giovedì 11 luglio 2013

Scelse il suicidio assistito in Svizzera dopo aver scoperto di avere il cancro


 Ma l'autopsia ora rivela: non era malato

Pietro D'Amico, magistrato calabrese di 62 anni, ad aprile aveva scelto l'eutanasia: i medici gli avevano diagnosticato un male incurabile
 

ROMA - L'autopsia chiesta alla magistratura svizzera dalla figlia e dalla vedova dell'ex magistrato calabrese Pietro D'Amico, di 62 anni, di Vibo valentia, morto con il suicidio assistito in una clinica svizzera, «nonchè i sofisticati e approfonditi esami di laboratorio dei reperti prelevati dal corpo, hanno escluso perentoriamente l'esistenza di quella grave e incurabile patologia dichiarata da alcuni medici italiani e asseverata da alcuni medici svizzeri». Lo rende noto l'avvocato Michele Roccisano, amico di D'Amico, e legale della vedova.

«D'Amico - è scritto in una nota - non era affetto da quella grave patologia che lo aveva convinto a chiedere il suicidio assistito. Un errore scientifico che ha portato a conseguenze fatali, poiché D'Amico, già depresso e convinto di essere gravemente malato, ebbe, purtroppo, quella terribile conferma che lo spinse a richiedere il suicidio assistito a Basilea. Furono proprio quelle errate diagnosi a convincere alcuni medici svizzeri, soprattutto Erika Preisig, dell' Associazione Eternal Spirit lifecircle, ad assisterlo in quel suicidio. Sarà la magistratura italiana a stabilire se i sanitari italiani, autori dell'infausta diagnosi, siano responsabili per errore medico, e se l'errore fu dovuto a negligenza, imperizia, imprudenza, tenuto anche conto del fatto che per poter accertare l'esistenza di quella patologia, avrebbero dovuto sottoporre il paziente ad esami strumentali specifici cui D'Amico non fu mai sottoposto.

La stessa magistratura dovrà accertare il nesso di causalità fra l'errata diagnosi e il triste evento. Tanto più che in precedenti tentativi, non ancora provvisto di quelle errate certificazioni, D'Amico non aveva ottenuto dai medici svizzeri il suicidio assistito. Ma anche l'indagine in corso in Svizzera stabilirà se sia stata violata anche la meno severa legislazione svizzera che, comunque, impone ai medici che assistono il paziente al suicidio di accertarsi che sia affetto da una patologia terminale, non potendo gli stessi accogliere acriticamente i referti presentati dal paziente e/o i sintomi descritti dal paziente che, spesso, specie se depresso, tende a somatizzare disturbi a volte dovuti a malanni molto più benigni.

La legge svizzera prescrive anche che la diagnosi sia fatta da almeno due medici svizzeri diversi da quello che poi assiste il paziente al suicidio, mentre, nel caso, ciò sembra non essere avvenuto poiché uno dei medici che ha confermato la malattia era la stessa Erika Presig, ovvero la 'dottoressa Morte». «Oggi, questa sconvolgente verità - ha sostenuto Roccisano - rende, se possibile, ancora più dolorosa la morte di quel grande intellettuale e grande magistrato».

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