Tre anni non hanno guarito le ferite: i luoghi conservano
la memoria. Il centro storico tra la movida e la devastazione
L’AQUILA - È il giorno della memoria. Per gli altri, per il mondo, per chi si ricorda dell’Aquila nell’anniversario del terremoto che l’ha distrutta e ha unito le anime in una solidarietà e in un’attenzione a tempo.
Per tutti quelli che accorrono al capezzale di una città per ricordarne gli antichi fasti e la decadenza post sisma e per riaccendere i riflettori e raccontarne le storie strappalacrime e poi spegnere tutto per i 364 giorni che mancano alla nuova edizione dello show del dramma in onda sulle frequenze di un Paese che assiste indolente alla Fine. Per tutti quelli che dovrebbero parlare e fare tutti i giorni e invece tacciono e non fanno nulla per un anno ancora. Per quelli che arrivano, dicono: «Non immaginavo che la situazione fosse questa» e passano. Per qualsiasi aquilano, invece, è un giorno di dolore come tutti gli altri che l’hanno preceduto perché nessun aquilano ha dimenticato. Nessun aquilano può dimenticare. Neanche chi, almeno per un giorno, avrebbe voluto non ricordare. È l’unico giorno, però, in cui vorrebbe rimanere da solo.
I luoghi della Memoria sono intatti nella loro devastazione e ogni giorno dell’anno, anche di questo terzo anno, sono stati l’onnipresente e indimenticabile Via Crucis, scrigno mai chiuso di storie drammatiche personali e collettive mai superate, in qualche caso «Monumento colpevole» della mano dell’uomo. «Nel Paese della Memoria il tempo è sempre Ora» scrive l’autore statunitense Stephen King. E L’Aquila ha continuato, anche in questo terzo anno, a vivere nel passato e nel ricordo struggente, mai superando l’impasse della mancata ricostruzione della vita umana, sociale e urbanistica. Per colpe proprie (poche) e altrui (tante). Se tre anni sembran pochi... Sono stati 1.096 giorni di Passione. Tre anni che non hanno guarito le ferite. Il tempo cura tutte le ferite, ma certe lasciano una cicatrice nel cuore che non guarirà mai. Gli aquilani, dopo tre anni, sono ancora impegnati a curarsi le ferite, morali e materiali, determinate da quel mezzo minuto scarso di incredibile violenza sismica. Non ci sono soltanto le 309 vittime, e comunque già basterebbero, a tenere aperte e sanguinanti le ferite, c’è una città che continua a non esserci. «La città che non c’è» è un dolore senza un colpevole certo, ma certezza di un oggi senza domani.
L’emergenza è finita, molti sfollati hanno trovato abitazioni antisismiche, altri ancora sono tornati nelle proprie case. Tutto vero. Si dice pure, e ancora, in parti d’Italia che hanno una sfumata conoscenza dell’Aquila e hanno continuato a ricevere notizie non sempre sincere o complete, che il più è fatto. Tutto falso. Anche in questo terzo anno, l’opinione pubblica ha cercato e trovato alcuni simboli di questo terremoto, gli stessi di sempre: la martoriata comunità di Onna, il Palazzo del Governo, la Casa dello studente. Non c’è un ministro, l’ultimo Francesco Profumo, o un capo del governo, anche Mario Monti, che non deponga un fiore in via XX Settembre, davanti allo scempio della Casa dello studente, ma nessuno ha ancora spazzato il polverone bianco che quella notte si levò come effetto di una bomba atomica. Continua a mancare l’individuazione di un altro simbolo, che tutti li racchiude: l’intero centro storico, ferito gravemente e neanche in parte recuperato. È stata completata da tempo la messa in sicurezza dei palazzi, dei monumenti, delle chiese, c’è il prato verde davanti alla basilica di Collemaggio tornato come nelle cartoline, ma è la scenografia di un film, le facciate puntellate di negozi e case, ma basta girare l’angolo e vedere il niente che c’è dietro. Il centro storico resta il buco nero della ricostruzione.
Qualche gru, qualche camion, qualche impalcatura, ma sostanzialmente è ancora tutto fermo. La voglia di riappropriarsi delle vie e dei luoghi si limita al serpentone della movida, che si snoda e attorciglia per strade disegnate dai puntellamenti e dai tubi Innocenti, compressa e costretta dagli stessi elementi che ne garantiscono la sicurezza. Fisiologico, anche se non giustificabile, che qualche volta il fiume rompa gli argini. Quella sera, poche ore prima del big band, via Cavour, via Sassa, piazza San Biagio, brulicavano delle anime della movida, ignare della fine di una vita che sarebbe stata scritta da lì a poco. È stata l’ultima volta che le narici si sono riempite dei profumi e dei fumi; che le orecchie hanno ascoltato le risate, le grida, le ordinazioni al bar. Da allora soltanto la polvere delle macerie e i pochi ordini di lavoro.
«L’Aquila tornerà a volare», ma quando? Quando potrà riprendere il volo che, solo due anni fa, sembrava possibile e non solo auspicabile? La fotografia, da tre anni, è sempre la stessa: le gonne appese alle grucce degli armadi spalancati nelle case sventrate, i libri caduti da scaffali in bilico sul vuoto, le canottiere, stese ad asciugare su fili tesi, che sventolano su montagne di detriti. Presto la governance non sarà più della struttura commissariale, passerà agli enti locali, come pegno e impegno, ma non come garanzia di svolta e successo. Ci sono ancora novemila aquilani in autonoma sistemazione, persone che si sono arrangiate e hanno acceso la polemica su un mini condono per le casette che hanno potuto costruire nel giardino dell’abitazione crollata. Ce ne sono quattromila. E, con l’attesa sanatoria, rischiano di diventare una ferita in più sul territorio. Per le autonome sistemazioni lo Stato paga ancora 100.000 euro al giorno. Il conto è salato. Per le sole abitazioni periferiche si dovrebbero spendere 1.524 milioni di euro. E almeno il doppio per quelle del centro. Ma L’Aquila vale il prezzo, solo che si naviga a vista e resta una rissa continua, estenuante, sul «cosa fare dopo», travasata dalle campagne elettorali per le provinciali, per le europee e oggi per le comunali. Di qua la destra, di là la sinistra. Di qua Gianni Chiodi, di là Massimo Cialente. Volano solo gli stracci. Se tre anni sembrano pochi...
Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise hanno scritto un libro dal titolo «Il peso economico e sociale dei disastri sismici in Italia negli ultimi 150 anni»: un volume che racconta che, dal 1861 a oggi, nel nostro Paese, ci sono stati 34 terremoti molto forti più 86 minori. Il regno italiano si trovò subito in carico le rovine di altre catastrofi appena accadute nei territori che erano stati pontifici e napoletani. E, in quel Mezzogiorno, dove «su 1.848 comuni, 1.321 erano privi di collegamenti stradali», «la sfida delle ricostruzioni fu forse una delle prime perse dal nuovo regno». Una tradizione fino all’Aquila, insomma. Il disastro del menefreghismo fa più danni dei terremoti ed è «la peggiore cattiveria». Il volo dell’Aquila dipende anche da quanta voglia ci sarà di sfatare la tradizione.
Per tutti quelli che accorrono al capezzale di una città per ricordarne gli antichi fasti e la decadenza post sisma e per riaccendere i riflettori e raccontarne le storie strappalacrime e poi spegnere tutto per i 364 giorni che mancano alla nuova edizione dello show del dramma in onda sulle frequenze di un Paese che assiste indolente alla Fine. Per tutti quelli che dovrebbero parlare e fare tutti i giorni e invece tacciono e non fanno nulla per un anno ancora. Per quelli che arrivano, dicono: «Non immaginavo che la situazione fosse questa» e passano. Per qualsiasi aquilano, invece, è un giorno di dolore come tutti gli altri che l’hanno preceduto perché nessun aquilano ha dimenticato. Nessun aquilano può dimenticare. Neanche chi, almeno per un giorno, avrebbe voluto non ricordare. È l’unico giorno, però, in cui vorrebbe rimanere da solo.
I luoghi della Memoria sono intatti nella loro devastazione e ogni giorno dell’anno, anche di questo terzo anno, sono stati l’onnipresente e indimenticabile Via Crucis, scrigno mai chiuso di storie drammatiche personali e collettive mai superate, in qualche caso «Monumento colpevole» della mano dell’uomo. «Nel Paese della Memoria il tempo è sempre Ora» scrive l’autore statunitense Stephen King. E L’Aquila ha continuato, anche in questo terzo anno, a vivere nel passato e nel ricordo struggente, mai superando l’impasse della mancata ricostruzione della vita umana, sociale e urbanistica. Per colpe proprie (poche) e altrui (tante). Se tre anni sembran pochi... Sono stati 1.096 giorni di Passione. Tre anni che non hanno guarito le ferite. Il tempo cura tutte le ferite, ma certe lasciano una cicatrice nel cuore che non guarirà mai. Gli aquilani, dopo tre anni, sono ancora impegnati a curarsi le ferite, morali e materiali, determinate da quel mezzo minuto scarso di incredibile violenza sismica. Non ci sono soltanto le 309 vittime, e comunque già basterebbero, a tenere aperte e sanguinanti le ferite, c’è una città che continua a non esserci. «La città che non c’è» è un dolore senza un colpevole certo, ma certezza di un oggi senza domani.
L’emergenza è finita, molti sfollati hanno trovato abitazioni antisismiche, altri ancora sono tornati nelle proprie case. Tutto vero. Si dice pure, e ancora, in parti d’Italia che hanno una sfumata conoscenza dell’Aquila e hanno continuato a ricevere notizie non sempre sincere o complete, che il più è fatto. Tutto falso. Anche in questo terzo anno, l’opinione pubblica ha cercato e trovato alcuni simboli di questo terremoto, gli stessi di sempre: la martoriata comunità di Onna, il Palazzo del Governo, la Casa dello studente. Non c’è un ministro, l’ultimo Francesco Profumo, o un capo del governo, anche Mario Monti, che non deponga un fiore in via XX Settembre, davanti allo scempio della Casa dello studente, ma nessuno ha ancora spazzato il polverone bianco che quella notte si levò come effetto di una bomba atomica. Continua a mancare l’individuazione di un altro simbolo, che tutti li racchiude: l’intero centro storico, ferito gravemente e neanche in parte recuperato. È stata completata da tempo la messa in sicurezza dei palazzi, dei monumenti, delle chiese, c’è il prato verde davanti alla basilica di Collemaggio tornato come nelle cartoline, ma è la scenografia di un film, le facciate puntellate di negozi e case, ma basta girare l’angolo e vedere il niente che c’è dietro. Il centro storico resta il buco nero della ricostruzione.
Qualche gru, qualche camion, qualche impalcatura, ma sostanzialmente è ancora tutto fermo. La voglia di riappropriarsi delle vie e dei luoghi si limita al serpentone della movida, che si snoda e attorciglia per strade disegnate dai puntellamenti e dai tubi Innocenti, compressa e costretta dagli stessi elementi che ne garantiscono la sicurezza. Fisiologico, anche se non giustificabile, che qualche volta il fiume rompa gli argini. Quella sera, poche ore prima del big band, via Cavour, via Sassa, piazza San Biagio, brulicavano delle anime della movida, ignare della fine di una vita che sarebbe stata scritta da lì a poco. È stata l’ultima volta che le narici si sono riempite dei profumi e dei fumi; che le orecchie hanno ascoltato le risate, le grida, le ordinazioni al bar. Da allora soltanto la polvere delle macerie e i pochi ordini di lavoro.
«L’Aquila tornerà a volare», ma quando? Quando potrà riprendere il volo che, solo due anni fa, sembrava possibile e non solo auspicabile? La fotografia, da tre anni, è sempre la stessa: le gonne appese alle grucce degli armadi spalancati nelle case sventrate, i libri caduti da scaffali in bilico sul vuoto, le canottiere, stese ad asciugare su fili tesi, che sventolano su montagne di detriti. Presto la governance non sarà più della struttura commissariale, passerà agli enti locali, come pegno e impegno, ma non come garanzia di svolta e successo. Ci sono ancora novemila aquilani in autonoma sistemazione, persone che si sono arrangiate e hanno acceso la polemica su un mini condono per le casette che hanno potuto costruire nel giardino dell’abitazione crollata. Ce ne sono quattromila. E, con l’attesa sanatoria, rischiano di diventare una ferita in più sul territorio. Per le autonome sistemazioni lo Stato paga ancora 100.000 euro al giorno. Il conto è salato. Per le sole abitazioni periferiche si dovrebbero spendere 1.524 milioni di euro. E almeno il doppio per quelle del centro. Ma L’Aquila vale il prezzo, solo che si naviga a vista e resta una rissa continua, estenuante, sul «cosa fare dopo», travasata dalle campagne elettorali per le provinciali, per le europee e oggi per le comunali. Di qua la destra, di là la sinistra. Di qua Gianni Chiodi, di là Massimo Cialente. Volano solo gli stracci. Se tre anni sembrano pochi...
Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise hanno scritto un libro dal titolo «Il peso economico e sociale dei disastri sismici in Italia negli ultimi 150 anni»: un volume che racconta che, dal 1861 a oggi, nel nostro Paese, ci sono stati 34 terremoti molto forti più 86 minori. Il regno italiano si trovò subito in carico le rovine di altre catastrofi appena accadute nei territori che erano stati pontifici e napoletani. E, in quel Mezzogiorno, dove «su 1.848 comuni, 1.321 erano privi di collegamenti stradali», «la sfida delle ricostruzioni fu forse una delle prime perse dal nuovo regno». Una tradizione fino all’Aquila, insomma. Il disastro del menefreghismo fa più danni dei terremoti ed è «la peggiore cattiveria». Il volo dell’Aquila dipende anche da quanta voglia ci sarà di sfatare la tradizione.
Claudio Fazzi
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