Giuseppe, figlio del pentito di mafia Santino, fu strangolato e sciolto nell'acido l'11 gennaio 1996 dopo quasi due anni di prigionia
PALERMO. Nessuno sconto in appello per il latitante trapanese Matteo Messina Denaro e il capomafia di Brancaccio, Giuseppe Graviano. La Corte d'assise d'appello di Palermo ha confermato gli ergastoli inflitti in primo grado ai due boss per l'atroce omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, rapito, strangolato e sciolto nell'acido l'11 gennaio 1996, dopo 779 giorni di prigionia.
In questo processo, che è il quarto celebrato per la morte del figlio del pentito Santino, è stata inflitta la massima pena anche a Luigi Giacalone, Francesco Giuliano e Salvatore Benigno, gli uomini del commando che ne curarono le fasi organizzative. A inchiodarli il collaboratore Gaspare Spatuzza, condannato a 12 anni, a cui è stata applicata l'attenuante speciale per i pentiti, mentre in primo grado aveva avuto quella generica.
Spatuzza oltre ad autoaccusarsi del delitto, ha puntato il dito contro gli ex amici raccontando cosa accadde il 23 novembre 1993, quando un commando di uomini d'onore travestiti da poliziotti, su ordine di Graviano, andò a prelevare il bambino che si allenava in un maneggio ad Altofonte. Fino alle dichiarazioni del collaboratore, i suoi cinque coimputati erano rimasti fuori da un'indagine che, nel tempo, ha portato a 42 condanne. Di quelle ore Spatuzza ricorda tutto: dalle urla di gioia del piccolo Giuseppe che credeva che i falsi agenti lo stessero portando dal padre, da mesi nascosto in una località protetta, al terrore da cui fu preso quando, legato e lasciato solo in un furgoncino, capì che il padre non l'avrebbe mai rivisto.
"All'inizio urlava: 'papà' mio, amore mio", ha raccontato Spatuzza durante il processo di primo grado. "Poi l'abbiamo legato come un animale e l'abbiamo lasciato nel cassone - ha spiegato - Lui piangeva, siamo tornati indietro perché ci è uscita fuori quel poco di umanità che ancora avevamo".
Il bambino era terrorizzato. "Ci chiamò dicendo che doveva andare in bagno - ricorda Spatuzza - ma non era vero. Aveva solo paura. Allora tornammo indietro per rassicurarlo e gli dicemmo che ci saremmo rivisti all'indomani, invece non lo rivedemmo mai più". Solo dopo anni Spatuzza saprà da Giovanni Brusca, tra gli ideatori del rapimento che avrebbe dovuto convincere Santino Di Matteo a interrompere la collaborazione con la giustizia, che il bambino era ancora vivo. "Abbiamo ancora la carta", gli dice Brusca. Ma gestire la prigionia del piccolo Giuseppe, spostato in lungo e in largo tra Palermo, Trapani, Agrigento e Caltanissetta, non era facile: per questo a un certo punto, capito che il padre non avrebbe mai ritrattato, i boss decisero di assassinarlo.
Indebolito dalla lunghissima prigionia Giuseppe morì subito: gli strinsero una corda attorno al collo, poi ne sciolsero il corpo nell'acido. Proprio sulle dichiarazioni di Brusca, i legali del boss Giuseppe Graviano, Giuseppina Potenzano e Giuseppe Giacobbe, hanno polemizzato con la corte durante l'appello. Nella scorsa udienza, infatti, avevano rinunciato al mandato difensivo per protestare contro il rigetto della richiesta di acquisizione di un verbale di interrogatorio di Brusca che, secondo gli avvocati, poteva scagionare il capomafia di Brancaccio.
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