Tiene l'accusa alle cosche crotonesi. 20 anni a boss
I giudici della Corte d’assise d’appello di Catanzaro hanno modificato la sentenza di primo grado nei confronti di 48 imputati, ritenuti affiliati alle cosche della 'ndrangheta del crotonese, condannandoli a pene variabili dai 2 anni e 4 mesi ai venti anni di reclusione
CATANZARO - I giudici della Corte d’assise d’appello di Catanzaro hanno modificato la sentenza di primo grado nei confronti di 48 imputati, ritenuti affiliati alle cosche della 'ndrangheta del crotonese, condannandoli a pene variabili dai 2 anni e 4 mesi ai venti anni di reclusione. I giudici hanno poi confermato la sentenza per i restanti imputati. La seconda sentenza d’appello nei confronti dei 92 imputati nel processo scaturito dalle inchieste Heracles e Perseus è giunta in serata dopo oltre dieci ore di camera di consiglio.
La condanna maggiore, a venti anni di reclusione, è stata inflitta a Pantaleone Russelli, che nel precedente secondo grado era stato condannato a 14 anni e sei mesi, mentre in primo grado aveva avuto una condanna a 18 anni. Il nuovo processo d’appello si è svolto dopo che la Corte di Cassazione, nel febbraio del 2012, aveva annullato la prima sentenza di secondo grado emessa nell’aprile del 2011. In primo grado il processo alle cosche crotonesi si era concluso con la condanna di 57 imputati a pene variabili dai 2 anni e 4 mesi ai 19 anni e 8 mesi, e 35 assoluzioni. Nel corso del processo di primo grado furono ricostruite le attività illecite delle cosche Vrenna-Corigliano-Bonaventura e Macrì e quella dei Megna e Russelli di Papanice, una frazione di Crotone. Una parte del processo fu dedicata anche alle presunte infiltrazioni delle cosche nel mondo della politica ed all’interesse della criminalità organizzata nella costruzione del mega-villaggio turistico 'Europaradisò che non fu realizzato dopo il parere negativo da parte della Regione Calabria.
L'ANNULLAMENTO. La Corte di Cassazione ha deciso, il 4 febbraio del 2012, che il processo Herakles andava rifatto davanti a una diversa Sezione della Corte d'Assise d'Appello di Catanzaro. Il pg chiedeva che venisse dichiarato ammissibile il ricorso del pm Antimafia Pierpaolo Bruni, che entrassero nel processo le dichiarazioni del pentito Pino Vrenna, escluse dai giudici di secondo grado, che le maxiriduzioni di pena dopo la rinuncia a motivi difensivi fossero ritenute non congrue. A formulare le richieste davanti alla Suprema Corte era stato il consigliere Piercamillo Davigo. La Suprema Corte ha deciso, dunque, che il processo era da rifare. In primo grado, nel marzo 2010, davanti al gup distrettuale, si definì con condanne per 528 anni di reclusione nei confronti di 63 presunti affiliati alle cosche. In Appello, nell'aprile scorso, a maxiriduzioni di pena, concesse tra le polemiche, seguirono scarcerazioni a raffica. Alle 30 assoluzioni disposte col rito abbreviato bisognava, infatti, aggiungere quelle, per non aver commesso il fatto, di Annibale Barilari, Giuseppe Barilari, Margherita Cau, Andrea Gullo e Francesco Gumari. Assoluzioni parziali, invece, furono disposte per Francesco Cardamone e Fortunato Giungato. In Appello, in particolare, non aveva retto, così come in primo grado nel troncone del processo svoltosi col rito alternativo, la tesi della collusione dei clan con i colletti bianchi. E alle 30 assoluzioni, confermate, del primo grado se ne aggiunsero altre cinque, più un proscioglimento per precedente giudicato. Mentre gran parte dei condannati ebbe sconti di pena, e in alcuni casi addirittura le sanzioni inflitte nel marzo 2010 dal gup distrettuale di Catanzaro furono dimezzate.
La Corte d'Assise d'Appello di Catanzaro presieduta da Francesco Rosario Barone non accolse, infatti, le richieste del sostituto procuratore generale Raffaela Sforza che si era sostanzialmente rifatta alla tesi del pm Pierpaolo Bruni sostenendo che non dovessero essere condannati soltanto i mafiosi ma anche i colletti bianchi accusati di collusione con i clan. Lo fece dopo aver chiesto la riapertura dell'istruttoria dibattimentale con la produzione degli interrogatori dell'ex boss di Crotone, il capo della cosca aggredita dalla Dda, imputato nel processo definitosi nel giugno scorso col rito ordinario; una richiesta respinta dalla Corte. In primo grado, nel marzo 2010, i colletti bianchi furono assolti e pene per 528 anni di reclusione furono inflitte a presunti boss e affiliati alle cosche. Si concluse con 63 condanne, un dato eclatante nella storia della lotta alla criminalità organizzata del Crotonese, il maxiprocesso ma il troncone del rito abbreviato vide cadere le accuse ruotanti attorno al progetto per il megavillaggio turistico Europaradiso e all'assalto dei clan ai palazzi del potere. Reggevano anche in Appello, però, molte imputazioni connesse a vicende di mafia, estorsione, droga. L'impianto dell'inchiesta condotta da Bruni, che coordinò l'indagine della Squadra Mobile della Questura, sostanzialmente è stato riproposto dal rappresentante della pubblica accusa sia in Appello che in Cassazione. Parte civile si erano costituiti, tra gli altri, la Regione Calabria, che in primo grado ottenne un risarcimento di 80.000 euro, l'ex parlamentare Marilina Intrieri, che denunciò condizionamenti mafiosi sul progetto per la costruzione di Europaradiso, la moglie di un ispettore di polizia che nell'aprile 2006 ebbe distrutto un negozio, i parenti della vittima di un omicidio, Dino Covelli.
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