possa far fronte alle carenze di un intero sistema: è dunque urgente e ineludibile un profondo ripensamento da parte di tutti gli organi istituzionali sul tema delle politiche sociali».
Ma andiamo avanti. Il rapporto Caritas, nell’anticipazione offerta al Mattino, parla di 909 persone che, sulla base di una ricerca Istat, vivono senza fissa dimora in una condizione di assoluta povertà. E la solitudine aggrava i problemi. Da qui il ricorso alle parrocchie, vero motore della carità cristiana, che quotidianamente rispondono ai bisogni primari di chi vive gravi difficoltà economiche e personali. Dagli alimenti ai prodotti per neonati, dalle medicine a libri e quaderni per i bambini che devono andare a scuola. Le 283 parrocchie napoletane sono tutte attrezzate per far fronte ogni giorno alle esigenze delle famiglie indigenti. «Perché - conclude don Enzo citando un antico proverbio arabo - ”quando tutto è perso c’è il futuro” e per noi il futuro è speranza».
Omicidio nella notte a Pizzoni Ferita una seconda persona
Filippo Ceravolo di 19 anni di Pizzoni è morto questa notte in seguito alle ferite riportate in un agguato avvenuto lungo la strada Pizzoni-Soriano. Nell'agguato è rimasto ferito Domenico Tassone di 27 anni già noto alle forze dell'ordine. I due sono di Soriano Calabro
VIBO VALENTIA - E' morto stanotte, dopo essere stato trasportato all’ospedale di Vibo Valentia, Filippo Ceravolo, di 19 anni, incensurato, ferito in un agguato mentre viaggiava a fianco di Domenico Tassone, 27 anni, a sua volta ferito, noto alle forze dell’ordine. L’agguato è avvenuto nella tarda serata di ieri lungo la strada Pizzoni-Soriano, nel vibonese. I due, entrambi di Soriano Calabro, mentre viaggiavano a bordo di un’auto, sono stati raggiunti da numerosi colpi d’arma da fuoco. Alla guida di una Fiat Punto c'era Tassone, ritenuto il probabile obiettivo degli attentatori, e che si trova ricoverato all’ospedale di Vibo. Sul luogo sono intervenuti i Carabinieri per le indagini. Dai primi accertamenti risulterebbe che la vittima si sia trovata a bordo del mezzo solo per caso.
VIBO VALENTIA - E' morto stanotte, dopo essere stato trasportato all’ospedale di Vibo Valentia, Filippo Ceravolo, di 19 anni, incensurato, ferito in un agguato mentre viaggiava a fianco di Domenico Tassone, 27 anni, a sua volta ferito, noto alle forze dell’ordine. L’agguato è avvenuto nella tarda serata di ieri lungo la strada Pizzoni-Soriano, nel vibonese. I due, entrambi di Soriano Calabro, mentre viaggiavano a bordo di un’auto, sono stati raggiunti da numerosi colpi d’arma da fuoco. Alla guida di una Fiat Punto c'era Tassone, ritenuto il probabile obiettivo degli attentatori, e che si trova ricoverato all’ospedale di Vibo. Sul luogo sono intervenuti i Carabinieri per le indagini. Dai primi accertamenti risulterebbe che la vittima si sia trovata a bordo del mezzo solo per caso.
"Gestivano la sala bingo per conto dei boss": cinque condannati
Secondo gli inquirenti, la sala, formalmente intestata alla famiglia Casarubea, era in realtà dei mafiosi Alessandro Mannino, Vincenzo Marcianò e Rosario Inzerillo. La Las Vegas sarebbe stata in realtà una sorta di «lavatrice» che veniva usata per riciclare capitali sporchi di Cosa nostra siciliana e americana
PALERMO. La seconda sezione del Tribunale ha condannato cinque presunti prestanome del boss Nino Rotolo: avrebbero gestito la sala bingo «Las Vegas» di Palermo per conto della mafia. La pena più alta, 7 anni, è stata inflitta a Francesco Casarubea. Sei anni a testa per Alessandro Mannino, Vincenzo Marcianò, Rosario Inzerillo e Filippo Piraino. Assolte le sorelle Olga, Cristina ed Emanuela Casarubea, mentre era morto nel corso del processo il padre dei Casarubea, Domenico, pure lui imputato. Secondo gli inquirenti, la sala, formalmente intestata alla famiglia Casarubea, era in realtà dei mafiosi Alessandro Mannino, Vincenzo Marcianò e Rosario Inzerillo. La Las Vegas sarebbe stata in realtà una sorta di «lavatrice» che veniva usata per riciclare capitali sporchi di Cosa nostra siciliana e americana.
Confermata in appello confisca da 280 milioni a Di Vincenzo
Il provvedimento dopo il coinvolgimento dell'ex presidente degli industriali nisseni in un'inchiesta romana su mafia e appalti, in cui ha avuto una condanna a un anno e otto mesi per concorso esterno in associazione mafiosa
CALTANISSETTA. La Corte d'Appello di Caltanissetta ha confermato il maxi sequestro di beni all'imprenditore Pietro Di Vincenzo, ex presidente di Confindustria Caltanissetta, cui sono stati confiscati 280 milioni di euro tra immobili e fette societarie d'imprese nel settore edile ed immobiliare.
La confisca è scattata dopo il coinvolgimento dell'ex presidente degli industriali nisseni in un'inchiesta romana su mafia e appalti, in cui ha avuto una condanna a un anno e otto mesi per concorso esterno in associazione mafiosa. L'imprenditore è stato poi assolto in secondo grado. Poi alcuni mesi fa, Di Vincenzo è stato condannato dal tribunale di Caltanissetta a 10 anni di reclusione per estorsione nei confronti dei suoi dipendenti.
La confisca è scattata dopo il coinvolgimento dell'ex presidente degli industriali nisseni in un'inchiesta romana su mafia e appalti, in cui ha avuto una condanna a un anno e otto mesi per concorso esterno in associazione mafiosa. L'imprenditore è stato poi assolto in secondo grado. Poi alcuni mesi fa, Di Vincenzo è stato condannato dal tribunale di Caltanissetta a 10 anni di reclusione per estorsione nei confronti dei suoi dipendenti.
giovedì 25 ottobre 2012
Afghanistan, ancora sangue morto uno degli italiani feriti
Conflitto a fuoco durante un’operazione congiunta con l’esercito afghano: la vittima è il caporale Tiziano Chierotti, 24 anni. Era di Arma di Taggia
Nell’assalto contro una pattuglia mista di militari italiani e afghani nella provincia di Farah è morto un alpino di 24 anni, il caporale Tiziano Chierotti. Tre suoi compagni sono rimasti feriti. Non sono in pericolo di vita. Morto anche un soldato afgano che partecipava all’operazione.
Mentre a Roma il capo di Stato Maggiore dell’Esercito, Claudio Graziano, presenta il calendario 2013 della forza armata, dedicato proprio a 30 anni di missioni di pace in tutto il mondo, in Afghanistan, dunque, si spara. Lo scontro è avvenuto intorno alle 13.40, ora locale. Secondo le prime ricostruzioni, i militari italiani coinvolti erano impegnati in una attività di pattuglia congiunta della Task Force South East con unità del 207/o Corpo dell’esercito afgano nel villaggio di Siav, a circa 20 km a ovest della base operativa avanzata `Lavaredo´ di Bakwa - dove è basata la Task Force South East costituita dal 2/o reggimento alpini di Cuneo - quando sono stati attaccati con armi da fuoco da un gruppo di insorti.
Immediata, fa sapere il comando italiano, la reazione della pattuglia che ha subito messo in sicurezza l’abitato di Siav per poi prestare soccorso ai feriti, i quali dopo meno di trenta minuti sono stati evacuati in elicottero presso l’ospedale da campo di Farah, dove sono stati ricoverati. Tre hanno riportato ferite alle gambe e non sono in pericolo di vita. Il caporale Chierotti, gravemente colpito all’addome, è stato trasportato dall’ospedale di Farah alla struttura sanitaria di livello superiore di Camp Bastion. Ma il giovane, originario di Sanremo, è morto per il repentino aggravarsi delle condizioni cliniche, nonostante i tentativi di rianimazione.
La Procura di Roma ha aperto un fascicolo sull’accaduto. Attentato con finalità di terrorismo il reato configurato dagli inquirenti di Piazzale Clodio che sono ora in attesa di una serie di informative sulla dinamica della sparatoria.
Lo scontro fa capire come l’Afghanistan, a poco più di due anni dalla conclusione della missione Isaf decisa dalla Nato per fine 2014, è tutt’altro che pacificato. Anche nella regione Ovest, a guida italiana, dove sono impiegati i circa 3.500 militari del contingente nazionale. Ieri lo scoppio di un ordigno artigianale ha causato la morte di Salim Mobarez, capo del distretto di Porchaman nella provincia di Farah. Il giorno prima nel distretto di Obe - sempre nell’Ovest “italiano” - gli insorti hanno teso un agguato ad un reparto delle forze di sicurezza afgane causando tra sette e 12 morti.
Il premier Mario Monti, dopo il cordoglio per la morte del giovane militare, ha auspicato che «tutto il mondo politico e istituzionale si raccolga intorno alle forze armate italiane, confermando il pieno sostegno al loro impegno nelle aree di crisi ed in particolare all’opera encomiabile che prestano al servizio del nostro Paese nella cruciale fase di transizione istituzionale, stabilizzazione e pacificazione in Afghanistan». Il ministro della Difesa, Giampaolo Di Paola, si è stretto alla famiglia dell’alpino ucciso, «un ragazzo generoso e coraggioso e tale si è dimostrato fino all’ultimo momento. Tiziano non ti dimenticheremo. Grazie del tuo esempio quotidiano e del tuo impegno fino all’estremo sacrificio». Di Paola ha poi confermato che la missione non cambia. «Sappiamo - ha spiegato - che questa fase della presenza italiana in Afghanistan è la più delicata e complicata. Il Governo si è impegnato a rispettare le date del ritiro in accordo con gli alleati transatlantici, fino a completare la transizione verso le forze di sicurezza afgane».
Ma dal centrosinistra tornano a levarsi gli appelli al ritiro del contingente nazionale. «Noi dell’Idv - ha detto Antonio Di Pietro - che siamo stati gli unici in Parlamento a votare contro il rifinanziamento delle missioni militari, chiediamo con forza che si scriva la parola fine a tutto questo e che i nostri ragazzi tornino a casa». Per il segretario di Rifondazione comunista, Paolo Ferrero, quello di oggi è «l’ennesimo episodio che dimostra come quella in Afghanistan sia una vera e propria guerra e che le nostre truppe dovrebbero andarsene, subito». Anche per il leader di Sel, Nichi Vendola, «è giunto il momento di riportare a casa i nostri ragazzi».
Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha espresso ai familiari di Chierotti «i sentimenti della sua affettuosa vicinanza e della più sincera partecipazione al loro grande dolore» provocato dal «proditorio attacco». E messaggi di cordoglio sono arrivati anche dai presidenti di Camera e Senato, Gianfranco Fini e Renato Schifani.
Mentre a Roma il capo di Stato Maggiore dell’Esercito, Claudio Graziano, presenta il calendario 2013 della forza armata, dedicato proprio a 30 anni di missioni di pace in tutto il mondo, in Afghanistan, dunque, si spara. Lo scontro è avvenuto intorno alle 13.40, ora locale. Secondo le prime ricostruzioni, i militari italiani coinvolti erano impegnati in una attività di pattuglia congiunta della Task Force South East con unità del 207/o Corpo dell’esercito afgano nel villaggio di Siav, a circa 20 km a ovest della base operativa avanzata `Lavaredo´ di Bakwa - dove è basata la Task Force South East costituita dal 2/o reggimento alpini di Cuneo - quando sono stati attaccati con armi da fuoco da un gruppo di insorti.
Immediata, fa sapere il comando italiano, la reazione della pattuglia che ha subito messo in sicurezza l’abitato di Siav per poi prestare soccorso ai feriti, i quali dopo meno di trenta minuti sono stati evacuati in elicottero presso l’ospedale da campo di Farah, dove sono stati ricoverati. Tre hanno riportato ferite alle gambe e non sono in pericolo di vita. Il caporale Chierotti, gravemente colpito all’addome, è stato trasportato dall’ospedale di Farah alla struttura sanitaria di livello superiore di Camp Bastion. Ma il giovane, originario di Sanremo, è morto per il repentino aggravarsi delle condizioni cliniche, nonostante i tentativi di rianimazione.
La Procura di Roma ha aperto un fascicolo sull’accaduto. Attentato con finalità di terrorismo il reato configurato dagli inquirenti di Piazzale Clodio che sono ora in attesa di una serie di informative sulla dinamica della sparatoria.
Lo scontro fa capire come l’Afghanistan, a poco più di due anni dalla conclusione della missione Isaf decisa dalla Nato per fine 2014, è tutt’altro che pacificato. Anche nella regione Ovest, a guida italiana, dove sono impiegati i circa 3.500 militari del contingente nazionale. Ieri lo scoppio di un ordigno artigianale ha causato la morte di Salim Mobarez, capo del distretto di Porchaman nella provincia di Farah. Il giorno prima nel distretto di Obe - sempre nell’Ovest “italiano” - gli insorti hanno teso un agguato ad un reparto delle forze di sicurezza afgane causando tra sette e 12 morti.
Il premier Mario Monti, dopo il cordoglio per la morte del giovane militare, ha auspicato che «tutto il mondo politico e istituzionale si raccolga intorno alle forze armate italiane, confermando il pieno sostegno al loro impegno nelle aree di crisi ed in particolare all’opera encomiabile che prestano al servizio del nostro Paese nella cruciale fase di transizione istituzionale, stabilizzazione e pacificazione in Afghanistan». Il ministro della Difesa, Giampaolo Di Paola, si è stretto alla famiglia dell’alpino ucciso, «un ragazzo generoso e coraggioso e tale si è dimostrato fino all’ultimo momento. Tiziano non ti dimenticheremo. Grazie del tuo esempio quotidiano e del tuo impegno fino all’estremo sacrificio». Di Paola ha poi confermato che la missione non cambia. «Sappiamo - ha spiegato - che questa fase della presenza italiana in Afghanistan è la più delicata e complicata. Il Governo si è impegnato a rispettare le date del ritiro in accordo con gli alleati transatlantici, fino a completare la transizione verso le forze di sicurezza afgane».
Ma dal centrosinistra tornano a levarsi gli appelli al ritiro del contingente nazionale. «Noi dell’Idv - ha detto Antonio Di Pietro - che siamo stati gli unici in Parlamento a votare contro il rifinanziamento delle missioni militari, chiediamo con forza che si scriva la parola fine a tutto questo e che i nostri ragazzi tornino a casa». Per il segretario di Rifondazione comunista, Paolo Ferrero, quello di oggi è «l’ennesimo episodio che dimostra come quella in Afghanistan sia una vera e propria guerra e che le nostre truppe dovrebbero andarsene, subito». Anche per il leader di Sel, Nichi Vendola, «è giunto il momento di riportare a casa i nostri ragazzi».
Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha espresso ai familiari di Chierotti «i sentimenti della sua affettuosa vicinanza e della più sincera partecipazione al loro grande dolore» provocato dal «proditorio attacco». E messaggi di cordoglio sono arrivati anche dai presidenti di Camera e Senato, Gianfranco Fini e Renato Schifani.
Afghanistan, scontro a fuoco con insorti
Feriti quattro militari italiani
Ucciso un soldato dell'esercito di
Kabul Attaccata una pattuglia che operava con uomini dell'esercito locale. Un soldato afghano è rimasto ucciso
ROMA - Quattro militari italiani sono rimasti feriti in seguito a uno scontro a fuoco con insorti nella provincia di Farah, in Afghanistan, durante un'operazione congiunta con l'esercito afgano. Un soldato afgano è rimasto ucciso. I quattro non rischiano la vita.
Lo scontro a fuoco è avvenuto nel distretto di Bakwa, a sud di Herat, nel corso di un'operazione congiunta della Task Force South East con unità del 207° Corpo dell'esercito afgano. Secondo le prime ricostruzioni, i militari italiani coinvolti erano impegnati in una attività di pattuglia nell'abitato del villaggio di Siav (a circa 20 km a ovest della base operativa avanzata "Lavaredo" di Bakwa, dove è basata la Task Force South East costituita dal 2° Reggimento alpini) quando sono stati attaccati con armi da fuoco da un gruppo di insorti. Immediata la reazione della pattuglia che ha subito messo in sicurezza l'abitato di Siav per poi soccorrere
Sanità Campania, scure sui primari ce ne sono 130 più del previsto
di Gerardo Ausiello
NAPOLI - Cala la scure sui primari. Sono ancora troppi, nonostante i tagli messi in campo in questi mesi. Così la Regione, su pressing del ministero della Salute, corre ai ripari. L’obiettivo è ridurre del 10 per cento il numero delle strutture complesse (i reparti, ciascuno dei quali retto da un primario o da un facente funzioni) che sono circa 1.300: significa 130 primari in meno. Un ulteriore sforzo riguarderà le strutture semplici (che garantiscono servizi di supporto ai reparti): dalle 2.700 attuali si arriverà a 1.400. Dati che derivano dai parametri fissati dal ministero di Renato Balduzzi e a cui tutte le Regioni devono attenersi: in ambito ospedaliero sono previsti 17,5 posti letto in ogni struttura complessa mentre per ciascuna di queste ci saranno 1,31 strutture semplici. Più stringenti i paletti per l’ambito territoriale, di competenza delle Asl: ogni primario dovrà servire 13.515 residenti.
È tutto nero su bianco nel decreto 135, firmato dal governatore-commissario Stefano Caldoro, in cui vengono indicate le linee guida che i manager di aziende sanitarie e ospedaliere dovranno seguire per avviare le necessarie riorganizzazioni interne. Una volta completato l’iter burocratico e amministrativo previsto dalla legge, i direttori generali avranno 30 giorni di tempo per spiegare come e dove intervenire. La deadline è fissata per la fine dell’anno. La strada appare dunque in salita anche se la situazione risulta molto diversa rispetto a qualche anno fa. Basti pensare che nel 2010 in Campania le strutture complesse erano 2.048 (soltanto la Lombardia ne aveva di più, 2.413, ma con il doppio degli abitanti), quelle semplici addirittura 9.845, ovvero oltre il triplo di Lombardia (3.072) e Lazio (3.061) nonché quattro volte quelle di Sicilia (2.477), Veneto (2.390) ed Emilia Romagna (1.643).
Un discorso simile vale per il deficit: per effetto dei tagli e dell’aumento delle addizionali Irap e Irpef (qui si pagano le tasse più alte d’Italia) si è passati dai 774 milioni di passivo del 2009 ai 270 del 2011; quest’anno si punta al pareggio di bilancio per mettere fine al commissariamento.
Tali misure, fanno sapere gli esperti di Palazzo Santa Lucia, sono indispensabili per rimettere i conti in ordine ma non si tratta solo di questioni economiche: alla base della rivoluzione «c’è la scommessa di migliorare la qualità del servizio eliminando sprechi e inefficienze ereditate dal passato - spiega a tal proposito il senatore del Pdl Raffaele Calabrò, consigliere di Caldoro per la salute - Abbiamo avviato da tempo un percorso virtuoso che sta producendo risultati significativi e che ci ha portato praticamente ad azzerare il passivo accumulato. Bisogna proseguire lungo questa strada attraverso il gioco di squadra che deve coinvolgere tutti: istituzioni, sindacati, dirigenti e operatori sanitari.
Insieme potremo risolvere i difficili problemi che abbiamo di fronte». I sindacati, però, non ci stanno. Il coordinatore provinciale dell’Anaao, Franco Verde, va all’attacco: «L’assenza di linee guida per la formulazione delle piante organiche comporta caos e anarchia e può lasciare le singole aziende nelle condizioni di carenza e di esuberi e quindi nelle difficoltà attuali. Continuano, nel frattempo, i privilegi che il presidente Caldoro concede ai Policlinici universitari grazie a sregolati protocolli d’intesa».
Il presidente regionale dell’Anpo, Vittorio Russo, non ha dubbi: «Siamo disponibili a sopportare questi sacrifici purché rientrino in un processo di razionalizzazione della sanità campana che non comprometta i livelli essenziali di assistenza né la qualità dell’offerta. Occorre inoltre prevedere precise sanzioni per i direttori generali che non raggiungono gli obiettivi e non rispettano le scadenze». Quanto al ruolo degli Atenei, Russo chiarisce: «Finora i Policlinici hanno custodito gelosamente la loro autonomia rispetto al sistema sanitario. È necessario cambiare passo per dar vita a modelli di integrazione funzionale».
È tutto nero su bianco nel decreto 135, firmato dal governatore-commissario Stefano Caldoro, in cui vengono indicate le linee guida che i manager di aziende sanitarie e ospedaliere dovranno seguire per avviare le necessarie riorganizzazioni interne. Una volta completato l’iter burocratico e amministrativo previsto dalla legge, i direttori generali avranno 30 giorni di tempo per spiegare come e dove intervenire. La deadline è fissata per la fine dell’anno. La strada appare dunque in salita anche se la situazione risulta molto diversa rispetto a qualche anno fa. Basti pensare che nel 2010 in Campania le strutture complesse erano 2.048 (soltanto la Lombardia ne aveva di più, 2.413, ma con il doppio degli abitanti), quelle semplici addirittura 9.845, ovvero oltre il triplo di Lombardia (3.072) e Lazio (3.061) nonché quattro volte quelle di Sicilia (2.477), Veneto (2.390) ed Emilia Romagna (1.643).
Un discorso simile vale per il deficit: per effetto dei tagli e dell’aumento delle addizionali Irap e Irpef (qui si pagano le tasse più alte d’Italia) si è passati dai 774 milioni di passivo del 2009 ai 270 del 2011; quest’anno si punta al pareggio di bilancio per mettere fine al commissariamento.
Tali misure, fanno sapere gli esperti di Palazzo Santa Lucia, sono indispensabili per rimettere i conti in ordine ma non si tratta solo di questioni economiche: alla base della rivoluzione «c’è la scommessa di migliorare la qualità del servizio eliminando sprechi e inefficienze ereditate dal passato - spiega a tal proposito il senatore del Pdl Raffaele Calabrò, consigliere di Caldoro per la salute - Abbiamo avviato da tempo un percorso virtuoso che sta producendo risultati significativi e che ci ha portato praticamente ad azzerare il passivo accumulato. Bisogna proseguire lungo questa strada attraverso il gioco di squadra che deve coinvolgere tutti: istituzioni, sindacati, dirigenti e operatori sanitari.
Insieme potremo risolvere i difficili problemi che abbiamo di fronte». I sindacati, però, non ci stanno. Il coordinatore provinciale dell’Anaao, Franco Verde, va all’attacco: «L’assenza di linee guida per la formulazione delle piante organiche comporta caos e anarchia e può lasciare le singole aziende nelle condizioni di carenza e di esuberi e quindi nelle difficoltà attuali. Continuano, nel frattempo, i privilegi che il presidente Caldoro concede ai Policlinici universitari grazie a sregolati protocolli d’intesa».
Il presidente regionale dell’Anpo, Vittorio Russo, non ha dubbi: «Siamo disponibili a sopportare questi sacrifici purché rientrino in un processo di razionalizzazione della sanità campana che non comprometta i livelli essenziali di assistenza né la qualità dell’offerta. Occorre inoltre prevedere precise sanzioni per i direttori generali che non raggiungono gli obiettivi e non rispettano le scadenze». Quanto al ruolo degli Atenei, Russo chiarisce: «Finora i Policlinici hanno custodito gelosamente la loro autonomia rispetto al sistema sanitario. È necessario cambiare passo per dar vita a modelli di integrazione funzionale».
Operazione "Reale", chiesta conferma delle condanne
Per le cosche del reggino e l'ex consigliere Zappalà
Il procuratore generale Ezio Arcadi ha sostenuto davanti la Corte d'Appello la necessità di confermare le pene inflitte in primo grado. Nel processo sono coinvolti Rocco Morabito, figlio di Giuseppe Morabito "Tiradrittu", e Giuseppe Pelle, figlio di Antonio Pelle "Gambazza", Giovanni Ficara, Antonio Latella e l'ex amministratore della Regione
REGGIO CALABRIA - Al processo scaturito dall'operazione «Reale», il procuratore generale ha chiesto la conferma delle sentenze di primo grado per tutti gli imputati. Ezio Arcadi, sostituto procuratore generale, ha chiesto che la Corte d’Appello di Reggio Calabria confermi le pene già inflitte in primo grado per tutti gli imputati del proceso. Tra gli imputati vi sono presunti elementi di spicco delle cosche di 'ndrangheta Pelle di Bovalino e San Luca, e Ficara di Reggio Calabria, nonchè l’ex consigliere regionale della Calabria Santi Zappalà.Tra gli altri imputati, Rocco Morabito, figlio di Giuseppe Morabito "Tiradrittu", e Giuseppe Pelle, figlio di Antonio Pelle "Gambazza", sono stati condannati in primo grado a 20 anni di reclusione; Giovanni Ficara e Antonio Latella sono stati condannati a 18 anni. Quattro anni di reclusione, per corruzione elettorale aggravata, furono inflitti invece all’ex consigliere regionale Santi Zappalà.
Provincia di Vibo: operazione della Finanza
Fermate 2 persone per il buco milionario
Questa mattina la Guardia di Finanza ha effettuato ulteriori perquisizioni presso la sede dell'Amministrazione provinciale di Vibo Valentia in relazione all'inchiesta sul buco scoperto nei fondi per l'alluvione che sarebbe stato generato da una dipendente
VIBO VALENTIA - La dipendente della Provincia di Vibo Valentia, Mirella Currò, 40 anni, e il marito Baldassarre Bruzzano, di 44, sono stati sottoposti a fermo dagli uomini della Gardia di Finanza per peculato in concorso. A più riprese, fra agosto del 2009 ed il novembre del 2011, si sarebbero appropriati di un milione 300.000 euro, attraverso mandati di pagamento a beneficio di congiunti e parenti. I due avrebbero approfittato della posizione, negli uffici amministrativi dell’ente, per poter effettuare le operazioni finanziarie e contabili. L’operazione è stata chiamata in codice «Odor Lucri» ed è stata coordinata dalla Procura della Repubblica di Vibo. Le Fiamme gialle, stamani, hanno, inoltre, sequestrato documentazione negli uffici dell’ente. Al momento non si esclude la possibilità che vi possano essere ulteriori indagati rispetto ai quattro già noti.
L'attività investigativa era iniziata il 13 settembre scorso, dopo la scoperta di un ammanco sui fondi pubblici da parte dell’Amministrazione Provinciale di Vibo Valentia, immediatamente denunciato alle Autorità competenti. La complessa attività d’indagine avrebbe permesso alle Fiamme Gialle di appurare che i fermati, attraverso vari artifici, si erano indebitamente appropriati di 1.300.000 euro circa. Secondo quanto accertato, la donna, in concorso con altri 3 indagati, nel periodo da agosto 2009 a novembre 2011 ha emesso numerosi mandati di pagamento per false prestazioni di servizio a nome di suoi congiunti, inducendo in errore l’ amministrazione d’appartenenza che, in più riprese, aveva liquidato le somme. Avendo fondato motivo di ritenere che fosse in atto un’attività diretta ad occultare i proventi dell’attività illecita nonchè un pericolo di fuga, la magistratura ha emesso misure cautelari di nei confronti di due degli indagati e disposto perquisizioni e sequestri di documentazione anche negli uffici dell’ente pubblico. L'attività ispettiva sinora posta in essere avrebbe permesso di individuare la tecnica utilizzata dagli indagati per appropriarsi delle provvidenze pubbliche. È stata richiesta, per questo scopo, la collaborazione del Nucleo Speciale di Polizia Valutaria – Gruppo di Reggio Calabria.
Alla Scala dei Turchi in arrivo le ruspe
Legambiente: "Accogliamo con piacere la notizia che presto la spiaggia verrà liberata dall'ecomostro di cemento. Chiediamo che l'ingiunzione si estenda anche a Lido Rossello"
di CALOGERO GIUFFRIDA
REALMONTE. «Accogliamo con piacere la notizia che presto la spiaggia di Scala dei Turchi verrà liberata dall'ecomostro di cemento. Apprezziamo l'iniziativa della Procura di Agrigento anche se non ci accontentiamo: chiediamo che l'ingiunzione al Comune si estenda anche ai manufatti di Lido Rossello, che dal punto di vista giuridico sono nelle stesse condizioni, tanto che una sentenza definitiva ha sancito la loro insanabilità». Così Vittorio Cogliati Dezza, presidente nazionale di Legambiente, e Mimmo Fontana, presidente di Legambiente Sicilia, commentano l'intervento della magistratura sulla demolizione dell'ecomostro della Scala dei Turchi.
«Approviamo con favore il sostegno della Procura finalizzato ad abbattere l'ecomostro accanto alla Scala dei Turchi. Ci siamo messi subito a lavoro per capire quale è la situazione e quale iter seguire per la demolizione anche in virtù delle nuove leggi in materia. Ieri abbiamo svolto un incontro con i dirigenti dell'Utc, ha detto il sindaco di Realmonte, Pietro Puccio, intervenendo dopo che il sostituto procuratore della Repubblica, Antonella Pandolfi, con il coordinamento del procuratore aggiunto, Ignazio Fonzo, gli ha notificato un'ingiunzione a demolire la costruzione abusiva già nella "blacklist" del ministero dell'Ambiente. «Se non siamo intervenuti fino ad ora - sottolinea il sindaco - non è per qualche inadempienza da parte nostra ma perché il giudizio del Cga per quanto riguarda l'albergo di Scala dei Turchi è stato favorevole ai proprietari che addirittura hanno chiesto al Comune un risarcimento danni di 50 milioni di euro».
Una struttura che fa rabbrividire i turisti che sempre più numerosi arrivano alla Scala dei Turchi. Come d'altronde gli altri ecomostri poco più in là, verso il faro, a Capo Rossello, quelli che forse saranno salvati, almeno a metà. Furono costruite nel 1992 e nel 1994, dopo le denunce di Legambiente, furono arrestati membri della commissione edilizia e alcuni imprenditori, condannati prima e assolti poi. Arrivarono altre denunce di Legambiente, ma gli scheletri di cemento sono ancora lì sulle dune di sabbia dorata all'ombra della costa bianca.
«Qui la situazione è diversa - spiega Puccio -. I titolari avevano la concessione edilizia in conformità ai pareri della Commissione regionale urbanistica dell'assessorato Territorio e Ambiente, che non è stata mai annullata. E diversamente da quello di Scala dei Turchi i lavori furono eseguiti in conformità al progetto iniziale. Mentre sulla vicenda c'è un giudizio pendente davanti al Tar, i proprietari delle tre villette a Capo Rossello - spiega il primo cittadino - hanno presentato un progetto di completamento dell'opera che prevede la demolizione del primo piano, l'ultimazione del piano terra e la rinuncia alla costruzione di altre villette inizialmente previste dal progetto. Per il Comune il parere potrebbe essere favorevole, ma si attende il parere della Soprintendenza ai Beni culturali di Agrigento».
«Approviamo con favore il sostegno della Procura finalizzato ad abbattere l'ecomostro accanto alla Scala dei Turchi. Ci siamo messi subito a lavoro per capire quale è la situazione e quale iter seguire per la demolizione anche in virtù delle nuove leggi in materia. Ieri abbiamo svolto un incontro con i dirigenti dell'Utc, ha detto il sindaco di Realmonte, Pietro Puccio, intervenendo dopo che il sostituto procuratore della Repubblica, Antonella Pandolfi, con il coordinamento del procuratore aggiunto, Ignazio Fonzo, gli ha notificato un'ingiunzione a demolire la costruzione abusiva già nella "blacklist" del ministero dell'Ambiente. «Se non siamo intervenuti fino ad ora - sottolinea il sindaco - non è per qualche inadempienza da parte nostra ma perché il giudizio del Cga per quanto riguarda l'albergo di Scala dei Turchi è stato favorevole ai proprietari che addirittura hanno chiesto al Comune un risarcimento danni di 50 milioni di euro».
Una struttura che fa rabbrividire i turisti che sempre più numerosi arrivano alla Scala dei Turchi. Come d'altronde gli altri ecomostri poco più in là, verso il faro, a Capo Rossello, quelli che forse saranno salvati, almeno a metà. Furono costruite nel 1992 e nel 1994, dopo le denunce di Legambiente, furono arrestati membri della commissione edilizia e alcuni imprenditori, condannati prima e assolti poi. Arrivarono altre denunce di Legambiente, ma gli scheletri di cemento sono ancora lì sulle dune di sabbia dorata all'ombra della costa bianca.
«Qui la situazione è diversa - spiega Puccio -. I titolari avevano la concessione edilizia in conformità ai pareri della Commissione regionale urbanistica dell'assessorato Territorio e Ambiente, che non è stata mai annullata. E diversamente da quello di Scala dei Turchi i lavori furono eseguiti in conformità al progetto iniziale. Mentre sulla vicenda c'è un giudizio pendente davanti al Tar, i proprietari delle tre villette a Capo Rossello - spiega il primo cittadino - hanno presentato un progetto di completamento dell'opera che prevede la demolizione del primo piano, l'ultimazione del piano terra e la rinuncia alla costruzione di altre villette inizialmente previste dal progetto. Per il Comune il parere potrebbe essere favorevole, ma si attende il parere della Soprintendenza ai Beni culturali di Agrigento».
Catarina Migliorini: vende la sua verginità per pagarsi gli studi
Perdere qualcosa di importante per guadagnare centinaia di migliaia di dollari. E’ la scelta fatta da Catarina Migliorini, una studentessa ventenne brasiliana di origine italiana che ha venduto la sua verginità su un sito di aste online per la cifra monstre di 780mila dollari. La notizia ha naturalmente destato scalpore ovunque. Ma a stupire ulteriormente è stato anche il modo in cui sono state gestite l’operazione e la macchina organizzativa per la ‘compravendita’. A promuovere questo affare ai limiti dell’etica è stato un regista di documentari, Justin Sisely, che per girare un documentario ha letteralmente venduto la ‘prima volta’ di Catarina e di un altro ragazzo russo, il ventunenne Alexander. Il tutto, naturalmente, con il loro consenso.
ICatarina Migliorini sul sito dove è stata venduta la sua verginit …
Il luogo in cui sono andate in porto le trattative è il sito Internet australiano virginswanted.com.au, dove le foto dei due giovani appaiono al momento marchiate con la scritta “sold”, venduto. Dal portale si apprende che la verginità di Catarina Migliorini è stata acquistata da un uomo giapponese, con il nickname Natsu, che ha battuto tutte le altre offerte provenute dai quattro angoli del pianeta mettendo sul tavolo appunto 780mila dollari. La donna che invece avrà la responsabilità di far acquisire ad Alexander lo status di “non illibato” è una signora brasiliana che si è presentata come Nene B. e ha vinto l’asta offrendo ‘appena’ 3mila dollari. Sul portale si legge inoltre per partecipare all’asta bastava anche un falso nome ma la regola richiedeva di fornire un indirizzo e-mail autentico e una cauzione di 50 dollari australiani.
La ragazza, ha detto il regista che ha organizzato l’operazione, si incontrerà con il suo ‘acquirente’ su un aereo e consumerà il suo primo rapporto intimo in un luogo segreto e in modo sicuro: il giapponese si sottoporrà a visite mediche prima dell’incontro e dovrà utilizzare obbligatoriamente un preservativo. A colpire sono i motivi che hanno spinto Catarina, studentessa di educazione fisica, ad accettare la provocatoria offerta: “E’ solo un lavoro”, ha detto la Migliorini ai media brasiliani. “In questo modo riesco a viaggiare, a girare un film e a guadagnare denaro. E poi se lo faccio una sola volta nella vita non divento mica una prostituta”.
Per la sua scelta la studentessa si è esposta a numerose critiche. I giornali brasiliani riportano numerosi interventi di persone che stigmatizzano la decisione sostenendo che la verginità è un valore fondamentale che non può essere svenduto, qualunque sia il prezzo pagato. Ma nuove critiche potrebbero essere in arrivo. Stando alle dichiarazioni della ragazza, il 90% soldi guadagnati andranno devoluti in beneficienza. Tuttavia l’organizzatore del progetto è scettico e preciso: “Tutte le volte che abbiamo parlato, lei ha sempre detto che si trattava di una decisione di tipo imprenditoriale per lei. Ora però la storia è diventata molto nota in Brasile, e se non darà davvero questi soldi a qualche ente di beneficenza, sarà in trappola”.
martedì 23 ottobre 2012
Messineo, "Agenzie scommesse: il nuovo business di Cosa nostra"
Lo denuncia il procuratore di Palermo illustrando i particolari dell'operazione antimafia. Sette agenzie, tutte nel quartiere Noce, sarebbero riconducibili al boss Chiovaro
PALERMO. "Da questa indagine emerge che "Cosa nostra" è sempre in grado di reinventarsi trovando nuove occasioni di guadagno come, in questo caso, le agenzie di scommesse". Lo denuncia il procuratore di Palermo Francesco Messineo che ha illustrato, durante una conferenza stampa, i particolari dell'operazione antimafia che ha portato all'arresto di 41 tra boss, estorsori e prestanome.
Nell'ambito dell'operazione, che ha individuato i nuovi capi del mandamento mafioso della 'Noce', sono state sequestrate sette agenzie di scommesse che sarebbero riconducibili al boss Fabio Chiovaro e che si trovano tutte nel quartiere Noce.
Sul nuovo business di "Cosa nostra" è intervenuto anche il procuratore aggiunto Antonio Ingroia che ha coordinato le indagini della polizia. "In questo settore - ha detto - c'é una capillare presenza mafiosa. Si tratta di un investimento che ha grandi potenzialità per il riciclaggio". Secondo Ingroia "nonostante i colpi subiti la mafia mantiene un dinamismo criminale che le consente di avere un efficace controllo del territorio che si manifesta sia in modo tradizionale, ad esempio con le estorsioni, sia con investimenti in nuove attività economiche".
Nell'ambito dell'operazione, che ha individuato i nuovi capi del mandamento mafioso della 'Noce', sono state sequestrate sette agenzie di scommesse che sarebbero riconducibili al boss Fabio Chiovaro e che si trovano tutte nel quartiere Noce.
Sul nuovo business di "Cosa nostra" è intervenuto anche il procuratore aggiunto Antonio Ingroia che ha coordinato le indagini della polizia. "In questo settore - ha detto - c'é una capillare presenza mafiosa. Si tratta di un investimento che ha grandi potenzialità per il riciclaggio". Secondo Ingroia "nonostante i colpi subiti la mafia mantiene un dinamismo criminale che le consente di avere un efficace controllo del territorio che si manifesta sia in modo tradizionale, ad esempio con le estorsioni, sia con investimenti in nuove attività economiche".
Anonymous pubblica online migliaia documenti riservati della polizia
ROMA (Reuters) - Hacker-attivisti del gruppo Anonymous Italia hanno diffuso su Internet alcune migliaia di documenti che dicono di aver prelevato da server e portali riservati della polizia di Stato, da verbali di manifestazioni a numeri di cellulari riservati, passando per semplici email personali, buste-paga e immagini porno-soft.
Un portavoce del Viminale ha detto a Reuters che i tecnici della polizia "stanno verificando" la documentazione pubblicata, e che per il momento non ci sono dichiarazioni."Da settimane ci divertiamo a curiosare nei vostri server, nelle vostre e-mail, i vostri portali, documenti, verbali e molto altro", dice un post pubblicato sul blog di Anonymous Italia alla data di ieri, 22 ottobre, col titolo "AntiSecITA" (operazione contro le forze di sicurezza in Italia, ndr).
"Siamo in possesso di una notevole mole di materiale: ad esempio documenti sui sistemi di intercettazioni, tabulati, microspie di ultima generazione, attività sotto copertura; file riguardanti i Notav e i dissidenti; varie circolari ma anche numerose mail, alcune delle quali dimostrano la vostra disonestà (ad esempio una comunicazione in cui vi viene spiegato come appropriarvi dell'arma sequestrata ad un uomo straniero senza incorrere nel reato di ricettazione)".
"Il livello di sicurezza dei vostri sistemi, al contrario di quanto pensassimo, è davvero scadente, e noi ne approfittiamo per prenderci la nostra vendetta", dicono ancora gli hacker-attivisti, già protagonisti di attacchi ai siti web del governo e anche del Vaticano.
I documenti sono stati diffusi in una serie di cartelle, pubblicati anche sul sito Paranoia (www.par-anoia.net) e altri indirizzi web. Riguardano questure di varie città e uffici nazionali, e coprono un arco temporale di diversi anni, dal 1998 almeno a pochi giorni fa.
Non è la prima volta che Anonymous Italia compie attacchi hacker contro le forze dell'ordine. Nel luglio del 2011 gli attivisti annunciarono di essersi impadroniti di file dell'agenzia anticrimine italiana su diverse organizzazioni internazionali, per un totale di oltre 8 gigabyte, archiviati sui server del Centro Nazionale Anticrimine Informatico per la Protezione delle Infrastrutture Critiche (Cnaipic).
Alcuni giorni prima, la polizia delle comunicazioni aveva annunciato a sua volta di aver identificato "il promotore ed alcuni esponenti di rilievo della cellula italiana" del gruppo. Il leader, secondo gli inquirenti, era un attivista residente in Canton Ticino noto come "Phre". Insieme a lui le autorità avevano denunciato altre 14 persone, tra cui sei minorenni.
(Massimiliano Di Giorgio)
Una voragine di sei miliardi
PALERMO - Un buco di sei miliardi. A tanto ammonterà a fine anno, secondo la Corte dei Conti, il deficit del bilancio regionale. Una voragine destinata a salire. Nel nuovo numero di ASud'Europa, settimanale del Centro Pio La Torre, un'analisi impietosa e dettagliata dei conti della Regione siciliana. Dal 2007 al 2011 il debito è più che raddoppiato, frutto dell'aumento della spesa per il personale e per la spesa sanitaria, che ha un'incidenza del 48% sull'intero bilancio regionale.
Pesano anche le partecipazioni regionali: i dipendenti delle società regionali sono infatti oltre 7.000 e richiedono oneri superiori a 220 milioni di euro annui. Altro versante critico per la finanza locale è quello della gestione dei rifiuti, ove emergono passività degli enti locali per oltre 505 milioni di euro, spesso non correttamente contabilizzate.
Il principale creditore è lo Stato, con il ministero delle Finanze seguito dalla Cassa depositi e prestiti. Il resto del debito è composto da altri mutui contratti con la Banca europea degli investimenti e da obbligazioni. Per far fronte allo scoperto, nel 2011, la Regione ha speso 431 milioni. La maggior parte - 228 - sono interessi; il resto serve a rimborsare i prestiti- Male, per la Corte, la costruzione dei documenti di bilancio 2012-2014, definita "densa di interrogativi": iniziata con il Dpef e proseguita con il bilancio a legislazione vigente, giunta a conclusione solo a fine aprile 2012, "dopo aver bruciato tutto il margine consentito all'esercizio provvisorio".
Sicilia: 1,3 miliardi per la sanità
PALERMO - Oltre un miliardo di euro sarà investito in Sicilia nei prossimi mesi per l'edilizia sanitaria e il potenziamento delle alte tecnologie. Il nucleo di valutazione per gli investimenti pubblici del ministero della Salute ha infatti approvato il programma degli investimenti sanitari della Regione siciliana (Dupiss) predisposto dall'assessorato regionale della Salute dopo un lungo lavoro di programmazione.
Si tratta di una svolta storica per il sistema sanitario siciliano che potrà realizzare nuovi ospedali e ristrutturare presidi ospedalieri e territoriali: il Dupiss, inoltre, va a integrarsi con gli investimenti già avviati sulle Alte tecnologie con i Fondi europei. La parte più rilevante degli investimenti è finanziata con il cosiddetto art. 20 della Legge finanziaria dell'88, successivamente rifinanziata, che prevede un apporto dei fondi regionali pari al 5%: si tratta di 845 milioni (803 dello Stato, 42 della Regione). Altri 140 milioni circa saranno recuperati attraverso l'alienazione dei beni immobili di proprietà delle aziende sanitarie e con l'apporto dei privati tramite le forme di partnership pubblico - privato consentite dalla legge.
A queste somme vanno aggiunti i circa 200 milioni del PO Fesr 2007 - 2013 per le alte tecnologie, 90 milioni di euro per il progetto sull'adroterapia e altri 90 milioni di euro per il distretto biomedico (Pon ricerca). Il programma dell'art. 20 prevede 79 interventi in tutte le province della Sicilia tra i quali il nuovo Ospedale Policivico di Palermo (che sostituirà il Civico e il Policlinico), il nuovo Rimed - Ismett di Carini, il nuovo Ospedale di Siracusa e il completamento dell'Ospedale di Ragusa, il nuovo pronto soccorso dell'ospedale Garibaldi di Catania, i poliambulatori del Cannizzaro di Catania, il nuovo presidio sanitario polivalente di Alcamo, il nuovo Pta di Gela, l'adeguamento dei presidi ospedalieri di Casteltermini, Canicattì e Nicosia e il nuovo Ospedale di Sant'Agata.
Il documento programmatico integra sistematicamente tutte le fonti finanziarie a disposizione per il settore della salute: questo innovativo procedimento, apprezzato dal Ministero, consentirà di recuperare anche i circa 60 milioni residui del cosiddetto art. 71 della legge 448 del 98 che riguarda le città metropolitane.
Questi fondi saranno immediatamente disponibili e interesseranno l'Ospedale Civico di Palermo (ampliamento Pronto soccorso, acquisto attrezzature per la Neuroradiologia, adeguamento sistema informatico aziendale), la riqualificazione del presidio Ingrassia di Palermo, la realizzazione di una nuova rete fognaria e la sistemazione della rete viaria del Policlinico di Palermo), l'ammodernamento e la manutenzione di alcune strutture degli ospedali Garibaldi e Cannizzaro e del Policlinico di Catania.
Il Dupiss (documento unitario di programmazione degli investimenti sanitari in Sicilia) per la prima volta consente di avere contezza di tutta la programmazione sanitaria, indipendentemente dalla forma di finanziamento e ha tenuto conto dei fabbisogni e delle priorità di intervento necessari a garantire qualità, equità ed accessibilità all'offerta dei servizi sanitari. Soltanto altre cinque regioni italiane hanno ottenuto lo sblocco dei fondi in seguito a una corretta programmazione degli investimenti.
Mafia imponeva pizzo a Palermo anche per fiction Rai
PALERMO (Reuters) - La polizia di Palermo ha arrestato questa notte una quarantina di presunti mafiosi appartenenti a un "mandamento" che secondo gli investigatori ha imposto il "pizzo" anche a una società di produzione tv.
Lo riferiscono la questura palermitana e fonti della polizia.Gli agenti della Squadra mobile hanno arrestato, dice un comunicato, 41 persone accusate di associazione a delinquere di tipo mafioso, estorsione, traffico di droga, possesso ed uso illegale di armi da fuoco e altri reati.
Per la polizia si tratta di "una delle più imponenti operazioni antimafia del recente periodo volta a smantellare un intero mandamento mafioso cittadino, quello della 'Noce'", composto da tre "famiglie", Noce, Altarello e Cruillas-Malaspina.
Il racket non prendeva di mira soltanto numerosi commercianti e imprenditori della zona, ma aveva colpito, dicono fonti investigative, anche un'importante casa di produzione tv, Magnolia Fiction - una partecipata della De Agostini - che a Palermo stava girando "I segreti dell'acqua", uno sceneggiato con Riccardo Scamarcio andato in onda sulla Rai nel settembre 2011.
Le minacce sul set sarebbero arrivate tramite i figli e il titolare di una società palermitana attraverso cui la mafia avrebbe imposto persino la scelta di maestranze e controfigure, dicono le fonti.
Il mandamento non si finanziava soltanto con il racket, ma anche con numerose agenzie di scommesse sportive che sono state sequestrate dalla forze dell'ordine, dice la Questura.
L'inchiesta - coordinata dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia e dai sostituti Francesco Del Bene, Gianluca De Leo e Lia Sava - ha anche accertato che a un certo punto all'interno del gruppo mafioso c'è stato un tentativo di prendere il potere da parte di altri esponenti, ma i vertici delle "famiglie" hanno subito reagito contro i ribelli a colpi di attentati incendiari.
Ecco l'elenco delle persone fermate oggi dalla polizia a Palermo
PALERMO. Questo è l'elenco degli arrestati nell'ambito dell'operazione antimafia condotta oggi dalla polizia a Palermo: Fabio Chiovaro, Franco Picone, Gaetano Maranzano, Vincenzo Tumminia, Antonino e Gaspare Bonura, Santino Chiovaro, Luca Crini, Girolamo Albanese, Marcello Argento, Tommaso e Gaetano Castagna, Carlo Castagna, Cosimo Grasso, Giuseppe Bonura, Giovanni Matina, Santo Pitarresi, Cosimo Michele Sciarabba, Salvatore Seidita, Felisiano e Tommaso Tognetti, Giuseppe Sammaritano, Girolamo e Giovanni Seidita, Salvatore Seidita, Marcello Argento, Giovanni Guddo, Domenico Spica, Massimiliano Ingarao, Giuseppe Enea, Giorgio Perrone, Umberto Sammaritano, Vincenzo Toscano, Vincenzo Landolina, Alessandro Guddo, Vincenzo Acone, Silvestro Castelluccio, Francesco Vella, Dario Giunta, Salvatore D'Amico e Giacomo Nicolò
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