martedì 8 novembre 2011

Politici e agenti alla corte del boss «Volevano favori»

ALTAMURA - Dietro il paravento, chiesto prima dell’inizio della deposizione, si scorgono solo le mani che continuano a contorcersi quando parla del suo Bartolo. «Tutti lo cercavano. Faceva quello che lo Stato non fa», ha detto Valeryia Hiblova, 35 anni, vedova del defunto boss di Altamura, Bartolo Dambrosio, ucciso il 6 settembre 2010, crivellato di colpi nelle campagne della cittadina murgiana mentre faceva jogging.

Nel corso del processo iniziato ieri davanti alla corte d’Assise di Bari (presidente Clelia Galantino) per quel delitto, la donna, ha aggiunto: «Lo chiamavo Robin Hood», spiegando che ci si rivolgeva a lui per risolvere qualsiasi tipo di problema. Dal finanziere che bussava alla sua porta, anzichè alla caserma dei carabinieri per cercare di recuperare l’auto appena rubata, «ai politici e agli imprenditori, ai carabinieri che Bartolo conosceva». Valeryia, parte civile nel processo, oltre ai rapporti che legavano Bartolo a Biagio Genchi (a sua volta vittima di lupara bianca) e ai Loiudice, questi ultimi prima amici e poi nemici, ha fatto, dunque, anche un accenno, nel corso del dibattimento, a rapporti con politica, imprenditoria, forze dell’ordine.

Ma su questo tema il pm antimafia Desirè Digeronimo si è opposta ad alcune domande rivolte alle teste in sede di controesame perché inerenti a fatti coperti da segreto istruttorio. Valeryia, rappresentata dall’avvocato Fabrizio Caniglia, è una testimone di giustizia. Agli inquirenti, dunque, ha raccontato tutto ciò che sa su Altamura. Quanto al processo per l’omicido di suo marito, ha risposto per circa tre ore alle domande della pubblica accusa e a quelle degli avvocati Massimo Chiusolo e Francesco Moramarco, difensori dei due imputati, Giovanni e Alberto Loiudice. La tesi della donna: «non sapevo delle attività illecite di mio marito» non ha convinto appieno proprio quando ha riposto alle domande dei difensori.

Stando alle indagini dell’Antimafia, a volere la morte di Dambrosio sarebbe stato il boss Giovanni Loiudice, che avrebbe armato le mani dei suoi due figli, Michele e Alberto, e dei tre loro amici, Francesco Palmieri, Francesco Maino e Rocco Ciccimarra, tutti poco più che 20enni. Il processo per il delitto in Assise è iniziato a carico di Giovanni e Alberto Loiudice, mentre gli altri quattro imputati hanno scelto di essere giudicati con rito abbreviato. L’accusa è di associazione mafiosa e omicidio volontario premeditato. Una spedizione punitiva, quella che ha ucciso Dambrosio, maturata all’interno della guerra di mala fra i due clan rivali che, nel corso degli anni, si sarebbero contesi il controllo delle attività illecite di Altamura e della Murgia. Bartolo Dambrosio e Giovanni Loiudice, inizialmente alleati, erano gradualmente diventati rivali, fino a quando il grande potere raggiunto dal boss ucciso avrebbe «costretto» l’altro a lasciare Altamura. Nel 2003 Giovanni Loiudice si rifugiò in Sud America, ordinando, secondo l’accusa, dopo anni, ai suoi due figli e ad altri giovani del clan, l’omicidio di Dambrosio. «Si odiavano», ha ripetuto più volte la moglie del defunto boss, ora in una località segreta sottoposta a programma di protezione. All’udienza di ieri sono stati sentiti anche il professor Francesco Vinci, il medico legale esperto balistico che eseguì l’autopsia, l’ufficiale dei carabinieri Michele Cataneo che condusse sul campo le indagini e due testi dell’accusa.

Ma la deposizione più drammatica è stata quella di Valeryia. «Un uomo temuto più che stimato» ha detto la vedova a proposito di Bartolo. «Conosceva persone di un certo livello – ha aggiunto – e spesso metteva in contatto imprenditori e politici. Venivano a trovarlo tutti. Lo volevano ovunque, in qualunque tipo di mediazione, perché sapeva mettere sempre la parola giusta». Non ha tralasciato, Valeryia Hiblova, i rapporti con Dante Columella, il re dei rifiuti della Murgia, coinvolto in alcune inchieste sulla gestione della sanità pugliese. Ha riferito che suo marito incontrava spesso l’imprenditore.

Ma è quando parla del Bartolo uomo, suo marito, che Valerya si commuove e scoppia in lacrime, portandosi le mani al volto. «Non si perdeva un bagnetto di nostra figlia, leggeva libri a nostro figlio più grande per farlo addormentare. Come padre era sempre presente, un genitore esemplare. Mio marito adesso sta bene, i problemi per lui sono finiti, ma loro, chi lo ha ucciso, mi hanno distrutto la vita. Mio figlio, ad otto anni, mi parla di morte e mi chiede: “mamma, quando torna papà?”. Io non so cosa rispondergli. Non è giusto dovere crescere così».

Giovanni Longo

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