mercoledì 5 marzo 2014

Sicilia, la contesa davanti ai giudici a 40 anni dal testamento

“Il paese è nostro, ora pagateci”
I principi contro il Comune



laura anello
PALERMO
Su un fronte ci sono due rampolli di antica nobiltà siciliana, Biagio e Francesco Licata di Baucina. Sull’altro il piccolo disastrato Comune a venti chilometri da Caltanissetta che faceva parte della vasta ducea dei loro antenati: Serradifalco, oggi seimila anime preoccupate dall’allarme rifiuti tossici che aleggia intorno alla sua miniera di sale abbandonata.

Ebbene, gli eredi degli antichi Signori, quarant’anni dopo l’apertura del testamento del padre, il principe Antonio Licata di Baucina, sostengono che gran parte del paese sia di loro proprietà. E pazienza se il Comune nell’ultimo mezzo secolo ci abbia costruito parcheggi, piazze, teatri, quartieri. «Il diritto di proprietà è imprescrittibile, non si perde se non si usa», scandisce l’avvocato Maria Cecilia Peritore, che ha citato in giudizio l’amministrazione pubblica. La causa si apre oggi, al tribunale di Caltanissetta, davanti al giudice Maria Luisa Insinga, che dovrà immergersi tra atti notarili, scartoffie ingiallite, complessi diritti dinastici.

L’incipit dell’atto di citazione fa capire che la matassa è difficile da dipanare: «Gli immobili appartenevano a don Domenico Lo Faso e Ventimiglia, duca di Serradifalco. Questi lasciò tutti i suoi beni all’unica figlia Giulietta Lo Faso e Ventimiglia, duchessa di Serradifalco, la quale istituì erede la nipote Giulia Fardella di Moxharta giusta testamento olografo del 7.4.1886 pubblicato dal notaio Filippo Lionti Scagliosi di Palermo il 14.2.1888…». E così via, tra duchi, principi, usufrutti, eredità, testamenti. Fino ad arrivare ai due attuali proprietari, ben lontani dal prototipo di aristocratici arroccati nel castello. Uno, Francesco Licata di Baucina, è stato manager del più grande ospedale dell’Isola, il Civico di Palermo, ed è attualmente direttore generale dell’Arpa Sicilia, l’azienda regionale impegnata anche sul rischio miniere di cui Serradifalco è un epicentro, con il suo triste primato di morti legate a probabili scorie.

La questione centrale sta in un termine giuridico, «enfiteusi»: un diritto di godimento su una proprietà altrui. Un retaggio dell’epoca feudale, molto utilizzato in Italia tra Medioevo e Settecento, quando duchi, baroni e marchesi cedevano - a fronte del pagamento di un canone - brandelli dei propri latifondi perché venissero coltivati. Concessioni così lunghe e proprietà talmente infinite che spesso l’enfiteuta finiva per disporne come se fossero sue. Tanto che il Comune di Serradifalco, all’atto di espropriare i terreni nell’arco degli ultimi cinquant’anni, avrebbe notificato gli atti agli enfiteuti e non già ai legittimi proprietari, cioè ai Licata di Baucina. Che ora chiedono un risarcimento danni che ammonta a svariati milioni di euro. «Non si capisce - sostiene l’avvocato del Comune di Serradifalco, Antonio Campione - come si siano svegliati quarant’anni dopo l’apertura del testamento. Una rivendicazione assolutamente tardiva».

Nel mirino ci sono trentacinque enormi proprietà del Comune, il 20 per cento dell’estensione del paese. Alle quali vanno aggiunte quelle contese a decine e decine di privati, ai quali gli eredi dei Gattopardi pure battono cassa, contestando il mancato versamento del canone o la trasformazione irreversibile delle proprietà: «Pagate o restituiteci i nostri beni», dicono. Così non c’è da stupirsi se a Serradifalco - dove i revisori dei conti sono in dubbio se notificare il pre-dissesto o conclamare il default - nessuno dorma sonni tranquilli. Se il giudice dovesse dare ragione ai Licata di Baucina, decine di nobili di mezza Italia potrebbero decidere di rivendicare ducee e principati. Tirando fuori, magari, anche carrozze e servitù. 

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