Raggiunto dalla notizia che la Guardia di Finanza avrebbe messo le mani su un pezzo del suo tesoro in Svizzera, su un conto da 12 milioni di euro, Massimo Ciancimino, un po’ sbruffone, contrattacca contro «il tentativo da parte di qualche Procura o della Finanza di condizionare le mie dichiarazioni ai magistrati sulla “trattativa”», dice che «se così è, qualcuno ha fatto male i conti », scocciato «da questa saga della caccia al tesoro», pronto a donare qualsiasi cifra «ai terremotati dell’Emilia o ai familiari di vittime della mafia». A parte il fatto che sono partite le rogatorie internazionali per sbloccare conti e cassette di sicurezza e che, in caso di sequestro, Ciancimino junior non potrà disporre di quanto trovato, non bastano certo le battute del rampollo dell’ex sindaco mafioso di Palermo ad annullare il peso che la nuova inchiesta assume nella ricerca del «tesoro di don Vito».
Una montagna di soldi che va ben oltre il patrimonio da 60 milioni di euro già sequestrato. Interessi che portano anche in Romania, ultimo approdo del discusso testimone sulla cosiddetta trattativa fra Stato e mafia per la fine delle stragi in cambio di un alleggerimento del «41 bis». Appunto, la trattativa costata forse la vita a Paolo Borsellino. La fuga di notizie che ha irritato il titolare dell’inchiesta, il procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, fa comunque scattare una immediata polemica politica alimentata da ambienti di centrodestra. Primo fra tutti Fabrizio Cicchitto, il capogruppo Pdl alla Camera, lanciatosi proprio contro Ingroia, il magistrato che in un libro indicò Ciancimino come «icona antimafia» ma che, dopo un ping pong con la Procura di Caltanissetta, decise di farlo arrestare trovando nella sua abitazione 50 candelotti di dinamite.
Fulminante Cicchitto: «Che la vera partita di Ciancimino jr fosse quella di salvare parte del patrimonio familiare che stava all’estero lo sapevano tutti. Tranne Ingroia, che ha cercato di servirsi di questa icona dell’antimafia semplicemente per fare politica e per aumentare a dismisura la sua visibilità mediatica ». Secca e tagliente la reazione di Ingroia, ieri sera appena sbarcato in aeroporto dopo un viaggio di lavoro: «Cicchitto non sa di che cosa parla. Ciancimino lo abbiamo arrestato noi, come abbiamo fatto con il suo principale complice, Gianni Lapis, avviando una indagine sul denaro di cui dispone e di cui purtroppo si sta parlando per via di una gravissima e malaugurata fuga di notizie che rischia di dare vantaggio anche ad altri prestanome che ci sono a Palermo e altrove… ». Il procuratore al centro di tante polemiche per interviste e interventi giudicati di taglio politico non è affatto pentito di quella definizione su Ciancimino icona dell’antimafia: «Perché non l’ho mai coniata. Dissi che ritenevo un paradosso per l’Italia vedere diventare una “icona” il figlio di don Vito Ciancimino, esponente dei “Corleonesi”. Esattamente il contrario. Con una valutazione non certo positiva». Resta il dubbio che il ruolo di testimone in importanti processi di mafia abbia finito per convincere una parte del variegato pianeta antimafia a ritenere che si potesse perfino presentare un libro con Ciancimino junior, presentarsi con lui all’università o sul palco di un partito. «Io non l’ho mai fatto — precisa Ingroia —.
Pur avendolo sempre considerato una fonte utile, tuttora utile,ma con la doverosa cautela assunta agli inizi, la stessa di oggi». Circospezione obbligatoria, soprattutto quando si parla del «tesoro» e del nuovo filone di indagine nel quale manca un altro protagonista, l’avvocato Giorgio Ghiron, morto nel suo letto il 17 giugno, anello di congiunzione di tutti i grandi affari milionari della famiglia, come si capì con le intercettazioni che portarono ad altri tre conti esteri in Olanda, presso la Abn Amro di Amsterdam, la vecchia cassaforte creata da «don Vito» per arraffare nel «sacco» di Palermo e depositare al sicuro.
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