La notizia dell'attentato irrompe al Colle durante il giuramento del nuovo governo. I ministri ignari sorridono e posano per le foto. Alfano il primo a essere informato
di Mario Ajello
ROMA - Lo sparo non si sente. Né il primo né gli altri cinque. Perché il Quirinale è un po’ distante da Palazzo Chigi. Ma l’eco politica o anti-politica di quei colpi, con il delirio che contiene e la paura che suscita in una città e in una nazione già in preda al senso di allarme, dalla sede del governo s’inerpica sul Colle. Dove è in corso la cerimonia del giuramento dei nuovi ministri. Vogliono colpire anche loro quei colpi? «Sono idealmente diretti pure a noi?», s’interroga il neo-ministro della Difesa, Mario Mauro, dopo aver giurato davanti al Capo dello Stato, e si risponde che «bisogna vedere, bisogna capire». Sono forse il frutto avvelenato del clima di rabbia contro il Parlamento e contro le istituzioni che però, quassù, sul Colle, non sembra essere arrivato perché c’è una folla plaudente nei confronti dei nuovi ministri che arrivano a piedi come cittadini qualunque, o guidando la loro macchina non blù (la Panda rossa di Massimo Bray è punteggiata di bisognini di piccioni), o accompagnati da un taxi o addirittura in corteo di famiglia nel caso di Delrio che si è portato al seguito sei dei suoi nove figli più moglie? La festa è quassù; l’inferno è sotto. Ma poi i set si mescolano, purtroppo.
LA RAFFICA
La raffica è delle 11,40, cadono per terra i due carabinieri, Giuseppe Giangrande e Francesco Negri, e immediatamente quell’alone di sangue comincia il suo breve cammino. S’infila nel cortile della presidenza della Repubblica, mentre le autombulanze stanno portando Giangrande al policlinico Umberto I e Negri al San Giovanni. Sale le scale dove ci sono i corazzieri immobili come sempre e vorrebbero fermare, se potessero, la scia di quel fattaccio, mentre il viavai di curiosi, di cittadini afflitti, di amici e di colleghi dei due carabinieri feriti invade il luogo dell’attentato o cerca di raggiungerlo e di capire come, perché e perché adesso. La notizia ora irrompe nel mezzo del Salone delle feste al Quirinale e trasforma in un dramma una cerimonia di iniziazione, un rito lieto per qualcosa che comincia. E non deve cominciare con l’odore della morte. «Avevo il cuore leggero - dirà poi Iosefa Idem, la canoista arrivata alle Pari Opportunità - e me lo ritrovo pesante». «Per fortuna che non mi sono portata mia figlia Gea», aggiunge Nunzia De Girolamo.
Proprio lei, neo-titolare all’Agricoltura, sta per giurare. I flash, qui dentro. Altri flash, di più e più grondanti di dolore, fuori di qui. Sul Colle va in scena un’Italia pacificata, o che vorrebbe pacificarsi con le larghe intese. Sotto il Colle, è appena andata in scena l’altra Italia. Nella sua versione più pulp. L’attentatore di Palazzo Chigi viene bloccato proprio mentre De Girolamo sta recitando il suo giuramento. Quando è alle ultime sillabe, ecco spuntare dalla porta sulla destra del presidente Napolitano un funzionario dell’ufficio stampa, Costantino Del Riccio. Tiene tra le mani un dispaccio d’agenzia. Cerca di avvicinarsi ad Alfano, che siede nel primo posto all’inizio della prima delle due file di ministri. Lo raggiunge, gli sussurra la notizia. Alfano chiude gli occhi come si fa davanti a una brutta cosa. Non sa se alzarsi e diventare subito operativo da neo-ministro dell’Interno. No, resta seduto. Aspetta. Non vuole attizzare il panico.
L’ASSEDIOPensavano, Letta e molti dei suoi ministri, di dover temere soltanto i falchi del Pdl che remano contro e la pancia dell’elettorato del Pd (più qualche maggiorente che si sente escluso), e invece no: c’è di più e di molto peggio. La violenza, di nuovo: li assedia. Anche se loro ancora non lo sanno. Ma l’Italia non aveva già dato? Comunque la scena è terribilmente surreale. I giornalisti, i fotografi, gli addetti alle tivvù, i parenti dei ministri, che una corda invalicabile divide dalle star della giornata dentro la sala, grazie al web e ai telefoni già sono venuti a conoscenza della sparatoria. I membri del governo, a parte Alfano, sono all’oscuro del fatto, sentono ma forse no il rumore delle autombulanze, continuano ad alternarsi nel giuramento, si scambiano convenevoli, accennano le prime prove d’intesa tra ex avversari (Franceschini conversa con il vicino di posto Quagliariello, Lupi e Orlando scherzano: «Spegniamo il telefonino perchè è un disastro se squilla mentre stiamo recitando l’atto di fedeltà alla Repubblica»). E insomma, nessuno di loro riesce a sentire quel grido che un cameraman lancia dal lato destro della sala: «Lo sapete che è successo? Hanno colpito due carabinieri all’ingresso di palazzo Chigi. Stanno sparando addosso al vostro governo!».
Sì, è accaduto l’impensabile. Il primo a cui Alfano dice qualcosa è Moavero, perchè gli siede affianco. Gli altri continuano a sorridere ai parenti - la Cancellieri verso i nipotini che la guardano dall’altro lato della sala - o a mantenere l’aplomb delle grandi occasioni. Ora la cerimonia è arrivata al termine.
Giovanni Matteoli, nuovo portavoce del presidente, informa Napolitano, che scuote la testa. I ministri si fanno le foto di rito. C’è chi sa e chi non sa. Alfano ha avvertito Lupi. La notizia circola. Letta si sta facendo la foto con Napolitano (il quale si vede che è turbato) e con le sette donne del governo, gli si avvicina Franceschini e gli dice: «Devo dirti una brutta cosa ma ancora non si sa bene di che cosa si tratti». Ora le sirene di fuori le sentono tutti. Letta chiama agli ospedali. Ci sono altri feriti gravi? Comincia ad arrivare sugli smart phone dei ministri la foto del carabiniere Giangrande steso per terra con il sangue che gli cola: e che angoscia!
Poi c’è il brindisi che non è un brindisi. Alfano e Cancellieri si consultano: «C’è una regia? Un gesto isolato?». C’è chi tende a collegare l’attentato con il clima di ”caccia al politico” scatenato ormai da tempo.
PARALLELI
C’è chi abbozza paralleli storici un po’ incongrui, del tipo: le Brigate Rosse per il governo di unità nazionale, bombe della criminalità per il governo Ciampi, ora il folle che spara. «Ma bisogna andarci cauti», dice Mario Mauro, che si avvia per primo a trovare al Policlinico il brigadiere Giangrande. Gli altri restano nella sala attigua a quelle delle feste. Lupi: «E’ opera di un pazzo». Letta: «Dicono sia uno squilibrato». Ma chi lo sa? Chi può dirlo? Che cosa significa pazzo, magari uno normalissimo che si fa suggestionare dal clima d’odio diffuso e viene preso da un raptus? Si sta svolgendo una sorta di consiglio di guerra ma non si sa a chi fare la guerra. I volti dei presenti, pur appartenendo per lo più alla generazione X, cioè alla generazione light di chi era ragazzo negli anni ’80, hanno assunto di colpo la gravità di quelle figure di statisti effigiate da Tiziano nella mostra allestita qui fronte, alle Scuderie del Quirinale.
Intanto Letta e gli altri non escono perché gli è stato detto di non farlo per motivi di sicurezza? Un attentato anche qui? No, però le misure di controllo vengono subito rafforzate intorno al Quirinale. E chi, come De Girolamo e altri, sono arrivati con le proprie auto, vengono portati via con le macchine di servizio. Non si sa mai. «Non credo in una regia politica», dice Cancellieri. E aggiunge: «Sigillare ventiquattro ore al giorno ogni giorno una piazza, come quella di Palazzo Chigi, comunque è impossibile». Napolitano, nel brindisi che non è un brindisi ma una sorta di centrale telefonica dove ognuno chiama le proprie fonti per saperne di più («Ho ancora qualche numero che può essere utile», dice Cancellieri passata dal Viminale alla Giustizia), parla ad alcuni ministri: «Il momento è grave. Dobbiamo rispondere con i fatti. Dimostriamo che la politica è all’altezza della gravità della situazione».
SGOMENTO
Ora sta accadendo che il selciato sotto Palazzo Chigi è ancora sporco di sangue, la scientifica sta facendo le sue analisi, tutto è transennato, il consiglio dei ministri sta per cominciare e quando arrivano Letta e gli altri vogliono sapere di più da chi c’era, da chi ha visto, da chi non avrebbe voluto vedere. Come quel poliziotto che piange e non parla. In una città sgomenta quanto lui.
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