Momenti di tensione: aggrediti operatori tv
NAPOLI - Un giovane di 24 anni, Raffaele Costagliola, è stato ucciso questo pomeriggio in via Traccia, nel quartiere napoletano di Poggioreale. La vittima era già nota alle forze dell'ordine. Costagliola era in casa, al piano terra, quando sono arrivati i sicari che hanno bussato alla sua porta. Appena aperta la porta di casa hanno fatto fuoco. Costagliola è morto sul colpo.
Sul posto si registrano momenti di forte tensione. Sono tre gli operatori televisivi aggrediti. Gli operatori sono giunti sul posto per le riprese televisive del luogo dove oggi è stato ucciso da due killer il giovane di 24 anni. Un operatore di Sky ha dovuto far ricorso alle cure dei sanitari perché è stato colpito alla testa da alcuni sconosciuti. Attualmente è ricoverato al Loreto Mare. Gli aggressori, al momento, non sono stati ancora identificati. Indagano i carabinieri.
Un dei presunti aggressori agli operatori televisivi è stato identificato dai carabinieri. Il presunto aggressore è ora negli uffici della caserma dei carabinieri di Poggiorale. La sua posizione è, al momento, al vaglio degli inquirenti.
Questo blog di notorietà internazionale, per protesta contro uno “Stato Latitante” non verrà aggiornato.
venerdì 30 settembre 2011
Mafia, arrestato un latitante a Gela
Fermato dopo sette mesi di irreperibilità Pasquale Giannone, 49 anni. È accusato di aver partecipato nel 98 in Germania al sequestro di un imprenditore d Niscemi
CALTANISSETTA. La squadra mobile di Caltanissetta ha arrestato ieri, dopo sette mesi di irreperibilità, Pasquale Giannone, 49 anni, di Gela, accusato di avere partecipato nel '98 a Colonia, in Germania, al sequestro di un imprenditore di Niscemi (CL) che per la liberazione pagò un riscatto di 100 mila marchi. I cinque complici di Giannone furono arrestati lo scorso 22 novembre e tra questi Alessandro Emmanuello, 44 anni, detenuto in regime di 41 bis a Viterbo.
La cattura è avvenuta su ordine del gip di Caltanissetta, Alessandra Giunta, e di Milano, Maria Cristina Mannocci, su richiesta delle Dda di Caltanissetta e e del capoluogo lombardo. Giannone, condannato in passato per associazione mafiosa, appartenente alla famiglia degli Emmanuello di Gela, viveva in Germania e tre giorni fa era arrivato a Gela per trascorrere un periodo di vacanza. Quando è stato arrestato stava bevendo un caffé in un bar. E' stato possibile ricostruire tempi e modalità del sequestro anche grazie alla collaborazione di tre personaggi di spicco di Cosa nostra, i gelesi Nunzio Licata e Fortunato Ferracane, il niscemese Antonino Pitrolo e Giovanni Piscopo, di Vittoria (RG).
CALTANISSETTA. La squadra mobile di Caltanissetta ha arrestato ieri, dopo sette mesi di irreperibilità, Pasquale Giannone, 49 anni, di Gela, accusato di avere partecipato nel '98 a Colonia, in Germania, al sequestro di un imprenditore di Niscemi (CL) che per la liberazione pagò un riscatto di 100 mila marchi. I cinque complici di Giannone furono arrestati lo scorso 22 novembre e tra questi Alessandro Emmanuello, 44 anni, detenuto in regime di 41 bis a Viterbo.
La cattura è avvenuta su ordine del gip di Caltanissetta, Alessandra Giunta, e di Milano, Maria Cristina Mannocci, su richiesta delle Dda di Caltanissetta e e del capoluogo lombardo. Giannone, condannato in passato per associazione mafiosa, appartenente alla famiglia degli Emmanuello di Gela, viveva in Germania e tre giorni fa era arrivato a Gela per trascorrere un periodo di vacanza. Quando è stato arrestato stava bevendo un caffé in un bar. E' stato possibile ricostruire tempi e modalità del sequestro anche grazie alla collaborazione di tre personaggi di spicco di Cosa nostra, i gelesi Nunzio Licata e Fortunato Ferracane, il niscemese Antonino Pitrolo e Giovanni Piscopo, di Vittoria (RG).
Droga davanti alle scuole, 6 arresti a Bagheria
Ricostruita la mappa dello spaccio nel comune alle porte di Palermo. Decisive le segnalazioni di insegnanti e genitori. Le dosi erano chiamate “pizze” o “spaghetti”
PALERMO. Spacciavano cocaina e hashish davanti alle scuole. Con questa accusa i carabinieri hanno arrestato sei persone. I provvedimenti cautelari sono stati emessi dal gip del Tribunale di Palermo, Giuliano Castiglia. L'indagine è coordinata dal procuratore aggiunto Ignazio De Francisci e dal sostituto Ilaria Auricchio. L'operazione, chiamata 'Green park', è l'epilogo di un'attività investigativa sviluppata nel 2010 a Bagheria (Palermo) che ha preso le mosse dalle numerose segnalazioni di genitori e insegnanti contro la vendita di droga. I servizi di osservazione a distanza e le telecamere dei carabinieri hanno ricostruito la mappa dello spaccio. Le dosi erano chiamate 'pizze' o 'spaghetti' dagli arrestati che si approvvigionavano a Palermo.
Il "grossista" era C.A., 26 anni di Palermo, presso il quale si rifornivano gli indagati bagheresi. In particolare, la droga veniva confezionata da L.G., 19 anni di Bagheria, e venduta in dosi al prezzo di 10 euro per l'hashish e 50 per la cocaina da altre quattro persone tra i 25 e i 35 anni. Questi prezzi garantivano agli spacciatori utili del 300%. Inoltre i pusher utilizzavano parenti incensurati per la custodia e il trasporto degli stupefacenti. La convivente di uno spacciatore infatti, è stata trovata durante un controllo con 15 grammi di cocaina, suddivisa in dosi da mezzo grammo, occultata nella parti intime. "Si tratta - dice il comandante provinciale dei carabinieri di Palermo, Teo Luzi - di giovani con basso o inesistente grado di scolarizzazione, provenienti da famiglie difficili, che vivono nei quartieri più degradati della città e nei sobborghi maggiormente delinquenziali della provincia".
PALERMO. Spacciavano cocaina e hashish davanti alle scuole. Con questa accusa i carabinieri hanno arrestato sei persone. I provvedimenti cautelari sono stati emessi dal gip del Tribunale di Palermo, Giuliano Castiglia. L'indagine è coordinata dal procuratore aggiunto Ignazio De Francisci e dal sostituto Ilaria Auricchio. L'operazione, chiamata 'Green park', è l'epilogo di un'attività investigativa sviluppata nel 2010 a Bagheria (Palermo) che ha preso le mosse dalle numerose segnalazioni di genitori e insegnanti contro la vendita di droga. I servizi di osservazione a distanza e le telecamere dei carabinieri hanno ricostruito la mappa dello spaccio. Le dosi erano chiamate 'pizze' o 'spaghetti' dagli arrestati che si approvvigionavano a Palermo.
Il "grossista" era C.A., 26 anni di Palermo, presso il quale si rifornivano gli indagati bagheresi. In particolare, la droga veniva confezionata da L.G., 19 anni di Bagheria, e venduta in dosi al prezzo di 10 euro per l'hashish e 50 per la cocaina da altre quattro persone tra i 25 e i 35 anni. Questi prezzi garantivano agli spacciatori utili del 300%. Inoltre i pusher utilizzavano parenti incensurati per la custodia e il trasporto degli stupefacenti. La convivente di uno spacciatore infatti, è stata trovata durante un controllo con 15 grammi di cocaina, suddivisa in dosi da mezzo grammo, occultata nella parti intime. "Si tratta - dice il comandante provinciale dei carabinieri di Palermo, Teo Luzi - di giovani con basso o inesistente grado di scolarizzazione, provenienti da famiglie difficili, che vivono nei quartieri più degradati della città e nei sobborghi maggiormente delinquenziali della provincia".
Maxi traffico di droga, 67 arresti a Palermo
Operazione della polizia che ha scoperto un’organizzazione composta da palermitani, nigeriani, tunisini e ghanesi. Gli stupefacenti arrivavano da Spagna, Venezuela, Nigeria, Mali e Olanda
PALERMO. Vasta operazione antidroga a Palermo condotta dai poliziotti del commissariato Libertà e dalla sezione Antidroga della Mobile. Gli agenti hanno eseguito 67 misure cautelari nei confronti di un gruppo di italiani e di alcuni africani indagati per associazione a delinquere finalizzata al traffico internazionale e allo spaccio di stupefacenti.
L'associazione criminale, composta da palermitani, nigeriani, tunisini e ghanesi riusciva ad inondare il mercato nazionale e palermitano di grandi quantità di cocaina ed eroina, facendo arrivare lo stupefacente attraverso Spagna, Venezuela, Nigeria, Mali e Olanda. Nel corso dell'inchiesta sono state intercettate migliaia di conversazioni e sono già stati arrestati 73 corrieri che ingoiavano ovuli di cocaina per superare i controlli alla frontiera.
Maxi traffico di droga, ecco tutti i fermati a Palermo
PALERMO. Delle 67 ordinanze di custodia cautelare emesse nell'ambito dell'operazione antidroga denominata "Golden Eggs" gli agenti della squadra mobile e del commissariato Libertà finora ne hanno eseguito trentacinque. In manette sono finiti i palermitani Francesco Chiarello (31 anni), Salvatore Castiglione (35), Salvatore Conigliaro (62), Giovanna Caronia (35), Davide Madonia (36), Nunzia Bonanno (34), Giovanni Bronzino (56), Giuseppe Cammarata (47), Angela Castigliola (44), Maria Castigliola (45), Pietro Freschi (26), Giovanni Tre Re (28), Rosalia Versaggio (55), Antonino Volpicelli (41).
E ancora: Angelo Nuzzo, 48 anni, di Vallelunga Pratameno in provincia di Caltanissetta, Paolo Kalloggiannis, 33 anni, di Petralia Sottana nel Palermitano, Rossella Canta, di 30, nata a Termini Imerese, Andrea e Giuseppe Cavoli, di 39 e 36 anni, originari di Piacenza. L'elenco si completa con gli africani - nigeriani, ghanesi e tunisini - coinvolti nell'inchiesta: Folorunso Ayodele, Gloria Omoruyi, Francis Olabayo Wiwoloku, Esanora Doris Ada, Ayo Akindele, Chakib Farjallah, Fatma Hassine, Tarek Khelifi, Toufik Khelifi, Welcome Ndimmandi, Souhaiel Trabelsi, Daizutoo Bilson, Collins Dofu, Jean Gina Nwabunwanne, Kate Orfan.
PALERMO. Vasta operazione antidroga a Palermo condotta dai poliziotti del commissariato Libertà e dalla sezione Antidroga della Mobile. Gli agenti hanno eseguito 67 misure cautelari nei confronti di un gruppo di italiani e di alcuni africani indagati per associazione a delinquere finalizzata al traffico internazionale e allo spaccio di stupefacenti.
L'associazione criminale, composta da palermitani, nigeriani, tunisini e ghanesi riusciva ad inondare il mercato nazionale e palermitano di grandi quantità di cocaina ed eroina, facendo arrivare lo stupefacente attraverso Spagna, Venezuela, Nigeria, Mali e Olanda. Nel corso dell'inchiesta sono state intercettate migliaia di conversazioni e sono già stati arrestati 73 corrieri che ingoiavano ovuli di cocaina per superare i controlli alla frontiera.
Maxi traffico di droga, ecco tutti i fermati a Palermo
PALERMO. Delle 67 ordinanze di custodia cautelare emesse nell'ambito dell'operazione antidroga denominata "Golden Eggs" gli agenti della squadra mobile e del commissariato Libertà finora ne hanno eseguito trentacinque. In manette sono finiti i palermitani Francesco Chiarello (31 anni), Salvatore Castiglione (35), Salvatore Conigliaro (62), Giovanna Caronia (35), Davide Madonia (36), Nunzia Bonanno (34), Giovanni Bronzino (56), Giuseppe Cammarata (47), Angela Castigliola (44), Maria Castigliola (45), Pietro Freschi (26), Giovanni Tre Re (28), Rosalia Versaggio (55), Antonino Volpicelli (41).
E ancora: Angelo Nuzzo, 48 anni, di Vallelunga Pratameno in provincia di Caltanissetta, Paolo Kalloggiannis, 33 anni, di Petralia Sottana nel Palermitano, Rossella Canta, di 30, nata a Termini Imerese, Andrea e Giuseppe Cavoli, di 39 e 36 anni, originari di Piacenza. L'elenco si completa con gli africani - nigeriani, ghanesi e tunisini - coinvolti nell'inchiesta: Folorunso Ayodele, Gloria Omoruyi, Francis Olabayo Wiwoloku, Esanora Doris Ada, Ayo Akindele, Chakib Farjallah, Fatma Hassine, Tarek Khelifi, Toufik Khelifi, Welcome Ndimmandi, Souhaiel Trabelsi, Daizutoo Bilson, Collins Dofu, Jean Gina Nwabunwanne, Kate Orfan.
Traffico di droga da Napoli e dalla Calabria, 4 arresti a Catania
Scoperto un giro di ingenti quantitativi di eroina e cocaina da Napoli e dalla Calabria ionica. Quattro persone in manette in Sicilia
Gli agenti della Mobile di Catania hanno emesso nel corso della notte, quattro ordinanze di custodia cautelare nei confronti di persone accusate di essere responsabili dell’acquisto, del trasporto e della vendita di ingenti quantitativi di eroina e cocaina. La droga arrivava da Napoli e dalla Calabria ionica. Destinatari dei provvedimenti restrittivi, emessi dal gip di Catania, sono Carmelo Claudio Lo Presti, di 43 anni, Antonio Barzillona, di 29, Salvatore Charles Accardi, di 34, che si trovata agli arresti domiciliari, e Carmelo Claudio Lo Presti, di 43 e Antonio Riolo, di 38, ai quali l’ordinanza è stata notificata in carcere.
La droga, trasportata dentro intercapedini di autovetture, veniva poi smerciata nel quartiere di Picanello e nel Villaggio Dusmet. Secondo quanto accertato dagli investigatori i quattro nella primavera del 2010 erano dediti a trasporti di stupefacente, che procacciavano a Napoli, per quanto riguardava l'eroina, e nella Calabria ionica per quanto concerneva la cocaina.
Dalle indagini è emerso che Accardi, Lo Presti e Riolo si recavano periodicamente a Napoli per reperire l’eroina, mentre Barzillona, con un altro complice che si è reso irreperibile ed è attivamente ricercato, andava nella Calabria ionica per procurare la cocaina. Durante le indagini sono stati sequestrati un chilo di cocaina e 1,75 kg di eroina.
Violenza sessuale arrestato psichiatra dell'Università Bari
BARI – Un medico psichiatra, docente universitario presso la facoltà di Medicina e Chirurgia di Bari, prof. Gianpaolo Pierri, di 69 anni, è stato arrestato dagli agenti della sezione di polizia giudiziaria della Procura della Repubblica presso il tribunale di Bari in quanto ritenuto responsabile di violenza sessuale nei confronti di una giovane paziente.
L'indagine è cominciata nello scorso mese di giugno, quando la giovane donna, in cura da tempo presso il professionista per problemi legati ad uno stato di depressione, ha presentato una denuncia-querela affermando che nel corso di una visita presso il medico, durante il colloquio terapeutico, era stata costretta inspiegabilmente, a subire atti sessuali consistenti in palpeggiamenti del seno e delle parti intime.
La giovane donna, disponibile a collaborare con gli investigatori, munita di microfono e di ulteriori accorgimenti utili alle indagini, si è recata un’altra volta nello studio specialistico per sottoporsi ad una ulteriore visita nel corso della quale il prof.Pierri ha costretto nuovamente la paziente a subire atti sessuali.
A questo punto gli agenti di polizia giudiziaria, d’intesa con il pm che ha coordinato le indagini Manfredi Dini Ciacci, hanno fatto irruzione nello studio-abitazione dove, avuta conferma della violenza perpetrata dal professionista poco prima, ha arrestato Pierri.
Nel corso della perquisizione, estesa anche allo studio che si trova nella Clinica psichiatrica universitaria di Bari, è stato sottoposto a sequestro materiale, cartaceo ed informatico, che è al vaglio degli investigatori anche al fine di verificare l'elenco dei pazienti in cura: gli agenti di polizia sospettano che anche altre donne possano aver subito analoghe morbose attenzioni.
Operazione contro clan a Taranto: dodici arresti
Squadra di calcio nel mirino
TARANTO – Avrebbe cercato di inserirsi in modo prepotente soprattutto nel mercato del pesce cittadino
condizionando gli altri imprenditori del settore il clan Scarci di Taranto sgominato questa mattina da agenti della Squadra Mobile della Questura di Taranto che hanno eseguito undici delle dodici ordinanze
di custodia cautelare emesse dal giudice per le indagini preliminari di Lecce Antonia Martalò, su richiesta del sostituto procuratore della Repubblica Lino Giorgio Bruno della Direzione Distrettuale Antimafia della città salentina.
Le accuse sono, a vario titolo, di associazione per delinquere di stampo mafioso, porto e detenzione illegale di armi ed esplosivi, estorsione, usura, intestazione fittizia di beni a fini elusivi della normativa di prevenzione antimafia e agevolazione al riciclaggio, atti di concorrenza compiuti con violenza e minaccia, pesca di frodo con l’uso di esplodenti, tutti reati che sarebbero stati commessi avvalendosi delle condizioni di appartenenza ad una associazione mafiosa ed al fine di agevolarne l’attività.
L'operazione, a cui è sfuggito uno dei destinatari delle misure cautelari, è stata denominata 'Octopus'. Il tentativo di condizionare il settore ittico sarebbe stato facilitato dalla precedente esperienza di pescatori degli affiliati all’organizzazione. Nell’inchiesta sono indagate sette persone a piede libero.
La Polizia ha sequestrato i patrimoni dei componenti del clan, in particolare lo stabilimento balneare 'Lo
Squalo Beach’a Scanzano Jonico (Matera); i due chioschi-bar situati nello stadio 'Jacovonè del capoluogo jonico; un magazzino in Via Cariati, vicino al molo della Città Vecchia, utilizzato come base per la commercializzazione di prodotti ittici, per un valore complessivo di 200 mila euro.
I sequestri si aggiungono a quello già eseguito il 30 novembre del 2010 dell’appartamento e relative pertinenze di proprietà di Francesco Scarci, 59 anni, presunto capo clan, intestato a un suo
prestanome per un valore di 300 mila euro. Quest’ultimo è stato già condannato nei maxiprocessi 'Ellespontò, per associazione mafiosa, detenzione illegale ed importazione di cocaina, e 'Cahors', ancora per associazione mafiosa.
Le indagini sono iniziate a febbraio del 2009. Negli ultimi due anni, il clan sarebbe salito a posizioni di assoluta egemonia criminale e, senza dover necessariamente ricorrere ad esplicite manifestazioni di forza, si è imposto sul resto dell’ambiente delinquenziale locale.
Gli investigatori della sezione criminalità organizzata della Squadra Mobile hanno avviato indagini finalizzate a reprimere le sue attività all’indomani del ritorno in libertà di Scarci scarcerato il 26 febbraio del 2009. Scarci, con la collaborazione del fratello Giuseppe, 55 anni, di Maurizio Petracca, 41, di Salvatore Viviano, 52 e altri esponenti, arrestati stamane, è riuscito a riorganizzare il clan estendendo il suo ambito di influenza dal rione Salinella, tradizionale roccaforte, alla Città Vecchià nella zona del porto dei pescherecci.
Molti i componenti della famiglia Scarci coinvolti nell’operazione di stamane: tra di loro, oltre a Francesco e al suo braccio destro Giuseppe, anche Andrea, 57 anni. Grazie a intercettazioni e video-riprese, sono emersi elementi circa la volontà di egemonia e sopraffazione di Francesco Scarci e dei suoi
affiliati. Insieme avrebbero progettato un sistema che costringesse imprenditori ed esercenti a corrispondere loro un contributo che sulla carta servisse ad affrontare le spese di altri amici detenuti ma che, in realtà era destinato esclusivamente alle loro tasche.
Le intimidazioni, le minacce e le violenze condotte con modalità mafiose avrebbero permesso di incidere sui meccanismi di libera concorrenza del settore, interponendosi nel rapporto commerciale tra i pescatori ed i commercianti all’ingrosso o i ristoratori. Questi ultimi, avvertiti personalmente da Scarci e dai
suoi affiliati dell’interesse del gruppo nella compravendita del pesce, tutelato attraverso l’incombente e continua presenza degli stessi Francesco e Giuseppe Scarci all’interno della zona portuale di Taranto, nelle aree di attracco delle imbarcazioni dei pescatori, hanno dovuto subire pesanti condizionamenti e costrizioni nell’esercizio dell’attività commerciale.
Ed è ancora più significativo, secondo gli inquirenti, che tale inserimento, avvenuto nelle forme di un passamano ovvero della mera interposizione tra i pescatori ed i commercianti, non avesse alla base nessuna autorizzazione o licenza per l’attività d’impresa nè una, seppur minima, adeguata struttura aziendale.
TARANTO – Avrebbe cercato di inserirsi in modo prepotente soprattutto nel mercato del pesce cittadino
condizionando gli altri imprenditori del settore il clan Scarci di Taranto sgominato questa mattina da agenti della Squadra Mobile della Questura di Taranto che hanno eseguito undici delle dodici ordinanze
di custodia cautelare emesse dal giudice per le indagini preliminari di Lecce Antonia Martalò, su richiesta del sostituto procuratore della Repubblica Lino Giorgio Bruno della Direzione Distrettuale Antimafia della città salentina.
Le accuse sono, a vario titolo, di associazione per delinquere di stampo mafioso, porto e detenzione illegale di armi ed esplosivi, estorsione, usura, intestazione fittizia di beni a fini elusivi della normativa di prevenzione antimafia e agevolazione al riciclaggio, atti di concorrenza compiuti con violenza e minaccia, pesca di frodo con l’uso di esplodenti, tutti reati che sarebbero stati commessi avvalendosi delle condizioni di appartenenza ad una associazione mafiosa ed al fine di agevolarne l’attività.
L'operazione, a cui è sfuggito uno dei destinatari delle misure cautelari, è stata denominata 'Octopus'. Il tentativo di condizionare il settore ittico sarebbe stato facilitato dalla precedente esperienza di pescatori degli affiliati all’organizzazione. Nell’inchiesta sono indagate sette persone a piede libero.
La Polizia ha sequestrato i patrimoni dei componenti del clan, in particolare lo stabilimento balneare 'Lo
Squalo Beach’a Scanzano Jonico (Matera); i due chioschi-bar situati nello stadio 'Jacovonè del capoluogo jonico; un magazzino in Via Cariati, vicino al molo della Città Vecchia, utilizzato come base per la commercializzazione di prodotti ittici, per un valore complessivo di 200 mila euro.
I sequestri si aggiungono a quello già eseguito il 30 novembre del 2010 dell’appartamento e relative pertinenze di proprietà di Francesco Scarci, 59 anni, presunto capo clan, intestato a un suo
prestanome per un valore di 300 mila euro. Quest’ultimo è stato già condannato nei maxiprocessi 'Ellespontò, per associazione mafiosa, detenzione illegale ed importazione di cocaina, e 'Cahors', ancora per associazione mafiosa.
Le indagini sono iniziate a febbraio del 2009. Negli ultimi due anni, il clan sarebbe salito a posizioni di assoluta egemonia criminale e, senza dover necessariamente ricorrere ad esplicite manifestazioni di forza, si è imposto sul resto dell’ambiente delinquenziale locale.
Gli investigatori della sezione criminalità organizzata della Squadra Mobile hanno avviato indagini finalizzate a reprimere le sue attività all’indomani del ritorno in libertà di Scarci scarcerato il 26 febbraio del 2009. Scarci, con la collaborazione del fratello Giuseppe, 55 anni, di Maurizio Petracca, 41, di Salvatore Viviano, 52 e altri esponenti, arrestati stamane, è riuscito a riorganizzare il clan estendendo il suo ambito di influenza dal rione Salinella, tradizionale roccaforte, alla Città Vecchià nella zona del porto dei pescherecci.
Molti i componenti della famiglia Scarci coinvolti nell’operazione di stamane: tra di loro, oltre a Francesco e al suo braccio destro Giuseppe, anche Andrea, 57 anni. Grazie a intercettazioni e video-riprese, sono emersi elementi circa la volontà di egemonia e sopraffazione di Francesco Scarci e dei suoi
affiliati. Insieme avrebbero progettato un sistema che costringesse imprenditori ed esercenti a corrispondere loro un contributo che sulla carta servisse ad affrontare le spese di altri amici detenuti ma che, in realtà era destinato esclusivamente alle loro tasche.
Le intimidazioni, le minacce e le violenze condotte con modalità mafiose avrebbero permesso di incidere sui meccanismi di libera concorrenza del settore, interponendosi nel rapporto commerciale tra i pescatori ed i commercianti all’ingrosso o i ristoratori. Questi ultimi, avvertiti personalmente da Scarci e dai
suoi affiliati dell’interesse del gruppo nella compravendita del pesce, tutelato attraverso l’incombente e continua presenza degli stessi Francesco e Giuseppe Scarci all’interno della zona portuale di Taranto, nelle aree di attracco delle imbarcazioni dei pescatori, hanno dovuto subire pesanti condizionamenti e costrizioni nell’esercizio dell’attività commerciale.
Ed è ancora più significativo, secondo gli inquirenti, che tale inserimento, avvenuto nelle forme di un passamano ovvero della mera interposizione tra i pescatori ed i commercianti, non avesse alla base nessuna autorizzazione o licenza per l’attività d’impresa nè una, seppur minima, adeguata struttura aziendale.
Choc a Pomigliano: assessore e consigliere con la mazzetta
POMIGLIANO - Avevano già intascato diecimila euro l'assessore all'Ambiente ed il consigliere comunale di Pomigliano d'Arco arrestati ieri dai carabinieri subito dopo avere ricevuto un'ulteriore bustarella di cinquemila.
Dalle indagini è emerso che i due, Salvatore Piccolo e Pasquale Pignatiello, entrambi di centrodestra, ricattavano da tempo un imprenditore, titolare della ditta di trasporti DGE srl che aveva ottenuto l'appalto per la raccolta dei rifiuti umidi. In particolare lo minacciavano di non fargli liquidare dal Comune fatture arretrate per un ammontare di circa 40.000 euro se non avesse elargito loro somme di denaro.
Nelle immagini (diffuse senza audio) riprese dalle telecamere nascoste dai carabinieri nell'ufficio dell'imprenditore, si vede quest'ultimo che porge all'assessore l'elenco delle fatture non pagate; subito dopo il titolare della DGE estrae di tasca una mazzetta di banconote, conta 5.000 euro e li consegna a Piccolo, il quale a sua volta li dà a Pignatiello.
Interrogati dal pm Giuseppe Visone, l'assessore all'Ambiente (che è un ex poliziotto) ha raccontato di aver ricevuto la somma perch‚ aveva con l'imprenditore un rapporto di consulenza. Pignatiello invece ha fatto ammissioni che il procuratore di Nola, Paolo Mancuso, definisce «importanti». Le indagini ora saranno estese all'intero sistema degli appalti dei rifiuti (alcuni sono stati affidati in maniera estemporanea in attesa di una nuova gara) nonché alle modalità con cui vengono liquidate le fatture.
Revocato incarico ad assessore. Il sindaco di Pomigliano d'Arco, Lello Russo, ha revocato l'incarico di assessore a Salvatore Piccolo. Il primo cittadino, nel chiedere pubblicamente «scusa ai cittadini per la parte di competenza», ha annunciato di aver firmato il decreto di revoca, durante la seduta di Consiglio comunale ancora in corso di svolgimento. Russo, inoltre, ha giudicato «incompatibile» la presenza di Pignatiello nell'amministrazione comunale, per il quale dai banchi di minoranza Onofrio Piccolo (Pd), ha chiesto di votare un documento con la richiesta di autosospensione del consigliere arrestato.
«Capisco il segnale politico che si vuole dare - ha tuonato il sindaco - ma a parte il danno gravissimo arrecato alla città, non possiamo puntare ad una sospensione, ma a far decadere l'incarico elettorale di Pignatiello perchè la sua presenza in questo Consiglio è incompatibile con quanto stiamo portando avanti con una politica fondata sulla legalità e la trasparenza».
«Sono rimasto stupefatto e addolorato per un episodio che arreca un colpo ai sentimenti che supportano questa amministrazione che aveva fatto della legalità, della trasparenza e del buon governo la sua bandiera. Ma non ci sono ramificazioni nella gestione della cosa pubblica» ha sottolineato il sindaco Lello Russo.
«Provo profondo dolore per il danno arrecato alla mia città, per la quale ho sofferto e patito nel silenzio per 15 lunghi anni - ha aggiunto commosso il sindaco, che era stato arrestato e poi assolto per insussistenza dei fatti dopo un processo durato 12 anni - una città alla quale ho voluto donare l'ultimo scorcio della mia vita nello sforzo di renderla sempre più vivibile e bella».
Il sindaco, poi, ha sottolineato di trovarsi di fronte «ad un episodio gravissimo che vede come attori un componente di questa giunta e consigliere di questa maggioranza senza però ramificazioni nella gestione della cosa pubblica». «Un episodio - ha concluso - che tuttavia potrebbe minare agli occhi della pubblica opinione questa amministrazione che in un anno e pochi mesi ha prodotto un lavoro enorme in tutti gli ambiti. E per un sindaco è duro vedere il nome della propria città vituperato sulle pagine di cronaca dei quotidiani, vedere la propria città spinta nel gorgo della cronaca nera».
Dalle indagini è emerso che i due, Salvatore Piccolo e Pasquale Pignatiello, entrambi di centrodestra, ricattavano da tempo un imprenditore, titolare della ditta di trasporti DGE srl che aveva ottenuto l'appalto per la raccolta dei rifiuti umidi. In particolare lo minacciavano di non fargli liquidare dal Comune fatture arretrate per un ammontare di circa 40.000 euro se non avesse elargito loro somme di denaro.
Nelle immagini (diffuse senza audio) riprese dalle telecamere nascoste dai carabinieri nell'ufficio dell'imprenditore, si vede quest'ultimo che porge all'assessore l'elenco delle fatture non pagate; subito dopo il titolare della DGE estrae di tasca una mazzetta di banconote, conta 5.000 euro e li consegna a Piccolo, il quale a sua volta li dà a Pignatiello.
Interrogati dal pm Giuseppe Visone, l'assessore all'Ambiente (che è un ex poliziotto) ha raccontato di aver ricevuto la somma perch‚ aveva con l'imprenditore un rapporto di consulenza. Pignatiello invece ha fatto ammissioni che il procuratore di Nola, Paolo Mancuso, definisce «importanti». Le indagini ora saranno estese all'intero sistema degli appalti dei rifiuti (alcuni sono stati affidati in maniera estemporanea in attesa di una nuova gara) nonché alle modalità con cui vengono liquidate le fatture.
Revocato incarico ad assessore. Il sindaco di Pomigliano d'Arco, Lello Russo, ha revocato l'incarico di assessore a Salvatore Piccolo. Il primo cittadino, nel chiedere pubblicamente «scusa ai cittadini per la parte di competenza», ha annunciato di aver firmato il decreto di revoca, durante la seduta di Consiglio comunale ancora in corso di svolgimento. Russo, inoltre, ha giudicato «incompatibile» la presenza di Pignatiello nell'amministrazione comunale, per il quale dai banchi di minoranza Onofrio Piccolo (Pd), ha chiesto di votare un documento con la richiesta di autosospensione del consigliere arrestato.
«Capisco il segnale politico che si vuole dare - ha tuonato il sindaco - ma a parte il danno gravissimo arrecato alla città, non possiamo puntare ad una sospensione, ma a far decadere l'incarico elettorale di Pignatiello perchè la sua presenza in questo Consiglio è incompatibile con quanto stiamo portando avanti con una politica fondata sulla legalità e la trasparenza».
«Sono rimasto stupefatto e addolorato per un episodio che arreca un colpo ai sentimenti che supportano questa amministrazione che aveva fatto della legalità, della trasparenza e del buon governo la sua bandiera. Ma non ci sono ramificazioni nella gestione della cosa pubblica» ha sottolineato il sindaco Lello Russo.
«Provo profondo dolore per il danno arrecato alla mia città, per la quale ho sofferto e patito nel silenzio per 15 lunghi anni - ha aggiunto commosso il sindaco, che era stato arrestato e poi assolto per insussistenza dei fatti dopo un processo durato 12 anni - una città alla quale ho voluto donare l'ultimo scorcio della mia vita nello sforzo di renderla sempre più vivibile e bella».
Il sindaco, poi, ha sottolineato di trovarsi di fronte «ad un episodio gravissimo che vede come attori un componente di questa giunta e consigliere di questa maggioranza senza però ramificazioni nella gestione della cosa pubblica». «Un episodio - ha concluso - che tuttavia potrebbe minare agli occhi della pubblica opinione questa amministrazione che in un anno e pochi mesi ha prodotto un lavoro enorme in tutti gli ambiti. E per un sindaco è duro vedere il nome della propria città vituperato sulle pagine di cronaca dei quotidiani, vedere la propria città spinta nel gorgo della cronaca nera».
giovedì 29 settembre 2011
«Tedesco pilotava le nomine anche per ottenere voti»
BARI - Alberto Tedesco era a capo di un’associazione a delinquere che dal 2005 al 2009 ha orientato le nomine nel sistema sanitario pugliese così da poterne controllare le forniture: un meccanismo che avrebbe fruttato all’ex assessore appalti per le aziende di famiglia e «rilevanti pacchetti di voti». È questa l’accusa che la procura di Bari muove all’ex assessore regionale alla Salute - eletto senatore col Pd, oggi nel gruppo Misto - e ad altre 40 persone cui ieri i pm Francesco Bretone, Desiree Digeronimo e Marcello Quercia hanno fatto notificare l’avviso di conclusione delle indagini. Ne emerge lo spaccato di un «sistema » ancora più ampio rispetto a quello disegnato dalle 9 ordinanze di custodia cautelare eseguite a febbraio: nell’indagine entrano anche gli ex manager dell’Oncologico di Bari, Nicola Pansini e Luciano Lovecchio, che avrebbero coperto gli ammanchi di cassa di un dipendente, il cugino dell’attuale assessore Tommaso Fiore.
LE ACCUSE A TEDESCO - Secondo la procura di Bari, l’ex assessore sarebbe stato a capo di una organizzazione parallela che orientava le nomine dei manager e dei primari e che truccava gli appalti. In questa «cupola» c’erano il suo braccio destro Mario Malcangi, i suoi collaboratori Adolfo Schiraldi e Aldo Sigrisi, il genero Elio Rubino, gli ex manager sanitari Vincenzo Valente, Guido Scoditti e Rocco Canosa, dipendenti delle Asl e imprenditori. A Tedesco vengono anche contestati (in concorso con altri) tre episodi di concussione, uno di corruzione, quattro abusi d’uf ficio, due turbative d’asta, il concorso in rivelazione di segreto d’ufficio.
L’ASSOCIAZIONE PER DELINQUERE - A febbraio il gip Giuseppe De Benedictis aveva concesso solo 9 delle 22 misure cautelari richieste dai pm della procura di Bari. In particolare, non aveva riconosciuto l’esistenza dei gravi indizi di colpevolezza per l’accusa di associazione a delinquere, così «salvando» 19 dei 24 indagati (oggi diventati 41). L’associazione è stata ripristinata dal Riesame, che ha finora disposto gli arresti domiciliari sia per Tedesco sia per il genero Elio Rubino, congelati perché entrambi hanno presentato ricorso in Cassazione. Se la Suprema Corte dovesse confermare il provvedimento a carico di Tedesco, per eseguirlo la procura dovrebbe chiedere un nuovo via libera al Senato: Palazzo Madama a luglio ha già detto «no» all’ar resto disposto sulla base dell’ordinanza di De Benedictis. Ora, comunque, la procura ha modificato l’impu - tazione di associazione per delinquere aggiungendo la violazione alla legge sul finanziamento ai partiti.
LE NOMINE - I magistrati ritengono che Tedesco pilotasse «le nomine dei dirigenti generali delle Asl pugliesi effettuate dalla giunta regionale verso persone di propria fiducia»: attraverso questi manager, secondo la procura, l’ex assessore poteva «controllare la nomina dei direttori amministrativi e sanitari in modo da dirottare le gare di appalto e le forniture verso imprenditori a lui legati da vincoli familiari (Rubino e Balestrazzi) o da interessi economici e elettorali (Columella e Petronella) intervenendo attivamente sui direttori generali e sui dirigenti amministrativi per destituire dal loro incarico persone che non obbedivano ai suoi ordini».
GLI APPALTI TRUCCATI - Lunga la lista degli appalti che sarebbero stati truccati. Si parte dall’ormai famosa gara per lo smaltimento dei rifiuti sanitari della Asl di Bari, vinta dalla Viri di Altamura (grazie, secondo la procura, all’intervento di Tedesco). Ci sono poi la proroga dell’appalto per l’a rchiv io della Asl Bari e tre lotti dei lavori per il nuovo Oncologico di Bari, aggiudicati secondo i magistrati a ditte vicine all’ex assessore. A Lecce, secondo la procura, sarebbero stati truccati un appalto per le pulizie (vinto dall’Ati Cns-Biologica) e una fornitura per il poliambulatorio di Martano, nella Bat un contratto per l’assistenza tecnica e l’acquisto di ecografi.
I MANAGER «AMICI» - Tra gli indagati c’è mezzo management della sanità pugliese ai tempi di Tedesco. L’ex direttore generale della Asl Bari, Lea Cosentino, gli ex direttori generale e amministrativo della Asl Bat, Rocco Canosa e Felice De Pietro, l’ex direttore sanitario della Asl di Lecce, Franco Sanapo, l’ex direttore amministrativo del «De Bellis» di Castellana, Tommaso Stallone. Indagato (insieme a suo padre e a suo cugino) anche il capogruppo Pd alla Regione, Antonio Decaro: sono accusati di aver fatto ottenere al cugino, tramite Tedesco, le tracce di un concorso all’Arpa.
LA COSENTINO - Alla Cosentino viene contestato un solo episodio: il concorso per il primariato di oculistica all’ospedale di Terlizzi. La ex manager, insieme a Tedesco, a Malcangi, al medico Antonio Acquaviva e ad un dipendente avrebbe truccato la delibera contenente il contratto: l’accusa è concorso in abuso d’ufficio e falso ideologico e materiale.
MASSIMILIANO SCAGLIARINI
Furgone portavalori preso d’assalto nel Foggiano
FOGGIA – Un furgone portavalori è stato preso d’assalto poco fa da un commando composto da almeno otto persone incappucciate ed armate con pistole e fucili, anche con un kalashnikov, che sono riuscite a portare via, sparando alcuni colpi di arma da fuoco a scopo intimidatorio, alcune buste contenenti gioielli e preziosi il cui valore non è stato ancora quantificato. La rapina è avvenuta lungo una strada secondaria che collega Manfredonia a Cerignola, a circa 22 chilometri da Cerignola, nel Foggiano.
Secondo una prima ricostruzione fatta dagli agenti del Commissariato di Cerignola e della squadra mobile di Foggia i banditi, a bordo di due auto non di grossa cilindrata, hanno bloccato il furgone e, dopo aver sparato a scopo intimidatorio alcuni colpi di arma da fuoco ed immobilizzato le guardie giurate, hanno aperto con un flessibile il furgone e hanno portato via alcuni sacchi contenenti denaro. Subito dopo sono fuggiti, facendo perdere, al momento, le loro tracce. Sul posto sono stati trovati dagli investigatori alcuni bossoli e qualche ogiva e tra i bossoli anche un calibro 7.62 compatibile con un kalashnikov.
Assenteismo al Comune 27 dipendenti nei guai
TRANI - Ventisette rinvii a giudizio ed un non luogo a procedere. Si conclude così l’udienza preliminare sull’assenteismo di diversi dipendenti del Comune di Trani dai rispettivi posti di lavoro. Dunque il giudice per le udienze preliminari del Tribunale di Trani, Ang ela Schir alli, ha accolto quasi integralmente le richieste del pubblico ministero Antonio Savasta che coordinò le indagini della Guardia di Finanza di Trani. Nessuno degli imputati ha optato per il patteggiamento o per il giudizio abbreviato. Il gup ha disposto il dibattimento per 27 imputati: il processo inizierà davanti al tribunale di Trani il prossimo 23 gennaio. Scagionato dalle contestazioni il solo Michele Miolli.
IL VIA ALLE INDAGINI - L’inchiesta della Procura della Repubblica nacque da una nota del 13 giugno 2005 a firma del comandante della Polizia Municipale il quale segnalò la ricezione di una telefonata che denunciava l’ingiustificata assenza di una dipendente dell’ufficio verbali: “il troppo storpia” diceva l’interlocutore. I fatti contestati vanno da gennaio 2006 a giugno 2007. Diversi gli uffici comunali interessati dall’assenteismo. A seconda dei casi furono contestati i reati di truffa e di tentata truffa.
PRESENTI SULLA CARTA - Secondo quanto ricostruirono le indagini, in diverse occasioni, gli imputati avrebbero lavorato solo sulla carta grazie ad alcuni colleghi, anch ’essi finiti sott’inchiesta, che avrebbero marcato il cartellino al loro posto. Per alcuni dipendenti il pm Savasta chiese al giudice per le indagini preliminari un provvedimento interdittivo ma il gip Francesco Zecchillo rigettò la richiesta cautelare sostenendo che «qualora la misura interdittiva fosse applicata si rivelerebbe inutilmente punitiva, dal momento che i delitti contestati non costituiscono immediata e diretta manifestazione del pubblico servizio o ufficio espletato dal singolo dipendente comunale. In verità – proseguiva il magistrato - dovrebbe esser l’autorità amministrativa locale ad attivarsi immediatamente sottoponendo a procedimento disciplinare i responsabili delle denunciate condotte truffaldine».
Aggiunse Zecchillo: «Non vogliamo neppure immaginare cosa avrebbero accertato i finanzieri se il periodo d’indagine fosse stato più lungo». Ed ancora: «le condotte contestate non sono le più gravi, sussistendone altre che possono pacificamente ritenersi al limite dell’associazione per delinquere».
LA CHIUSURA DELLE INDAGINI - Ma il pm non mutò l’originaria contestazione di truffa. Savasta terminò l’inchiesta accusando 38 persone, 10 delle quali però uscirono dall’inchiesta in zona cesarini alla luce degli elementi difensivi portati all’attenzione del pm nei venti giorni successivi alla notifica dell’avviso di conclusione delle indagini. Per gli altri 28 dipendenti giunse la richiesta di rinvio a giudizio. La relativa udienza preliminare iniziò lo scorso dicembre ed è culminata ora col decreto che dispone il giudizio per 27 imputati. Nel procedimento risulta parte offesa il Comune di Trani.
Omicidio vigilante 2 i fermati, sarebbero i killer di Apricena
APRICENA (FOGGIA) – Due fermi di indiziato di delitto, emessi dai pm della Procura di Lucera, Mara Flaiani e Alessio Maramgelli, sono stati eseguiti stamane dai carabinieri del Comando provinciale di Foggia, nei confronti di due uomini, ritenuti i presunti responsabili dell’omicidio di Andrea Niro, il 41enne ucciso l’altra sera ad Apricena, all’interno degli uffici della cooperativa di guardiania 'Il Falco' di cui era titolare.
Gli investigatori hanno svolto indagini nell’ambito professionale: l’omicidio – secondo quanto ipotizzato sin dal primo momento – potrebbe essere scaturito da rivalità riguardanti il settore del lavoro. I colpi di arma da fuoco che hanno raggiunto Niro, uccidendolo sono stati tre.
Le due persone sottoposte a fermo di pg sono Luigi Martello e Salvatore di Summa, di 37 e 41 anni. Entrambi svolgono la propria attività nel settore della vigilanza. I due sono indagati per i reati di omicidio in concorso e porto illegale d’arma da fuoco. Sette, secondo gli investigatori, sono i colpi sparati contro la vittima. Il movente – è stato confermato – sarebbe da ricercare in dissidi di natura professionale. La società "Il Falco", svolge, infatti, servizi di guardiania presso impianti fotovoltaici e cave di marmo della zona; è nata nello scorso mese di marzo e vi lavorano cinque dipendenti regolarmente assunti.
Probabilmente numerosi sono stati gli imprenditori che si sono rivolti alla società di cui era titolare Andrea Niro per il controllo delle proprie aziende, suscitando così il risentimento di altre persone che svolgono lo stesso lavoro nella zona. Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, i due indagati martedì sera sarebbero giunti presso la sede della cooperativa a bordo di un’Audi R6, di proprietà di Martello, e sarebbe stato proprio lui, una volta sceso dall’auto, ad entrare nell’ufficio e a fare fuoco contro Niro. Poi, entrambi sarebbero fuggiti verso Poggio Imperiale. I carabinieri sono riusciti ad identificare Martello e di Summa attraverso le varie testimonianze e quindi a bloccarli.
Gli investigatori hanno svolto indagini nell’ambito professionale: l’omicidio – secondo quanto ipotizzato sin dal primo momento – potrebbe essere scaturito da rivalità riguardanti il settore del lavoro. I colpi di arma da fuoco che hanno raggiunto Niro, uccidendolo sono stati tre.
Le due persone sottoposte a fermo di pg sono Luigi Martello e Salvatore di Summa, di 37 e 41 anni. Entrambi svolgono la propria attività nel settore della vigilanza. I due sono indagati per i reati di omicidio in concorso e porto illegale d’arma da fuoco. Sette, secondo gli investigatori, sono i colpi sparati contro la vittima. Il movente – è stato confermato – sarebbe da ricercare in dissidi di natura professionale. La società "Il Falco", svolge, infatti, servizi di guardiania presso impianti fotovoltaici e cave di marmo della zona; è nata nello scorso mese di marzo e vi lavorano cinque dipendenti regolarmente assunti.
Probabilmente numerosi sono stati gli imprenditori che si sono rivolti alla società di cui era titolare Andrea Niro per il controllo delle proprie aziende, suscitando così il risentimento di altre persone che svolgono lo stesso lavoro nella zona. Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, i due indagati martedì sera sarebbero giunti presso la sede della cooperativa a bordo di un’Audi R6, di proprietà di Martello, e sarebbe stato proprio lui, una volta sceso dall’auto, ad entrare nell’ufficio e a fare fuoco contro Niro. Poi, entrambi sarebbero fuggiti verso Poggio Imperiale. I carabinieri sono riusciti ad identificare Martello e di Summa attraverso le varie testimonianze e quindi a bloccarli.
Agguato nella Piana di Gioia Tauro Uccisi due fratelli, 11 anni fa il padre
A Varapodio uccisi i fratelli Donato di 18 e 26 anni, raggiunti da colpi di fucile a bordo del loro trattore. Il padre e lo zio dei due ragazzi erano stati assassinati allo stesso modo
Ancora sangue nella Piana di Gioia Tauro dove ieri mattina, in località “Due Querce”, zona di campagna situata nel territorio del comune di Varapodio, un gruppo armato ha esploso numerosi colpi di fucile all’indirizzo dei fratelli Francesco (a destra) e Carmelo Donato (a sinistra in foto), di 18 e 26 anni, entrambi di Varapodio. Una ferocia inaudita quella degli assassini, che secondo una primissima ricostruzione della dinamica dell’agguato sembra non si siano accontentati di mirare diverse volte alla testa dei due giovani, ma, nel caso di Francesco, si sarebbero concessi addirittura di esplodere il colpo di grazia.
Un agguato di matrice mafiosa a seguito del quale Francesco, il 18enne, è deceduto sul posto mentre Carmelo ha cessato di vivere alcune ore dopo l’agguato all’ospedale “Santa Maria degli Ungheresi” di Polistena dove era stato trasportato d’urgenza. I carabinieri, avvertiti tramite una telefonata al 112 da una persona che poco dopo l’accaduto passava sul luogo del delitto, hanno immediatamente attivato l’attività investigativa finalizzata all’individuazione degli autori del massacro. Numerose le perquisizioni effettuate dai militari dell’Arma nei confronti di pregiudicati della zona, mentre sulla scena dell’omicidio posto sono intervenuti gli uomini della Sezione Investigazioni Scientifiche del reparto Operativo che segue l’attività d’indagine.
Il padre dei due giovani, Saverio Donato, ritenuto dalle forze dell’ordine contiguo alla cosca Barca di Varapodio, venne ucciso nel giugno del 2000 all’età di 46 anni mentre era a bordo del suo autotreno in quello che è apparso sin da subito agli investigatori un agguato dalle modalità tipicamente mafiose. Le indagini dei Carabinieri, hanno permesso di ricostruire l’evento e di eseguire il fermo di indiziato di delitto a carico di due giovani del posto, Michele Alessi, di 31 anni e Antonio Mammoliti anch’egli della stessa età, nipote del più noto Saro Mammoliti ritenuto capo dell’omonima cosca di Castellace di Oppido Mamertina. Un anno dopo la morte del padre dei due giovani uccisi ieri mattina, anche un loro zio, Annunziato Donato, subì la stessa sorte dei nipoti e del fratello. Ben quattro morti ammazzati nelle stesso nucleo familiare in pochissimi anni per motivi che restano assolutamente oscuri e misteriosi. L'agguato di ieri riporta non solo la città di Varapodio ma anche l’intero comprensorio della Piana di Gioia Tauro negli anni bui delle guerre di ‘ndrangheta, e delle infinite faide di paese dove si uccideva in una drammatica alternanza di botte e risposte per il predominio del territorio.
Il padre dei fratelli uccisi, ammazzato per una lite su una precedenza
Una lite banale, una discussione in strada per una precedenza. Per questo motivo nel giugno del 2000 e per una discussione su chi avesse o meno il diritto di precedenza il padre dei ragazzi uccisi ieri, fu raggiunto da numerosi colpi di arma da fuoco, esplosi con un modus operandi che per gli inquirenti è stato mafioso a tutti gli effetti. Il delitto di Saverio Donato avvenne sulla Strada Statale 111 che collega Gioia Tauro a Taurianova, in prossimità del piccolo centro di Amato. Donato era intento a caricare di legname il camion con cui sarebbe dovuto partire verso il nord Italia, ma la sua vita fu stroncata prima. Con lui, a bordo del veicolo, proprio il figlio Carmelo, allora quindicenne, che raccontò alle forze dell’ordine lo ripeté poi in sede processuale, dimostrando un notevole coraggio per un ragazzino della sua età. I destini giudiziari di Mammoliti e Alessi, però, hanno avuto un epilogo diametralmente opposto l’uno dall’altro. Innanzitutto per la scelta del rito secondo il quale si sarebbe dovuto svolgere il processo che li vedeva come imputati. Mammoliti, difeso dagli avvocati Luigi Germanò e Giuseppe Foti, scelse di affidarsi al rito abbreviato, mentre Alessi, difeso dall’avvocato Giuseppe Milicia, optò per l’ordinario. Per l’allora 23enne originario di Castellace di Oppido Mamertina, nipote del boss Saro Mammoliti, l’iter processuale è passato da una condanna a quindici anni e quattro mesi di reclusione inflitta dal Gup del Tribunale di Palmi, Giovanni Manzoni, sino a una pena leggermente ridotta in seguito alla sentenza emessa dalla Suprema Corte di Cassazione. In quel procedimento la famiglia della vittima si costituì parte civile ottenendo il risarcimento del danno da liquidarsi in separata sede.
Contestualmente, Mammoliti, (uscito dal carcere poco tempo fa), ottenne l’assoluzione per non aver commesso il fatto in ordine alle accuse relative alla detenzione di alcune cartucce per armi da caccia e di un serbatoio bifilare per pistola. Per Michele Alessi invece i tre gradi di giudizio cui è stato sottoposto hanno avuto un esito differente. Il procedimento con rito ordinario iniziato nell’ottobre del 2001 davanti alla Corte d’Assise del Tribunale di Palmi si concluse con l’assoluzione dell’imputato. Un esito che non poteva andare bene per la Pubblica Accusa che decise di appellarsi alla decisione dei giudici. Davanti alla Corte d’Assise di Appello però, Alessi incassò un’altra assoluzione, ottenendo un altro successo quando il ricorso presentato dalla Procura Generale fu respinto dalla Cassazione. Nonostante tra gli accusatori dell’imputato figurasse il figlio della vittima, testimone oculare dell’omicidio, la tesi difensiva portata avanti dal legale di Alessi riuscì a dimostrare che l’allora ventitreenne non si trovava a bordo dell’automobile utilizzata dai killer per avvicinare Donato e esplodere i colpi di arma da fuoco che gli costarono la vita. I riscontri emersi dai dati forniti dai tabulati telefonici e dagli spostamenti di Alessi hanno dimostrato che lui con quella esecuzione non c’entrava nulla e che ad accompagnare Mammoliti nel corso dell’agguato era stata un’altra persona.
Ancora sangue nella Piana di Gioia Tauro dove ieri mattina, in località “Due Querce”, zona di campagna situata nel territorio del comune di Varapodio, un gruppo armato ha esploso numerosi colpi di fucile all’indirizzo dei fratelli Francesco (a destra) e Carmelo Donato (a sinistra in foto), di 18 e 26 anni, entrambi di Varapodio. Una ferocia inaudita quella degli assassini, che secondo una primissima ricostruzione della dinamica dell’agguato sembra non si siano accontentati di mirare diverse volte alla testa dei due giovani, ma, nel caso di Francesco, si sarebbero concessi addirittura di esplodere il colpo di grazia.
Un agguato di matrice mafiosa a seguito del quale Francesco, il 18enne, è deceduto sul posto mentre Carmelo ha cessato di vivere alcune ore dopo l’agguato all’ospedale “Santa Maria degli Ungheresi” di Polistena dove era stato trasportato d’urgenza. I carabinieri, avvertiti tramite una telefonata al 112 da una persona che poco dopo l’accaduto passava sul luogo del delitto, hanno immediatamente attivato l’attività investigativa finalizzata all’individuazione degli autori del massacro. Numerose le perquisizioni effettuate dai militari dell’Arma nei confronti di pregiudicati della zona, mentre sulla scena dell’omicidio posto sono intervenuti gli uomini della Sezione Investigazioni Scientifiche del reparto Operativo che segue l’attività d’indagine.
Il padre dei due giovani, Saverio Donato, ritenuto dalle forze dell’ordine contiguo alla cosca Barca di Varapodio, venne ucciso nel giugno del 2000 all’età di 46 anni mentre era a bordo del suo autotreno in quello che è apparso sin da subito agli investigatori un agguato dalle modalità tipicamente mafiose. Le indagini dei Carabinieri, hanno permesso di ricostruire l’evento e di eseguire il fermo di indiziato di delitto a carico di due giovani del posto, Michele Alessi, di 31 anni e Antonio Mammoliti anch’egli della stessa età, nipote del più noto Saro Mammoliti ritenuto capo dell’omonima cosca di Castellace di Oppido Mamertina. Un anno dopo la morte del padre dei due giovani uccisi ieri mattina, anche un loro zio, Annunziato Donato, subì la stessa sorte dei nipoti e del fratello. Ben quattro morti ammazzati nelle stesso nucleo familiare in pochissimi anni per motivi che restano assolutamente oscuri e misteriosi. L'agguato di ieri riporta non solo la città di Varapodio ma anche l’intero comprensorio della Piana di Gioia Tauro negli anni bui delle guerre di ‘ndrangheta, e delle infinite faide di paese dove si uccideva in una drammatica alternanza di botte e risposte per il predominio del territorio.
Il padre dei fratelli uccisi, ammazzato per una lite su una precedenza
Una lite banale, una discussione in strada per una precedenza. Per questo motivo nel giugno del 2000 e per una discussione su chi avesse o meno il diritto di precedenza il padre dei ragazzi uccisi ieri, fu raggiunto da numerosi colpi di arma da fuoco, esplosi con un modus operandi che per gli inquirenti è stato mafioso a tutti gli effetti. Il delitto di Saverio Donato avvenne sulla Strada Statale 111 che collega Gioia Tauro a Taurianova, in prossimità del piccolo centro di Amato. Donato era intento a caricare di legname il camion con cui sarebbe dovuto partire verso il nord Italia, ma la sua vita fu stroncata prima. Con lui, a bordo del veicolo, proprio il figlio Carmelo, allora quindicenne, che raccontò alle forze dell’ordine lo ripeté poi in sede processuale, dimostrando un notevole coraggio per un ragazzino della sua età. I destini giudiziari di Mammoliti e Alessi, però, hanno avuto un epilogo diametralmente opposto l’uno dall’altro. Innanzitutto per la scelta del rito secondo il quale si sarebbe dovuto svolgere il processo che li vedeva come imputati. Mammoliti, difeso dagli avvocati Luigi Germanò e Giuseppe Foti, scelse di affidarsi al rito abbreviato, mentre Alessi, difeso dall’avvocato Giuseppe Milicia, optò per l’ordinario. Per l’allora 23enne originario di Castellace di Oppido Mamertina, nipote del boss Saro Mammoliti, l’iter processuale è passato da una condanna a quindici anni e quattro mesi di reclusione inflitta dal Gup del Tribunale di Palmi, Giovanni Manzoni, sino a una pena leggermente ridotta in seguito alla sentenza emessa dalla Suprema Corte di Cassazione. In quel procedimento la famiglia della vittima si costituì parte civile ottenendo il risarcimento del danno da liquidarsi in separata sede.
Contestualmente, Mammoliti, (uscito dal carcere poco tempo fa), ottenne l’assoluzione per non aver commesso il fatto in ordine alle accuse relative alla detenzione di alcune cartucce per armi da caccia e di un serbatoio bifilare per pistola. Per Michele Alessi invece i tre gradi di giudizio cui è stato sottoposto hanno avuto un esito differente. Il procedimento con rito ordinario iniziato nell’ottobre del 2001 davanti alla Corte d’Assise del Tribunale di Palmi si concluse con l’assoluzione dell’imputato. Un esito che non poteva andare bene per la Pubblica Accusa che decise di appellarsi alla decisione dei giudici. Davanti alla Corte d’Assise di Appello però, Alessi incassò un’altra assoluzione, ottenendo un altro successo quando il ricorso presentato dalla Procura Generale fu respinto dalla Cassazione. Nonostante tra gli accusatori dell’imputato figurasse il figlio della vittima, testimone oculare dell’omicidio, la tesi difensiva portata avanti dal legale di Alessi riuscì a dimostrare che l’allora ventitreenne non si trovava a bordo dell’automobile utilizzata dai killer per avvicinare Donato e esplodere i colpi di arma da fuoco che gli costarono la vita. I riscontri emersi dai dati forniti dai tabulati telefonici e dagli spostamenti di Alessi hanno dimostrato che lui con quella esecuzione non c’entrava nulla e che ad accompagnare Mammoliti nel corso dell’agguato era stata un’altra persona.
Agguato a Roma, arrestato il "boss del Trullo" a Trebisacce
L'uomo considerato il boss del Trullo, la zona dove è avvenuta la gambizzazione è stato fermato in provincia di Cosenza, e aveva legami con la 'ndrangheta
E' stato arrestato dalla Squadra Mobile di Roma con l’accusa di tentato omicidio l’uomo che il 19 settembre scorso, ha sparato alle gambe di un pregiudicato, Alessio Pellegrini, di 33 anni, in via Monte delle Capre del Trullo.
Si tratta di Vincenzo Bilotta, 53enne, nato a Vibo Valentia ma da 30 anni a Roma, considerato dagli investigatori il 'boss del quartiere'. L’uomo nel corso degli anni avrebbe mantenuto contatti con la 'ndrangheta e dal giorno della gambizzazione, era latitante. Ieri sera è stato arrestato dagli agenti diretti d Vittoio Rizzi in un ristorante a Trebisacce, in provincia di Cosenza, mentre mangiava pesce in compagnia di tre amici. Le indagini sono state condotte dalla Dda di Roma.
Secondo le indagini l'arrestato avrebbe sparato contro Pellegrini per un'offesa. La vittima era entrata nel bar Luna Rossa, gestito dalla moglie di Bilotta, per comprare la droga, ma aveva esagerato mettendolo in difficoltá davanti ai suoi uomini. Si era permesso di mancargli di rispetto e per difendere la sua credibilità da boss é uscito in strada sparando due colpi contro l'auto. La vittima, poco prima dell'agguato, per difendersi aveva anche preso delle forbici. Gli agenti della Squadra mobile avevano anche perquisito al Trullo la villa di Bilotta, controllata da un sistema di telecamere.
«L'arresto di Bilotta è un risultato molto positivo - ha detto Vittorio Rizzi - È stato un lavoro complesso, svolto in collaborazione con la polizia scientifica attraverso mezzi molto sofisticati. Bilotta, che ha diversi precedenti, è un personaggio di spicco della criminalità al Trullo e finora ha avuto un ruolo predominante nel quartiere, dove tra l'altro ha diverse proprietà e gestisce diverse attività, anche se risulta nullatenente. Poi ci sono i legami con la Calabria». Bilotta era stato già in passato destinatario di misure cautelari per associazione a delinquere finalizzata al narcotraffico.
E' stato arrestato dalla Squadra Mobile di Roma con l’accusa di tentato omicidio l’uomo che il 19 settembre scorso, ha sparato alle gambe di un pregiudicato, Alessio Pellegrini, di 33 anni, in via Monte delle Capre del Trullo.
Si tratta di Vincenzo Bilotta, 53enne, nato a Vibo Valentia ma da 30 anni a Roma, considerato dagli investigatori il 'boss del quartiere'. L’uomo nel corso degli anni avrebbe mantenuto contatti con la 'ndrangheta e dal giorno della gambizzazione, era latitante. Ieri sera è stato arrestato dagli agenti diretti d Vittoio Rizzi in un ristorante a Trebisacce, in provincia di Cosenza, mentre mangiava pesce in compagnia di tre amici. Le indagini sono state condotte dalla Dda di Roma.
Secondo le indagini l'arrestato avrebbe sparato contro Pellegrini per un'offesa. La vittima era entrata nel bar Luna Rossa, gestito dalla moglie di Bilotta, per comprare la droga, ma aveva esagerato mettendolo in difficoltá davanti ai suoi uomini. Si era permesso di mancargli di rispetto e per difendere la sua credibilità da boss é uscito in strada sparando due colpi contro l'auto. La vittima, poco prima dell'agguato, per difendersi aveva anche preso delle forbici. Gli agenti della Squadra mobile avevano anche perquisito al Trullo la villa di Bilotta, controllata da un sistema di telecamere.
«L'arresto di Bilotta è un risultato molto positivo - ha detto Vittorio Rizzi - È stato un lavoro complesso, svolto in collaborazione con la polizia scientifica attraverso mezzi molto sofisticati. Bilotta, che ha diversi precedenti, è un personaggio di spicco della criminalità al Trullo e finora ha avuto un ruolo predominante nel quartiere, dove tra l'altro ha diverse proprietà e gestisce diverse attività, anche se risulta nullatenente. Poi ci sono i legami con la Calabria». Bilotta era stato già in passato destinatario di misure cautelari per associazione a delinquere finalizzata al narcotraffico.
Montalto, sequestrati beni per 500mila euro ad un pluripregiudicato
Operazione della Guardia di Finanza di Cosenza contro i patrimoni acquisiti dalla criminalità.
Il provvedimento di sequestro, riguarda un fabbricato e due terreni, ad alto indice di edificabilità, iscritti al catasto del comune di Marano Marchesato (Cs).
Si tratta di una speciale misura cautelare disposta ai sensi dell’articolo 31 della normativa antimafia (legge n. 646/82), in base alla quale i soggetti indiziati di appartenere ad associazioni mafiose o che vivono abitualmente con i proventi derivanti da attività delittuose hanno l’obbligo, per dieci anni, di comunicare al Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza tutte le variazioni che intervengono nel proprio patrimonio di importo non inferiore a poco più di 10.000 euro. Se ciò non avviene, scattano gravi sanzioni seguite dalla confisca dei beni non segnalati o del corrispettivo derivante dalla loro alienazione. In questo senso, le articolate indagini patrimoniali, disposte dall’Autorità Giudiziaria e svolte dalle Fiamme Gialle cosentine, hanno consentito di appurare che Intieri, già sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale avrebbe omesso di comunicare le variazioni nella composizione del suo patrimonio.
I Finanzieri del Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Cosenza hanno sequestrato oggi beni patrimoniali, per un valore complessivo di mercato di circa 500mila euro, nei confronti del pluripregiudicato Antonio Intrieri di Montalto Uffugo (Cs), già coinvolto, nell’operazione “Anaconda” condotta dalla Dda di Catanzaro.
Il provvedimento di sequestro, riguarda un fabbricato e due terreni, ad alto indice di edificabilità, iscritti al catasto del comune di Marano Marchesato (Cs).
Si tratta di una speciale misura cautelare disposta ai sensi dell’articolo 31 della normativa antimafia (legge n. 646/82), in base alla quale i soggetti indiziati di appartenere ad associazioni mafiose o che vivono abitualmente con i proventi derivanti da attività delittuose hanno l’obbligo, per dieci anni, di comunicare al Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza tutte le variazioni che intervengono nel proprio patrimonio di importo non inferiore a poco più di 10.000 euro. Se ciò non avviene, scattano gravi sanzioni seguite dalla confisca dei beni non segnalati o del corrispettivo derivante dalla loro alienazione. In questo senso, le articolate indagini patrimoniali, disposte dall’Autorità Giudiziaria e svolte dalle Fiamme Gialle cosentine, hanno consentito di appurare che Intieri, già sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale avrebbe omesso di comunicare le variazioni nella composizione del suo patrimonio.
mercoledì 28 settembre 2011
Parma, si dimette il sindaco Vignali
Dopo l'inchiesta "green economy" nella città emiliana, il primo cittadino ha perso l'appoggio della sua maggioranza, civici e Pdl.
Il sindaco Pietro Vignali ha annunciato le proprie dimissioni delle quali il Consiglio comunale sarà chiamato a prendere atto. La rinuncia all'incarico è arrivata a due giorni dall'inchiesta della Procura che ha mandato in carcere quattro persone tra le quali l'assessore Giovanni Paolo Bernini. Travolto dall'inchiesta "green money", Vignali, eletto nel 2007 con la lista "Parma civica", si fa da parte a meno di un anno dalla fine del mandato.
"Oggi faccio un passo indietro e mi faccio carico anche di responsabilità non mie, se può aiutare la città a ritrovare la serenità e le condizioni per ripartire", scrive Vignali in una nota che giunge dopo una giornata convulsa in cui ha perso l'appoggio della sua maggioranza, civici e Pdl.
"Questa non è per me una decisione facile, perché non è semplice cancellare più di 13 anni di vita dedicati a tempo pieno alla mia città, non risparmiandomi mai e mettendoci tutta la mia volontà e le mie capacità", prosegue il sindaco i cui collaboratori, compreso l'assessore alla Scuola arrestato, sono stati travolti dall'inchiesta giudiziaria sul verde pubblico e sulle mense scolastiche.
"Se avessi compiuto una scelta nel mio interesse personale mi sarei dimesso già a giugno: mi sarei risparmiato tre mesi di difficoltà e di pressioni enormi, di estenuanti mediazioni, di attacchi personali", continua Vignali che aggiunge "non mi sono dimesso allora perché bisognava portare a termine alcune opere fondamentali per la città e garantire la realizzazione di eventi fondamentali come il Festival Verdi".
"Oggi faccio un passo indietro e mi faccio carico anche di responsabilità non mie, se può aiutare la città a ritrovare la serenità e le condizioni per ripartire", scrive Vignali in una nota che giunge dopo una giornata convulsa in cui ha perso l'appoggio della sua maggioranza, civici e Pdl.
"Questa non è per me una decisione facile, perché non è semplice cancellare più di 13 anni di vita dedicati a tempo pieno alla mia città, non risparmiandomi mai e mettendoci tutta la mia volontà e le mie capacità", prosegue il sindaco i cui collaboratori, compreso l'assessore alla Scuola arrestato, sono stati travolti dall'inchiesta giudiziaria sul verde pubblico e sulle mense scolastiche.
"Se avessi compiuto una scelta nel mio interesse personale mi sarei dimesso già a giugno: mi sarei risparmiato tre mesi di difficoltà e di pressioni enormi, di estenuanti mediazioni, di attacchi personali", continua Vignali che aggiunge "non mi sono dimesso allora perché bisognava portare a termine alcune opere fondamentali per la città e garantire la realizzazione di eventi fondamentali come il Festival Verdi".
Roma, due imprenditori sequestrati e seviziati per giorni
Alla base del rapimento ci sarebbe un debito dei due con un pregiudicato dedito all'usura. Sul corpo segni di bruciature di sigaretta
Sequestrati per alcuni giorni, picchiati e seviziati. Un rapimento dai contorni oscuri che somiglia più a un avvertimento feroce o a una vendetta per un torto subito. È successo a due imprenditori romani, di 38 e 58 anni, nella zona tra la capitale e l’Infernetto. Costretti a prelevare denaro al bancomat, quindi portati da un notaio dove i malviventi, almeno due, hanno cercato di farsi intestare alcune quote societarie.
Questo è quello che emerge dal racconto dei due imprenditori, finiti in ospedale dopo essere riusciti ad allertare la polizia nella notte di martedì. Una deposizione confusa che inizia nel momento in cui i due vengono presi in ostaggio nella villetta dell’imprenditore più anziano. Dopo ci sono ore di terrore con i due che vengono sottoposti a vere e proprie torture fisiche. Secondo quanto si è appreso da fonti sanitarie sul corpo degli uomini ci sarebbero i segni di bruciature procurate da mozziconi di sigaretta.
Gli inquirenti stanno battendo una pista che porta ad un giro di usura. Pare che i due dovessero restituire una somma di 50 mila euro ad un pregiudicato appartenente al mondo del credito illegale. Uno dei due è un ex socio del Luneur, il lunapark della capitale. Gli inquirenti hanno già interrogato diverse persone che ruotano intorno al mondo dell’usura. Un fenomeno che il prefetto di Roma ha messo sotto la lente durante l’audizione in Commissione parlamentare Antimafia sulla situazione della criminalità nella capitale.
Sequestrati per alcuni giorni, picchiati e seviziati. Un rapimento dai contorni oscuri che somiglia più a un avvertimento feroce o a una vendetta per un torto subito. È successo a due imprenditori romani, di 38 e 58 anni, nella zona tra la capitale e l’Infernetto. Costretti a prelevare denaro al bancomat, quindi portati da un notaio dove i malviventi, almeno due, hanno cercato di farsi intestare alcune quote societarie.
Questo è quello che emerge dal racconto dei due imprenditori, finiti in ospedale dopo essere riusciti ad allertare la polizia nella notte di martedì. Una deposizione confusa che inizia nel momento in cui i due vengono presi in ostaggio nella villetta dell’imprenditore più anziano. Dopo ci sono ore di terrore con i due che vengono sottoposti a vere e proprie torture fisiche. Secondo quanto si è appreso da fonti sanitarie sul corpo degli uomini ci sarebbero i segni di bruciature procurate da mozziconi di sigaretta.
Gli inquirenti stanno battendo una pista che porta ad un giro di usura. Pare che i due dovessero restituire una somma di 50 mila euro ad un pregiudicato appartenente al mondo del credito illegale. Uno dei due è un ex socio del Luneur, il lunapark della capitale. Gli inquirenti hanno già interrogato diverse persone che ruotano intorno al mondo dell’usura. Un fenomeno che il prefetto di Roma ha messo sotto la lente durante l’audizione in Commissione parlamentare Antimafia sulla situazione della criminalità nella capitale.
Catanzaro. Duplice omicidio Grattà. L'accusa chiede tre condanne
Richiesta notevole: due ergastoli e 20 anni di reclusione da parte dell'accusa nei tre giudizi abbreviati a carico dei giovani accusati di concorso nel omicidio dei gemelli Grattà
Due ergastoli ed una condanna a 20 anni di reclusione sono stati chiesti oggi dalla pubblica accusa nel corso dei tre giudizi abbreviati a carico dei altrettanti giovani finiti in manette con l’accusa di concorso nel duplice omicidio dei fratelli gemelli 45enni Vito e Nicola Grattà, avvenuto l’11 giugno 2010 a Gagliato (Catanzaro). Il sostituto procuratore della Direzione distrettuale antimafia, Vincenzo Capomolla, ha concluso la propria requisitoria chiedendo il carcere a vita per Alberto Sia e Patrik Vitale, mentre 20 anni sono stati chiesti per Giovanni Catrambone.
E' seguita la discussione del difensore di quest’ultimo, l'avvocato Giovanni Caridi, che ha concluso chiedendo l'assoluzione del proprio assistito. Poi il giudice dell’udienza preliminare di Catanzaro, Abigail Mellace, ha rinviato alle udienze del 18 e 20 ottobre per le altre arringhe difensive (gli altri avvocati impegnati sono Gregorio Viscomi, Salvatore Staiano, Sergio Rotundo, e Felice Siciliano) e la sentenza. Gli imputati per i quali è in corso l’abbreviato sono Alberto Sia, 26 anni, di Soverato, avvisato orale di pubblica sicurezza e figlio di Vittorio Sia, 51 anni, il presunto boss ucciso in un agguato il 22 aprile scorso; Patrik Vitale, 26 anni, di Satriano e Giovanni Catrambone, 22 anni, di Montepaone, entrambi noti per reati minori. Sono stati condotti in carcere dai carabinieri il 2 luglio 2010, in esecuzione di un provvedimento di fermo emesso dalla Procura distrettuale antimafia, che poi il giudice per le indagini preliminari distrettuale di Catanzaro, Emma Sonni, ha convalidato.
I tre giovani - assieme ai quali è stato indagato anche un minorenne -, secondo la tesi dell’accusa avrebbero partecipato alla ideazione e all’esecuzione dell’omicidio dei Grattà, maturato nell’ambito di una faida tra cosche per il controllo del soveratese, nonchè del territorio a cavallo con le province di Reggio Calabria e Vibo Valentia. Una delle vittime di questa guerra è stato proprio Vittorio Sia, padre di Alberto, ed ora quest’ultimo e Vitale e Catrambone sono sospettati di aver rubato lo scooter utilizzato per l’agguato di chiaro stampo mafioso in cui sono stati freddati i due Grattà - le ipotesi d’accusa per i tre sono di concorso in omicidio aggravato, furto aggravato, lesioni e porto abusivo di arma da fuoco -. Le intercettazioni e i riscontri investigativi hanno permesso ai carabinieri di verificare che i tre giovani avrebbero rubato lo scooter, dopo il duplice omicidio rinvenuto bruciato in località Pietà di Petrizzi, non distante dal luogo dell’agguato, e cioè in una zona che sarebbe sotto il controllo proprio di Sia e degli altri due fermati. Qui i militari hanno rinvenuto anche una pistola 9x19 con quattro colpi nel caricatore, pure bruciata, compatibile con quella utilizzata per l’agguato.
Due ergastoli ed una condanna a 20 anni di reclusione sono stati chiesti oggi dalla pubblica accusa nel corso dei tre giudizi abbreviati a carico dei altrettanti giovani finiti in manette con l’accusa di concorso nel duplice omicidio dei fratelli gemelli 45enni Vito e Nicola Grattà, avvenuto l’11 giugno 2010 a Gagliato (Catanzaro). Il sostituto procuratore della Direzione distrettuale antimafia, Vincenzo Capomolla, ha concluso la propria requisitoria chiedendo il carcere a vita per Alberto Sia e Patrik Vitale, mentre 20 anni sono stati chiesti per Giovanni Catrambone.
E' seguita la discussione del difensore di quest’ultimo, l'avvocato Giovanni Caridi, che ha concluso chiedendo l'assoluzione del proprio assistito. Poi il giudice dell’udienza preliminare di Catanzaro, Abigail Mellace, ha rinviato alle udienze del 18 e 20 ottobre per le altre arringhe difensive (gli altri avvocati impegnati sono Gregorio Viscomi, Salvatore Staiano, Sergio Rotundo, e Felice Siciliano) e la sentenza. Gli imputati per i quali è in corso l’abbreviato sono Alberto Sia, 26 anni, di Soverato, avvisato orale di pubblica sicurezza e figlio di Vittorio Sia, 51 anni, il presunto boss ucciso in un agguato il 22 aprile scorso; Patrik Vitale, 26 anni, di Satriano e Giovanni Catrambone, 22 anni, di Montepaone, entrambi noti per reati minori. Sono stati condotti in carcere dai carabinieri il 2 luglio 2010, in esecuzione di un provvedimento di fermo emesso dalla Procura distrettuale antimafia, che poi il giudice per le indagini preliminari distrettuale di Catanzaro, Emma Sonni, ha convalidato.
I tre giovani - assieme ai quali è stato indagato anche un minorenne -, secondo la tesi dell’accusa avrebbero partecipato alla ideazione e all’esecuzione dell’omicidio dei Grattà, maturato nell’ambito di una faida tra cosche per il controllo del soveratese, nonchè del territorio a cavallo con le province di Reggio Calabria e Vibo Valentia. Una delle vittime di questa guerra è stato proprio Vittorio Sia, padre di Alberto, ed ora quest’ultimo e Vitale e Catrambone sono sospettati di aver rubato lo scooter utilizzato per l’agguato di chiaro stampo mafioso in cui sono stati freddati i due Grattà - le ipotesi d’accusa per i tre sono di concorso in omicidio aggravato, furto aggravato, lesioni e porto abusivo di arma da fuoco -. Le intercettazioni e i riscontri investigativi hanno permesso ai carabinieri di verificare che i tre giovani avrebbero rubato lo scooter, dopo il duplice omicidio rinvenuto bruciato in località Pietà di Petrizzi, non distante dal luogo dell’agguato, e cioè in una zona che sarebbe sotto il controllo proprio di Sia e degli altri due fermati. Qui i militari hanno rinvenuto anche una pistola 9x19 con quattro colpi nel caricatore, pure bruciata, compatibile con quella utilizzata per l’agguato.
San Fratello, sgomberate otto famiglie: "Entro venerdì al via i lavori"
Lo assicura il sindaco del comune nel Messinese, Salvatore Sidoti Pinto, dopo gli smottamenti avvenuti nel centro abitato tirrenico ieri
MESSINA. "La protezione civile regionale mi ha assicurato che entro venerdi inizieranno i lavori di messa in sicurezza e consolidamento dei terreni che sono stati interessati negli scorsi giorni da smottamenti".
Lo dice il sindaco di San Fratello, Salvatore Sidoti Pinto, dopo gli smottamenti avvenuti nel comune tirrenico ieri e per i quali il primo cittadino ha dovuto sgomberare otto famiglie.
"La situazione qui a San Fratello - continua il sindaco - è sempre difficile, dopo due anni dal tremendo movimento franoso che ha sconvolto il paese. 850 persone non sono potute entrare ancora nelle loro case perché non sono stati completati i lavori di ristrutturazione delle loro abitazioni. Il governo nazionale ha stanziato circa 45 milioni di euro per la messa in sicurezza del paese e per la sistemazione delle abitazioni, speriamo che con questi fondi si possano ultimare i lavori".
MESSINA. "La protezione civile regionale mi ha assicurato che entro venerdi inizieranno i lavori di messa in sicurezza e consolidamento dei terreni che sono stati interessati negli scorsi giorni da smottamenti".
Lo dice il sindaco di San Fratello, Salvatore Sidoti Pinto, dopo gli smottamenti avvenuti nel comune tirrenico ieri e per i quali il primo cittadino ha dovuto sgomberare otto famiglie.
"La situazione qui a San Fratello - continua il sindaco - è sempre difficile, dopo due anni dal tremendo movimento franoso che ha sconvolto il paese. 850 persone non sono potute entrare ancora nelle loro case perché non sono stati completati i lavori di ristrutturazione delle loro abitazioni. Il governo nazionale ha stanziato circa 45 milioni di euro per la messa in sicurezza del paese e per la sistemazione delle abitazioni, speriamo che con questi fondi si possano ultimare i lavori".
Il figlio di Riina a Padova? La Lega: non lo vogliamo
Il terzogenito del superboss sta per uscire dal carcere dopo una condanna di quasi 9 anni per associazione mafiosa. Lavorerà in una onlus in Veneto. Il senatore Cagnin: i mafiosi che abbiamo ospitato hanno fatto scuola ai nostri criminali
ROMA. Salvuccio Riina, terzogenito del superboss della mafia Totò Riina, ha scontato una condanna a 8 anni e 10 mesi per associazione mafiosa e ora dovrebbe andare a vivere a Padova, dove lavorerà in una onlus indicata dal provvedimento del giudice di sorveglianza di Pavia. La notizia ha messo in subbuglio la Lega Nord, soprattutto del Veneto, e l'allarme è stato lanciato nell' Aula del Senato dal senatore padovano Luciano Cagnin. "La notizia che Salvuccio Riina intende stabilirsi a Padova, sta mettendo in apprensione tutti noi padovani, tutti noi veneti" ha detto Cagnin che ha ricordato "tutti quei mafiosi che abbiamo ricevuto in passato con il tanto triste provvedimento del soggiorno obbligato: quei mafiosi che hanno poi fatto scuola ai nostri criminali come Felice Maniero".
Il figlio di Riina, che ha 34 anni, dovrebbe uscire domenica prossima dal carcere di Voghera e Cagnin sottolinea che "non si é mai pentito né tanto meno ha mai rinnegato le sue origini, la sua attività mafiosa all'interno dell'organizzazione del padre, incontrastato numero uno". Per questo, a nome della Lega del Senato, Cagnin ha fatto appello al ministro della Giustizia Nitto Palma, presente ieri al dibattito sulle carceri, per un intervento presso gli uffici competenti della magistratura, sottolineando che, se Riina arriverà nella sua città , il Carroccio è pronto a scendere in piazza "con le nostre fiaccolate, a difendere il nostro territorio, il nostro Paese, la nostra gente". "Sui mafiosi sulle nostre terre abbiamo gaì dato troppo" ha concluso con piglio combattivo Cagnin.
ROMA. Salvuccio Riina, terzogenito del superboss della mafia Totò Riina, ha scontato una condanna a 8 anni e 10 mesi per associazione mafiosa e ora dovrebbe andare a vivere a Padova, dove lavorerà in una onlus indicata dal provvedimento del giudice di sorveglianza di Pavia. La notizia ha messo in subbuglio la Lega Nord, soprattutto del Veneto, e l'allarme è stato lanciato nell' Aula del Senato dal senatore padovano Luciano Cagnin. "La notizia che Salvuccio Riina intende stabilirsi a Padova, sta mettendo in apprensione tutti noi padovani, tutti noi veneti" ha detto Cagnin che ha ricordato "tutti quei mafiosi che abbiamo ricevuto in passato con il tanto triste provvedimento del soggiorno obbligato: quei mafiosi che hanno poi fatto scuola ai nostri criminali come Felice Maniero".
Il figlio di Riina, che ha 34 anni, dovrebbe uscire domenica prossima dal carcere di Voghera e Cagnin sottolinea che "non si é mai pentito né tanto meno ha mai rinnegato le sue origini, la sua attività mafiosa all'interno dell'organizzazione del padre, incontrastato numero uno". Per questo, a nome della Lega del Senato, Cagnin ha fatto appello al ministro della Giustizia Nitto Palma, presente ieri al dibattito sulle carceri, per un intervento presso gli uffici competenti della magistratura, sottolineando che, se Riina arriverà nella sua città , il Carroccio è pronto a scendere in piazza "con le nostre fiaccolate, a difendere il nostro territorio, il nostro Paese, la nostra gente". "Sui mafiosi sulle nostre terre abbiamo gaì dato troppo" ha concluso con piglio combattivo Cagnin.
Palermo, confermata la condanna del boss Mandalà
La prima sezione della corte d'appello ha inflitto una pena di otto anni di carcere al capomafia di Villabate. Il pentito Stefano Lo verso ha parlato di rapporti tra lui e il ministro dell'agricoltura Saverio Romano
PALERMO. La prima sezione della corte d'appello di Palermo, ieri, ha confermato la condanna a 8 anni di carcere inflitta in primo grado al capomafia di Villabate Nino Mandalà. Il boss, precedentemente condannato per intestazione fittizia di beni, è libero per scadenza dei termini di custodia cautelare.
La sentenza di primo grado, infatti, fu emessa quando già il tempo massimo di carcerazione era decorso. La nuova condanna potrebbe riaprire le porte del carcere per il boss: dovrebbero essere la procura generale o la corte d'appello a disporre, eventualmente, la nuova misura.
Nel processo, conclusosi con la conferma della pena per il capomafia, era imputato, tra gli altri, il deputato di Forza Italia Gaspare Giudice, accusato di mafia e assolto in primo grado. Il parlamentare nel frattempo è deceduto, quindi la corte ha dichiarato a suo carico il non doversi procedere per morte dell'imputato confermando, per il reato, il verdetto del tribunale.
Il nome di Mandalà, boss vicinissimo a Bernardo Provenzano e autore di un blog su internet, è tornato d'attualità con le dichiarazioni del pentito Stefano Lo verso che ha parlato di rapporti tra il capomafia e il ministro dell'agricoltura Saverio Romano. Le accuse del pentito, che riferisce di aver saputo proprio da Mandalà i legami tra la cosca e il politico, sono finite nell'indagine per concorso in associazione mafiosa a carico del ministro. A seguito delle notizie sull'inchiesta è stata presentata in parlamento una mozione di sfiducia di Romano su cui la Camera si pronuncerà nel pomeriggio.
PALERMO. La prima sezione della corte d'appello di Palermo, ieri, ha confermato la condanna a 8 anni di carcere inflitta in primo grado al capomafia di Villabate Nino Mandalà. Il boss, precedentemente condannato per intestazione fittizia di beni, è libero per scadenza dei termini di custodia cautelare.
La sentenza di primo grado, infatti, fu emessa quando già il tempo massimo di carcerazione era decorso. La nuova condanna potrebbe riaprire le porte del carcere per il boss: dovrebbero essere la procura generale o la corte d'appello a disporre, eventualmente, la nuova misura.
Nel processo, conclusosi con la conferma della pena per il capomafia, era imputato, tra gli altri, il deputato di Forza Italia Gaspare Giudice, accusato di mafia e assolto in primo grado. Il parlamentare nel frattempo è deceduto, quindi la corte ha dichiarato a suo carico il non doversi procedere per morte dell'imputato confermando, per il reato, il verdetto del tribunale.
Il nome di Mandalà, boss vicinissimo a Bernardo Provenzano e autore di un blog su internet, è tornato d'attualità con le dichiarazioni del pentito Stefano Lo verso che ha parlato di rapporti tra il capomafia e il ministro dell'agricoltura Saverio Romano. Le accuse del pentito, che riferisce di aver saputo proprio da Mandalà i legami tra la cosca e il politico, sono finite nell'indagine per concorso in associazione mafiosa a carico del ministro. A seguito delle notizie sull'inchiesta è stata presentata in parlamento una mozione di sfiducia di Romano su cui la Camera si pronuncerà nel pomeriggio.
Truffa all’Inps, 5 arresti a Palermo
In manette tre donne e due uomini. Sono accusati di avere falsificato i documenti di identità dei titolari di bonifici bancari per intascare i soldi
PALERMO. Cinque persone sono state arrestate dai carabinieri a Palermo per una truffa all'Inps di circa due milioni di euro. In manette sono finiti tre donne e due uomini. Sono accusati di avere falsificato i documenti di identità dei titolari di bonifici bancari per intascare i soldi erogati dall'istituto nazionale di previdenza sociale. Sulle modalità con le quali gli indagati sarebbero venuti a conoscenza dell'emissione dei pagamenti sono ancora in corso accertamenti per scoprirlo. Gli arrestati sono Lidia Alfano, 42 anni, Valeria Barbagallo, 22 anni, Antonina Ferrara, 60 anni, Giuseppe Gargano, 46 anni e Natale Catalano, 60 anni. Quest'ultimo era già detenuto per altri reati in carcere all'Ucciardone. Secondo gli investigatori per compiere la truffa venivano reclutate anche altre persone che con i documenti falsi andavano agli sportelli delle poste e delle banche per incassare i bonifici intestati ai veri destinatari del denaro.
PALERMO. Cinque persone sono state arrestate dai carabinieri a Palermo per una truffa all'Inps di circa due milioni di euro. In manette sono finiti tre donne e due uomini. Sono accusati di avere falsificato i documenti di identità dei titolari di bonifici bancari per intascare i soldi erogati dall'istituto nazionale di previdenza sociale. Sulle modalità con le quali gli indagati sarebbero venuti a conoscenza dell'emissione dei pagamenti sono ancora in corso accertamenti per scoprirlo. Gli arrestati sono Lidia Alfano, 42 anni, Valeria Barbagallo, 22 anni, Antonina Ferrara, 60 anni, Giuseppe Gargano, 46 anni e Natale Catalano, 60 anni. Quest'ultimo era già detenuto per altri reati in carcere all'Ucciardone. Secondo gli investigatori per compiere la truffa venivano reclutate anche altre persone che con i documenti falsi andavano agli sportelli delle poste e delle banche per incassare i bonifici intestati ai veri destinatari del denaro.
Agguato a Varapodio, uccisi due fratelli a colpi di fucile
Un pregiudicato, Francesco Donato, di 18 anni, è stato ucciso a Varapodio in un agguato in cui è rimasto ferito in modo grave il fratello, Carmelo, di 26 anni, deceduto poi successivamente all'ospedale di Polistena
E' morto anche Carmelo Donato, il giovane di 26 anni, obiettivo dell’agguato nel quale stamattina era stato ucciso il fratello Francesco, di 18.
Le condizioni di Carmelo Donato, erano apparse subito molto gravi, tanto che i sanitari avevano deciso di non operarlo. Secondo la prima ricostruzione dei fatti, i due ragazzi sono stati uccisi questa mattina, intorno alle 7.30, mentre a bordo del loro trattore stavano andando in campagna a lavorare in località «Due Querce» di Varapodio.
I militari sono stati avvertiti da una telefonata al 112. Per gli inquirenti, la pista privilegiata al momento è quella che conduce alla criminalità organizzata ed hanno già effettuato diverse perquisizioni a pregiudicati della zona.
Nel 2000, il padre delle due vittime, Saverio Donato, venne assassinato e secondo gli investigatori era considerato vicino, in particolare, alla cosca Barca di Varapodio. Saverio Donato fu ucciso mentre era a bordo del suo autotreno. Per quell'assassinio i carabinieri fermarono Antonio Mammoliti, nipote del boss Saverio Mammoliti, capo dell’omonima cosca della 'ndrangheta, e Michele Alessi, entrambi di 33 anni.
Le condizioni di Carmelo Donato, erano apparse subito molto gravi, tanto che i sanitari avevano deciso di non operarlo. Secondo la prima ricostruzione dei fatti, i due ragazzi sono stati uccisi questa mattina, intorno alle 7.30, mentre a bordo del loro trattore stavano andando in campagna a lavorare in località «Due Querce» di Varapodio.
I militari sono stati avvertiti da una telefonata al 112. Per gli inquirenti, la pista privilegiata al momento è quella che conduce alla criminalità organizzata ed hanno già effettuato diverse perquisizioni a pregiudicati della zona.
Nel 2000, il padre delle due vittime, Saverio Donato, venne assassinato e secondo gli investigatori era considerato vicino, in particolare, alla cosca Barca di Varapodio. Saverio Donato fu ucciso mentre era a bordo del suo autotreno. Per quell'assassinio i carabinieri fermarono Antonio Mammoliti, nipote del boss Saverio Mammoliti, capo dell’omonima cosca della 'ndrangheta, e Michele Alessi, entrambi di 33 anni.
'Ndrangheta, 10 arresti nel Bresciano per traffico internazionale di droga
Numerose ordinanze di custodia cautelare e perquisizioni sono scattate stamattina nella provincia di Brescia
Operazione questa mattina degli agenti della Squadra Mobile della Questura di Brescia nei confronti di un gruppo criminale dedito al traffico internazionale e allo spaccio di grandi quantitativi di cocaina proveniente dal Sudamerica verso l’Italia attraverso la Spagna. Dieci persone, indiziate di appartenere a clan della 'ndrangheta, alcuni vicini alle famiglie Morabito e Papalia di Reggio Calabria, sono state arrestate. Gli inquirenti, coordinati dalla Dda della procura di Brescia hanno ripercorso e ricostruito un traffico di un centinaio di chili di cocaina. A dicembre sono stati effettuati sequestri per 10 chili. La droga era destinata ad approvvigionare il mercato del bresciano, del Veneto e del nord Italia.
Arrestato a Corigliano un affiliato alla Sacra corona unita
Raffaele Renna, di 32 anni, di San Pietro Vernotico (Brindisi), avrebbe speronato l'auto dei militari che lo avevano fermato per alcune minacce fatte alla moglie
Ha minacciato la moglie e quando i carabinieri sono intervenuti ha opposto resistenza e con la sua auto ha speronato quella dei militari, dandosi poi alla fuga.
Raffaele Renna, sorvegliato speciale di 32 anni, di San Pietro Vernotico (Brindisi), esponente di spicco, secondo quanto riferito dai carabinieri, della Sacra corona unita, è stato arrestato successivamente a Corigliano Calabro.
Renna, dopo che la moglie si era allontanata da casa, l’ha raggiunta a Sellia Marina (Cz), dove la donna si era rifugiata a casa di amici, e l’ha minacciata. Renna ha poi inveito contro i carabinieri che nel frattempo erano giunti sul posto, avvertiti da un passante, ed ha danneggiato l’automobile dei militari speronandola con la propria vettura.
Si è dato poi alla fuga lungo la statale 106 jonica per fare rientro in Puglia ma la sua corsa si è conclusa a Corigliano Calabro (Cs) dove è stato bloccato in un’area di servizio dai carabinieri della locale Compagnia, avvertiti dai loro colleghi di Sellia Marina. Renna è stato arrestato con l’accusa di inosservanza degli obblighi della sorveglianza speciale, che ha violato perchè non poteva allontanarsi da San Pietro Vernotico; resistenza a pubblico ufficiale e danneggiamento. I militari hanno anche denunciato in stato di libertà una persona che si trovava insieme a Renna, D.V., di 31 anni, anch’egli ritenuto vicino alla Sacra corona unita.
Ha minacciato la moglie e quando i carabinieri sono intervenuti ha opposto resistenza e con la sua auto ha speronato quella dei militari, dandosi poi alla fuga.
Raffaele Renna, sorvegliato speciale di 32 anni, di San Pietro Vernotico (Brindisi), esponente di spicco, secondo quanto riferito dai carabinieri, della Sacra corona unita, è stato arrestato successivamente a Corigliano Calabro.
Renna, dopo che la moglie si era allontanata da casa, l’ha raggiunta a Sellia Marina (Cz), dove la donna si era rifugiata a casa di amici, e l’ha minacciata. Renna ha poi inveito contro i carabinieri che nel frattempo erano giunti sul posto, avvertiti da un passante, ed ha danneggiato l’automobile dei militari speronandola con la propria vettura.
Si è dato poi alla fuga lungo la statale 106 jonica per fare rientro in Puglia ma la sua corsa si è conclusa a Corigliano Calabro (Cs) dove è stato bloccato in un’area di servizio dai carabinieri della locale Compagnia, avvertiti dai loro colleghi di Sellia Marina. Renna è stato arrestato con l’accusa di inosservanza degli obblighi della sorveglianza speciale, che ha violato perchè non poteva allontanarsi da San Pietro Vernotico; resistenza a pubblico ufficiale e danneggiamento. I militari hanno anche denunciato in stato di libertà una persona che si trovava insieme a Renna, D.V., di 31 anni, anch’egli ritenuto vicino alla Sacra corona unita.
martedì 27 settembre 2011
Picchiati a colpi di cric, fermato l'aggressore
La lite, domenica notte a Milano, è scaturita da un sorpasso
Ammirabile, intervenuto in soccorso dell'amico, è stato colpito alla testa riportando una profonda ferita e un'emorragia cerebrale che ha reso necessario un delicato intervento chirurgico.
E' stato individuato e fermato dalla polizia l'uomo che all'alba di domenica ha picchiato selvaggiamente a colpi di cric due giovani, rimasti gravemente feriti, durante una lite per un sorpasso a Milano. L'uomo, che ha 55 anni e vive a Cameri, in provincia di Novara, è disoccupato e ha precedenti per resistenza a pubblico ufficiale e spaccio di banconote false. E' stato rintracciato grazie alle riprese delle telecamere e alle testimonianze.
Antonio Ammirabile e Francesco Patronelli, i due universitari originari del brindisino vittime dell'aggressione, sono intanto stati ascoltati a lungo dagli investigatori. Nei loro letti d'ospedale al Policlinico e al San Carlo i ragazzi hanno cercato di ricostruire ogni passaggio di quanto accaduto in via Renato Serra due giorni fa mentre si stavano dirigendo a casa di amici a dormire.
I due universitari hanno ribadito che tutto è iniziato quando l'auto dell'aggressore, in fase di sorpasso, ha urtato con lo specchietto quello della Alfa Mito sulla quale stavano viaggiando. Sono volati insulti dall'abitacolo e poi l'auto dell'aggressore ha "chiuso" la Mito costringendola a fermarsi. Patronelli, che sedeva sul lato del passeggero, è sceso subito e dopo un pesante scambio di battute è stato aggredito e colpito ripetutamente alla testa e al braccio con un "pesante attrezzo di ferro" che l'uomo ha preso dall'auto.
Ammirabile, intervenuto in soccorso dell'amico, è stato colpito alla testa riportando una profonda ferita e un'emorragia cerebrale che ha reso necessario un delicato intervento chirurgico.
Dall'Albania la truffa del farmaco anticancro
BARI - L’introduzione in Italia di un farmaco dall’Albania forse prodotto in Cina o India, senza alcuna autorizzazione sanitaria, per quanto grave possa essere, sembra quasi passare in secondo piano, rispetto ad un altro sospetto degli investigatori. E cioè che qualcuno abbia carpito la buona fede di persone disperate in cerca di una cura alternativa e naturale contro il cancro. F. M. 48 anni, pisano, presidente della Pharma Matrix, con sede a Tirana, è stato denunciato a piede libero dalla Guardia di finanza. L’uomo era appena sbarcato nell’aeroporto di Bari con un volo proveniente dall’Albania con 200 flaconi di «Vidatox C 30» e 36 fiale di antiossidanti privi di autorizzazione sanitaria. In tutto 39 chili di farmaci sequestrati.
L’uomo ha dapprima raccontato ai militari del Gruppo Bari - agli ordini del tenente colonnello Mercurino Mattiace - e ai funzionari dell’Agenzia delle Dogane che si trattava solo di uso personale. Poi ha presentato una certificazione (per i militari, falsa) da cui risultava che i farmaci erano diretti a San Marino dove la società controlla un poliambulatorio (così come a Tirana è in collaborazione con una clinica privata).
Che cosa è il «Vidatox C-30»? Una sorta di prodotto omeopatico, surrogato del «Trj C-30», a sua volta surrogato del «veleno dello scorpione». Solo quest’u l t i m o, ovvero il prodotto naturale, distribuito a Cuba e non altrove, avrebbe una efficacia antitumorale su alcuni tumori. Si tratta dell’Escozul un di principio attivo che, una volta sintetizzato darà vita al farmaco che si chiamerà «Vidatox». In sostanza, c’è chi avrebbe giocato sul nome per ingenerare confusione.
La vicenda è complessa e parte da lontano. Sin dagli anni Ottanta, nell’isola caraibica alcuni contadini in maniera empirica avevano verificato che animali malandati, pizzicati da una particolare varietà di scorpione che cresce solo a Cuba si rinvigorivano. Sperimentato sugli uomini, il veleno dello scorpione, detto Escozul (veleno dello scorpione azzurro anche se in realtà l’animaletto è rossastro) ha dimostrato di avere una efficacia antinfiammatoria, antidolorifica, immunoregolatrice e antitumorale. Il veleno, unito ad acqua è stato prima prodotto solo dai contadini nelle campagne di Cuba. Poi, dal 2005 la Labiofam casa farmaceutica statale cubana (diretta da un nipote di Fidel Castro) ha iniziato a confezionarlo e a distribuirlo, gratuitamente, ai pazienti. Molti italiani, cartelle cliniche alla mano, sono andati così a l’Havana per procurarselo. Quello «vero», per potere essere efficace deve essere conservato ad una temperatura di circa 4 gradi centigradi. La «catena del freddo» consente di mantenere il principio attivo fino a 120 giorni, dopo di che perde efficacia.
Nel settembre 2010 le «Iene» hanno trasmesso due servizi sulle proprietà dell’escozul. Subito dopo la Labiofam è stata «invasa» dagli italiani. Per fare fronte alla richiesta (lo scorpione, stimolato elettricamente produce due-tre gocce ogni 21 giorni) l’azienda ha creato un prodotto sintetico che si chiama «Trj C 30», dove 30 sta per 30.000, ovvero il numero di volte che una goccia di veleno viene agitata in una soluzione d’acqua. Mentre le ricerche sull’escozul sono andate avanti (a condurle ci sono medici cubani che si sono formati e che hanno lavorato in Europa), sul Trj C-30 non ci sono risultati certi. Fino al febbraio scorso era possibile andare presso la Labiofam e ritirare (al costo di un centesimo di euro) questi flaconcini. Poi, però, anche questo canale è stato chiuso. L’ufficio brevetti cubano, per la propria credibilità, ha messo in vigore nuove disposizioni legislative per la registrazione dei nuovi farmaci molto simili alle norme dell’Unione Europea.
La Pharma Matrix vanta sul suo sito un accordo esclusivo con la Labiofam per l’importazione del farmaco da Cuba. Tuttavia alcuni imprenditori italiani, forse giocando sulla confusione venutasi a creare, avrebbero iniziato a produrre il «Vidatox C-30» (fratello minore del «Trj C-30») in Cina e India per abbassare i costi. Di qui, potrebbe essere spedito in Albania, nel cuore dell’Europa senza che ci siano gli stringenti controlli sanitari imposti ai Paesi Ue, quindi venduto a pazienti italiani. Al costo di 130 euro a boccetta. Cosa c’è in realtà in quei flaconcini? Probabile che vengano disposte delle analisi chimiche sul prodotto sequestrato.
Le indagini sono coordinate dal pm Teresa Iodice. Il sospetto è che, giocando sull’equivoco, qualcuno abbia tentato di spacciare il «Vidatox C-30», a sua volta fratello minore del «Trj C 30», per il «vero » veleno dello scorpione. Intanto, Matteucci è stato denunciato per violazione delle leggi sanitarie. Il rischio è che migliaia di persone alla disperata ricerca di un rimedio per curare una persona in famiglia malata di cancro siano state truffate.
Ucciso ad Apricena titolare cooperativa di guardiania
APRICENA (FOGGIA) – Un uomo di 41 anni, le cui generalità al momento non sono state ancora rivelate, è stato ucciso con alcuni colpi di arma da fuoco ad Apricena mentre si trovava all’interno degli uffici della cooperativa di portierato, assistenza e guardiania “Il Falco”, di cui era titolare. L’uomo è stato raggiunto da diversi colpi di pistola ed è stato trovato agonizzante da uno dei suoi dipendenti entrato negli uffici. L’uomo è morto durante il tragitto in ospedale. Sul delitto indagano i carabinieri.
La vittima si chiamava Andrea Niro e sarebbe stato uccisa, secondo i primi rilievi, con tre colpi di pistola. Le indagini dei carabinieri sono coordinate dai pm della Procura della Repubblica di Lucera (Foggia) Mara Flaiano e Alessio Marangelli.
Dalle prime indagini gli inquirenti sospetterebbero che l'omicidio possa essere scaturito da rivalità in ambito professionale.
Il pentito rivela «Così chiesi aiuto al sindaco Stefàno»
Il sindaco «Ma non scherziamo»
La mattina Mario Babuscio, aspirante collaboratore di giustizia, andava a Palazzo di Città per incontrare il sindaco Ezio Stefàno per proporgli progetti o chiedergli di risolvere problemi. È quanto emerge dalla lettura dei verbali, ora non più «omissati», degli interrogatori a cui il 53enne arrestato giusto un anno fa nell’ambito dell’operazione antimafia denominata «Scarface», è stato sottoposto dal sostituto procuratore Lino Giorgio Bruno. Il magistrato della Dda di Lecce ha chiesto al giudice per le indagini preliminari Antonia Martalò un incidente probatorio per acquisire le dichiarazioni di Babuscio. Il suo racconto ha portato nei giorni scorsi all’apertura di un fascicolo di inchiesta che vede coinvolte 12 persone.
L’Antimafia ipotizza il voto di scambio - con l’aggravante di aver agevolato l’attività di una associazione di stampo mafioso - per il consigliere regionale del Pdl Gianfranco Chiarelli, avvocato penalista di Martina Franca, primo degli eletti in provincia di Taranto nella consultazione di un anno fa con 13.335 preferenze. Ma, stando a quanto la Gazzetta è in grado di rivelare, Babuscio aveva frequentazioni politiche a 360 gradi.
Il rapporto con il sindaco Stefàno emerge, nell’interrogatorio del 19 novembre del 2010, quando il dottor Bruno chiede a Babuscio conto del suo interessamento, per conto del boss Cataldo Ricciardi, riguardo la gestione del bar dell’ospedale «Santissima Annunziata». Dall'attività d'indagine compiuta dagli agenti della Squadra Mobile, diretti dal primo dirigente Fabio Abis, è emerso che l'esercizio era formalmente gestito da una società tarantina partecipata da Francesco Presicci, arrestato come Babuscio nell’ambito del blitz «Scarface».
I sopralluoghi della polizia avevano consentito di accertare che nella gestione del bar si alternavano la convivente di Mario Babuscio, con Anna Guarella e le due donne, insieme allo stesso Babuscio, provvedevano ad intrattenere anche i rapporti con i fornitori. Ricciardi torna alla carica nel 2007 quando viene creata una società «Nuovo Bar padiglione Vinci srl», con unico socio Francesco Ricciardi, figlio di Cataldo, alla quale la società di Presicci ha poi ceduto in fitto il bar.
Due anni fa - il 15 ottobre 2009 – è stato stipulato tra l’Asl e la società di Ricciardi un contratto della durata di 9 anni mentre lo scorso 8 maggio la Cassazione, accogliendo il ricorso presentato dagli avvocati Gaetano Vitale e Domenico Di Terlizzi, ha annullato il sequestro dei beni nei confronti dei Ricciardi, eseguito nell’ambito del blitz «Scarface», quando i finanzieri i sigilli al bar ubicato all’interno del padiglione Vinci.
Ma ecco uno stralcio del verbale di interrogatorio.
BABUSCIO: Io i contatti ce li avevo frequentemente da solo, andavo a Palazzo di città, mi incontravo alle 8 e mezzo di mattina, perché so l’orario quand’è che arriva, andavo sopra e gli esponevo qualche problema, tra i quali il problema che ci aveva il bar dell’ospedale, che io andavo e gli dicevo....e lui mi disse una volta...sono andato io e la Guarella.
BRUNO: Ma il sindaco sapeva che la Guarella era la moglie di Cataldo Ricciardi?
BABUSCIO: No, non lo sapeva. (...) Quei contatti che si sono stati più frequenti con il sindaco erano proprio per far passare questa società da Presicci, diciamo che si doveva fare questa cessione di azienda e c’era da mettere a posto...
BRUNO: Ma le risulta che in qualche modo sia stato agevolato dal sindaco questo trasferimento? Perché quella era una competenza dell’Asl più che del sindaco.
BABUSCIO: il sindaco dice: “Va bene, rivolgetevi a tizio e digli che ti ho mandato io”.
BRUNO: E a chi vi chiese di rivolgersi?
BABUSCIO: Questo non mi ricordo chi era, era un dirigente dell’Asl che era di Bari, che stava soltanto il mercoledì e il venerdì. E in un’occasione. . . .
BRUNO: Ma vi mandò proprio il sindaco da questo?
BABUSCIO: Sì, sì, andammo insieme al suo segretario, un certo Lino, non mi ricordo il cognome, che disse: “Ha detto il dottore: vedi un po’ sta situazione qua”, si prese questa pratica qua e poi, dottore, dopo andò a buon fine, insomma, ebbero quello che gli serviva per avere questa cessione, diciamo questo fitto di azienda che hanno fatto con il Presicci.
BRUNO: Ma il sindaco sapeva che c’era Cataldo Ricciardi dietro?
BABUSCIO: No, non lo sapeva, e lui lo faceva a me il favore, diciamo.
BRUNO: Quanti contatti ha avuto con il dirigente Asl?
BABUSCIO: Una volta sola e fu quello decisivo.
BRUNO: Una volta sola e c’era Lino presente, partecipò al colloquio?
BABUSCIO: Lino, partecipò al colloquio e disse che eravamo raccomandati dal sindaco.
MIMMO MAZZA
La mattina Mario Babuscio, aspirante collaboratore di giustizia, andava a Palazzo di Città per incontrare il sindaco Ezio Stefàno per proporgli progetti o chiedergli di risolvere problemi. È quanto emerge dalla lettura dei verbali, ora non più «omissati», degli interrogatori a cui il 53enne arrestato giusto un anno fa nell’ambito dell’operazione antimafia denominata «Scarface», è stato sottoposto dal sostituto procuratore Lino Giorgio Bruno. Il magistrato della Dda di Lecce ha chiesto al giudice per le indagini preliminari Antonia Martalò un incidente probatorio per acquisire le dichiarazioni di Babuscio. Il suo racconto ha portato nei giorni scorsi all’apertura di un fascicolo di inchiesta che vede coinvolte 12 persone.
L’Antimafia ipotizza il voto di scambio - con l’aggravante di aver agevolato l’attività di una associazione di stampo mafioso - per il consigliere regionale del Pdl Gianfranco Chiarelli, avvocato penalista di Martina Franca, primo degli eletti in provincia di Taranto nella consultazione di un anno fa con 13.335 preferenze. Ma, stando a quanto la Gazzetta è in grado di rivelare, Babuscio aveva frequentazioni politiche a 360 gradi.
Il rapporto con il sindaco Stefàno emerge, nell’interrogatorio del 19 novembre del 2010, quando il dottor Bruno chiede a Babuscio conto del suo interessamento, per conto del boss Cataldo Ricciardi, riguardo la gestione del bar dell’ospedale «Santissima Annunziata». Dall'attività d'indagine compiuta dagli agenti della Squadra Mobile, diretti dal primo dirigente Fabio Abis, è emerso che l'esercizio era formalmente gestito da una società tarantina partecipata da Francesco Presicci, arrestato come Babuscio nell’ambito del blitz «Scarface».
I sopralluoghi della polizia avevano consentito di accertare che nella gestione del bar si alternavano la convivente di Mario Babuscio, con Anna Guarella e le due donne, insieme allo stesso Babuscio, provvedevano ad intrattenere anche i rapporti con i fornitori. Ricciardi torna alla carica nel 2007 quando viene creata una società «Nuovo Bar padiglione Vinci srl», con unico socio Francesco Ricciardi, figlio di Cataldo, alla quale la società di Presicci ha poi ceduto in fitto il bar.
Due anni fa - il 15 ottobre 2009 – è stato stipulato tra l’Asl e la società di Ricciardi un contratto della durata di 9 anni mentre lo scorso 8 maggio la Cassazione, accogliendo il ricorso presentato dagli avvocati Gaetano Vitale e Domenico Di Terlizzi, ha annullato il sequestro dei beni nei confronti dei Ricciardi, eseguito nell’ambito del blitz «Scarface», quando i finanzieri i sigilli al bar ubicato all’interno del padiglione Vinci.
Ma ecco uno stralcio del verbale di interrogatorio.
BABUSCIO: Io i contatti ce li avevo frequentemente da solo, andavo a Palazzo di città, mi incontravo alle 8 e mezzo di mattina, perché so l’orario quand’è che arriva, andavo sopra e gli esponevo qualche problema, tra i quali il problema che ci aveva il bar dell’ospedale, che io andavo e gli dicevo....e lui mi disse una volta...sono andato io e la Guarella.
BRUNO: Ma il sindaco sapeva che la Guarella era la moglie di Cataldo Ricciardi?
BABUSCIO: No, non lo sapeva. (...) Quei contatti che si sono stati più frequenti con il sindaco erano proprio per far passare questa società da Presicci, diciamo che si doveva fare questa cessione di azienda e c’era da mettere a posto...
BRUNO: Ma le risulta che in qualche modo sia stato agevolato dal sindaco questo trasferimento? Perché quella era una competenza dell’Asl più che del sindaco.
BABUSCIO: il sindaco dice: “Va bene, rivolgetevi a tizio e digli che ti ho mandato io”.
BRUNO: E a chi vi chiese di rivolgersi?
BABUSCIO: Questo non mi ricordo chi era, era un dirigente dell’Asl che era di Bari, che stava soltanto il mercoledì e il venerdì. E in un’occasione. . . .
BRUNO: Ma vi mandò proprio il sindaco da questo?
BABUSCIO: Sì, sì, andammo insieme al suo segretario, un certo Lino, non mi ricordo il cognome, che disse: “Ha detto il dottore: vedi un po’ sta situazione qua”, si prese questa pratica qua e poi, dottore, dopo andò a buon fine, insomma, ebbero quello che gli serviva per avere questa cessione, diciamo questo fitto di azienda che hanno fatto con il Presicci.
BRUNO: Ma il sindaco sapeva che c’era Cataldo Ricciardi dietro?
BABUSCIO: No, non lo sapeva, e lui lo faceva a me il favore, diciamo.
BRUNO: Quanti contatti ha avuto con il dirigente Asl?
BABUSCIO: Una volta sola e fu quello decisivo.
BRUNO: Una volta sola e c’era Lino presente, partecipò al colloquio?
BABUSCIO: Lino, partecipò al colloquio e disse che eravamo raccomandati dal sindaco.
MIMMO MAZZA
'Ndrangheta, la lettera di Palaia alla moglie Giuseppina Pesce
Il contenuto della lettera inviata a Giuseppina Pesce dal marito Rocco Palaia il 16 settembre scorso. Per la Procura di Reggio contiene elementi “inquietanti”
Lettera che è arrivata nel carcere dove Giuseppina Pesce è detenuta il 20 settembre scorso ed è stata bloccata dal direttore che l’ha poi trasmessa alla Dda. Una pagina e mezza scritta in stampatello nella quale la Procura ravvede elementi tali da renderla «inquietante per il contenuto altamente minatorio nei confronti della moglie». Rocco Palaia, presunto affiliato alla cosca Pesce, scrive alla donna all’indomani della notizia del suo nuovo pentimento, contrariato dalla sua decisione: «Solo oggi ho ricevuto una tua del 21 luglio che mi avevi spedito a Palmi, ma nel frattempo sono partito per Bologna poi non so me l’hanno consegnata oggi. Io sono uscito dall’ospedale sabato 10 e lunedì mi hanno riportato a Sulmona e lunedì scendo per il processo. Ti puoi immaginare come sto operato fresco, non so se ti interessa ma credo che no. Come altro non so che dirti. Anzi pochi giorni fa ho saputo che stai facendo colloquio».
Palaia continua: «sono molto contento, ma mi domando da tanto tempo come mai tu ti sei anzi ci hai rovinato la vita a tutti, compresa la tua, solo per stare con i figli e non facevi colloqui. Avevo pensato di fare un annuncio sul giornale e quando ho capito ho bloccato tutto e niente so che ti trovi a Paliano. Ti vorrei chiedere un favore se ti era possibile. Lo so che i figli sono tutti uguali, era se ti dovrebbero dare la protezione cosa che non credo più, se mi potevi lasciare a ... (nome del figlio maschio, ndr) ... a bisogno di essere seguito a scuola e deve andare al doposcuola. Tu non sarai in grado di farlo».
La lettera continua con i riferimenti ai situazione familiare e Palaia scrive «ti prego di mettermi in cattiva luce con i tuoi. L’altro giorno in una lettera di tua madre gli dicevi che hai problemi con me, che voglio la separazione. Io questa parola non l’ho mai detta e pensata, io la testa ce lo sulle spalle e favoritisvi non ne ne faccio a nessuno. Io ho bisogno di mia moglie e dei miei figli. Niente altro e non credo di chiedere la luna».
In un altro passaggio Palaia invita la moglie, in caso di bisogno a rivolgersi a suo padre e aggiunge: «Di me non so se puoi tenere conto, non vorrei un giorno ritrovarmi in qualche problema che non c’entro e non è da pretendere credo e non pensare che questa parole non mi facciano male. Non c’è mattina che non mi alzo e la prima sei tu che mi viene in mente, ma purtroppo è andata così. E pensa che tu dovevi essere già fuori. Già da quando stavi a lecce, con la legge che è cambiata dei figli che da 3 l’anno portata a 6 anni, ma tu non hai voluto aspettare o non ti hanno fatto aspettare. Ora è andata oramai». L’ultimo passaggio è ritenuto particolarmente significativo: «Ma Dio c’è ed è pure grande. Ora ti lascio con un abbraccio e spero che Dio ti illumini».
Oltre che della lettera, il pm ha chiesto l’acquisizione la lettera di minacce scritta al sindaco di Rosarno, Elisabetta Tripodi, dal capo della cosca, Rocco Pesce, dal carcere di Opera nel quale è detenuto per scontare una condanna all’ergastolo. Le lettere di Palaia e quella di Rocco Pesce, secondo il pm, indicano che «è in atto una strategia minatoria neanche tanto occulta per sottoporre a pressione la collaboratrice di giustizia».
E' partita il 15 settembre scorso dal carcere di Sulmona la missiva che Rocco Palaia ha inviato alla moglie Giuseppina Pesce, e che il pm Alessandra Cerreti ha depositato agli atti del processo “All Inside” definedola «inquietante».
Lettera che è arrivata nel carcere dove Giuseppina Pesce è detenuta il 20 settembre scorso ed è stata bloccata dal direttore che l’ha poi trasmessa alla Dda. Una pagina e mezza scritta in stampatello nella quale la Procura ravvede elementi tali da renderla «inquietante per il contenuto altamente minatorio nei confronti della moglie». Rocco Palaia, presunto affiliato alla cosca Pesce, scrive alla donna all’indomani della notizia del suo nuovo pentimento, contrariato dalla sua decisione: «Solo oggi ho ricevuto una tua del 21 luglio che mi avevi spedito a Palmi, ma nel frattempo sono partito per Bologna poi non so me l’hanno consegnata oggi. Io sono uscito dall’ospedale sabato 10 e lunedì mi hanno riportato a Sulmona e lunedì scendo per il processo. Ti puoi immaginare come sto operato fresco, non so se ti interessa ma credo che no. Come altro non so che dirti. Anzi pochi giorni fa ho saputo che stai facendo colloquio».
Palaia continua: «sono molto contento, ma mi domando da tanto tempo come mai tu ti sei anzi ci hai rovinato la vita a tutti, compresa la tua, solo per stare con i figli e non facevi colloqui. Avevo pensato di fare un annuncio sul giornale e quando ho capito ho bloccato tutto e niente so che ti trovi a Paliano. Ti vorrei chiedere un favore se ti era possibile. Lo so che i figli sono tutti uguali, era se ti dovrebbero dare la protezione cosa che non credo più, se mi potevi lasciare a ... (nome del figlio maschio, ndr) ... a bisogno di essere seguito a scuola e deve andare al doposcuola. Tu non sarai in grado di farlo».
La lettera continua con i riferimenti ai situazione familiare e Palaia scrive «ti prego di mettermi in cattiva luce con i tuoi. L’altro giorno in una lettera di tua madre gli dicevi che hai problemi con me, che voglio la separazione. Io questa parola non l’ho mai detta e pensata, io la testa ce lo sulle spalle e favoritisvi non ne ne faccio a nessuno. Io ho bisogno di mia moglie e dei miei figli. Niente altro e non credo di chiedere la luna».
In un altro passaggio Palaia invita la moglie, in caso di bisogno a rivolgersi a suo padre e aggiunge: «Di me non so se puoi tenere conto, non vorrei un giorno ritrovarmi in qualche problema che non c’entro e non è da pretendere credo e non pensare che questa parole non mi facciano male. Non c’è mattina che non mi alzo e la prima sei tu che mi viene in mente, ma purtroppo è andata così. E pensa che tu dovevi essere già fuori. Già da quando stavi a lecce, con la legge che è cambiata dei figli che da 3 l’anno portata a 6 anni, ma tu non hai voluto aspettare o non ti hanno fatto aspettare. Ora è andata oramai». L’ultimo passaggio è ritenuto particolarmente significativo: «Ma Dio c’è ed è pure grande. Ora ti lascio con un abbraccio e spero che Dio ti illumini».
Oltre che della lettera, il pm ha chiesto l’acquisizione la lettera di minacce scritta al sindaco di Rosarno, Elisabetta Tripodi, dal capo della cosca, Rocco Pesce, dal carcere di Opera nel quale è detenuto per scontare una condanna all’ergastolo. Le lettere di Palaia e quella di Rocco Pesce, secondo il pm, indicano che «è in atto una strategia minatoria neanche tanto occulta per sottoporre a pressione la collaboratrice di giustizia».
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