venerdì 14 marzo 2014

La beffa dei beni confiscati alla mafia: "Trenta miliardi impossibili da usare"





ROMA - È difficile quantificare a quanto ammonta il patrimonio sequestrato a Cosa nostra e gestito dall'Agenzia per i beni sequestrati e confiscati alla mafia. Secondo il direttore uscente, Giuseppe Caruso, tra beni mobili, immobili e aziende, il valore nominale si aggira intorno a una manovra finanziaria, circa 30 miliardi. Il 10%, tre miliardi, sono in contanti, denaro liquido e titoli: una montagna di soldi che nessuno usa. Così tanto, possibile? "Basti pensare", ha detto Caruso alla Commissione parlamentare Antimafia "che un'azienda del gruppo Aiello, l'ingegnere che teneva la cassaforte di Bernardo Provenzano, è valutata da sola 800 milioni di euro". Si tratta, però, di una ricchezza sprecata. Per Caruso, "la situazione dell'Agenzia è grave, senza una dotazione di strumenti e di risorse adeguate, continueremo a essere penalizzati nella destinazione proficua di questo immenso patrimonio". In organico ci sono appena 30 dipendenti. Troppo pochi perfino per fare funzionare il sito, i cui dati statistici risalgono, addirittura, al 7 gennaio del 2013. Da un anno, non viene fatto l'aggiornamento.
 

DIA, SPRECHI E TAGLI SPUNTANO LE ARMI ALL'ANTIMAFIA

Ma che qualcosa non funzioni emerge dalla lettura degli stessi dati statistici, seppur non aggiornati. I beni sequestrati e confiscati, un anno e due mesi fa, erano 11238, e le aziende 1708. Ma tanti di quei beni restano in carico all'Agenzia, e non vengono assegnati ai Comuni, e dunque alla società civile. A Torino, città di don Ciotti di Libera, ad esempio, ci sono tredici beni che non sono stati consegnati al sindaco Piero Fassino. Ventuno a Roma, città del procuratore antimafia Pignatone. Centottanta quattro a Palermo, cuore di cosa nostra. Duecentocinquanta quattro a Catania, città di Giuseppe Pippo Fava, il giornalista che negli anni Ottanta denunciò le collusioni tra mafia, banche e politica, facendo coraggiosamente nomi e cognomi. E per questo fu ucciso.

Cento trentatré a Reggio Calabria, la città dove fu sciolto il consiglio comunale per infiltrazioni mafiose. Dodici a Catanzaro, altrettanti a Milano dove la 'ndrangheta calabrese aveva di recente addirittura una banca occulta per riciclare i soldi sporchi. Novanta a Napoli, e diciannove a Bari, città amministrate da ex magistrati. Trentaquattro a Brindisi, dove cova la Sacra corona unita. "Dei trenta dipendenti previsti - svela Caruso - ho solo una persona". Gli altri, aggiunge, "se ne sono andati via, e sono poi tornati in comando o in distacco, perché venire in pianta organica all'Agenzia non è conveniente, soprattutto sotto il profilo economico".

Ma le criticità sono anche altre, e ben più gravi. "I beni immobili singolarmente confiscati presentano criticità tra l'82 e l'85 per cento dei casi". Si tratta di ipoteche accese con banche, di confische di quote di immobili, difficili da gestire, di concomitanza di procedure fallimentari che rendono impossibile la consegna ai Comuni. Ci sono immobili non accatastati perché abusivi, occupati dai familiari dei mafiosi. Oppure occupati dallo stesso mafioso messo là, incredibilmente, agli arresti domiciliari dagli stessi magistrati. Un esempio per tutti. "A Palermo - ha raccontato Caruso - una società immobiliare è stata confiscata 14 anni fa, quando valeva 500mila euro. Questo patrimonio è stato tenuto lì ed è servito fino ad adesso solo ad alimentare le tasche degli amministratori giudiziari". Non migliora la situazione quando il sequestro riguarda le aziende. "L'ultimo caso è quello di Grigoli, braccio destro di Matteo Messina Denaro, una catena di supermercati Despar, 43 punti vendita che han fatto lavorare 198 persone, con l'indotto complessivamente 500". "Quando è passato sotto l'amministrazione dell'Agenzia - ha raccontato Caruso - il 17 novembre 2013, l'amministratore giudiziario mi ha detto che bisognava chiudere tutto perché c'era uno scoperto di 6 milioni di euro. Che io ero il responsabile. Che gli dicessi cosa fare".

Discorso analogo riguarda il Fug, il Fondo Unico della Giustizia che amministra la montagna di soldi sequestrata e confiscata alla mafia. A novembre 2013 - secondo l'allora viceministro dell'Economia e delle Finanze Luigi Casero - l'ammontare del Fug era di 3 miliardi di euro, tra denaro contante e titoli. Tutti soldi confiscati alla criminalità grazie al lavoro delle forze dell'ordine e della magistratura che dovrebbero essere ripartiti e divisi a metà proprio tra i ministeri dell'Interno e della Giustizia. Sicurezza e giustizia, però, finora hanno ricevuto poco più di 63 milioni. Una cifra irrisoria, di fronte alle enormi carenze delle risorse necessarie a garantire la sicurezza dei cittadini e la legalità nel Paese.

La Dia, con i sequestri e le confische operate fino a oggi, ha prodotto il 35 per cento della quota Fug spettante al ministero dell'Interno. Parte di questa ingente somma potrebbe essere destinata al funzionamento di questa struttura antimafia che così potrebbe autofinanziarsi ottenendo un duplice effetto: garantire un notevole risparmio in termini economici. E migliorare l'efficienza e l'operatività della struttura.

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