martedì 16 marzo 2010

"Svetonio", lo 007 che scriveva al boss


"Svetonio", lo 007 che scriveva al boss


Messina Denaro per due anni ha
mandato "pizzini" all'amico-spia

FRANCESCO LA LICATA

ROMA


Come ogni agente segreto che si rispetti, aveva il suo nome in codice che - ironia della sorte - gli era stato imposto dalla sua stessa preda. Era stato Matteo Messina Denaro, il boss di Cosa nostra «attenzionato» dall’insospettabile spia, a chiamarlo «Svetonio».

Proprio come l’autore del «De viris illustribus». Per sé, invece, aveva scelto lo pseudonimo di Alessio. E così per due anni Svetonio e il superlatitante Alessio si sono scambiati una alata quanto clandestina corrispondenza puntualmente finita sulle scrivanie degli analisti del Sisde, che ne traevano spunti per la possibile cattura di Matteo Messina Denaro.

Oggi il prezioso e molto interessante, dal punto di vista antropologico oltre che investigativo, carteggio si può trovare nel fascicolo che ieri ha dato luogo all’operazione «Golem II», nel Trapanese. Protagonista della Spy Story alla siciliana è Antonino Vaccarino, strano personaggio nato a Corleone nel 1945 ma da tempo residente a Castelvetrano dove ha fatto l’insegnante di lettere ed è stato consigliere comunale, assessore ed anche sindaco.

Certo l’ambiente non è dei più adatti a mantenere intatta la passione per i libri, tra l’altro condivisa con la moglie, Gisella, professoressa di filosofia. Castelvetrano, come d’altra parte Corleone, è da sempre una specie di brodo di coltura della mafia. Il cortile di via Mannone dell’avvocato Gregorio De Maria, dove, il 5 luglio del 1950, fu inscenato il falso conflitto a fuoco che si concluse con la morte sospetta di Salvatore Giuliano, nel tempo è diventato l’icona dell’ambiguità delle vicende di mafia. Ecco, forse il professor Vaccarino ha risentito di un certo condizionamento ambientale, se è vero che qualche problemino giudiziario se l’è procurato. Finito sotto osservazione anche per la sua passione esoterica (Loggia Francesco Ferrer), si fece notare anche per la carica pubblica all’interno della cooperativa «Agricola Mediterranea». Nulla, per usare un termine attuale, di penalmente rilevante. Solo la vicinanza di personaggi del calibro di Francesco Messina Denaro, padre (ora scomparso) di Matteo e Salvatore e del boss Filippo Guttadauro. Comunque il peggio doveva arrivare nel 1997, quando fu condannato a 6 anni e mezzo per traffico di stupefacenti. In quell’ occasione fu anche prosciolto dall’accusa di associazione mafiosa.

Una volta tornato in libertà, lo troviamo a gestire il cinema Marconi, l’unico di Castelvetrano e a cercare l’avventura spionistica. Così è diventato Svetonio, dopo aver agganciato Matteo attraverso il fratello Salvatore Messina Denaro, suo ex alunno al liceo. «Tutte le persone - gli spiega Alessio - che hanno contatto con me hanno dei nomi convenzionali, il suo è Svetonio». Le raccomandazioni, poi, riguardano le precauzioni da osservare nello scambio epistolare: rispettare maniacalmente le date che vengono comunicate per rispondere e, soprattutto, bruciare i «pizzini». Quest’ultima osservanza è stata disattesa, visto che il Sisde, nel 2007, ha trasferito alla magistratura l’intero carteggio.

E’diabolica la «captatio benevolentiae», per restare nel latino, adoperata da Svetonio per conquistare con l’adulazione le simpatie del latitante. Gli scrive parole poetiche sul padre morto: il «tuo eccezionale genitore» «ritengo abbia fatto della sua vita l’esaltazione dell’equilibrio». Poi lo blandisce coi discorsi sui «politici indegni» e arriva a spingere Alessio a sbilanciarsi parecchio, come quando il boss definisce «venditore di fumo» il presidente del Consiglio dell’epoca (era Berlusconi). Il doppio gioco di Svetonio oggi è chiaro: ad Alessio fa credere di potergli essere utile politicamente, al Sisde promette l’improbabile cattura del latitante. Tra i due, si intuisce, crede di più in Alessio che percepisce come più forte dello Stato.

Tutto questo ed altro è ormai codificato, anche se Svetonio non è neppure indagato nell’indagine Golem perché agiva «per ragion di Stato». Ma i suoi guai, forse, non sono finiti. Il 15 novembre del 2007 ha ricevuto una lettera vera, non un «pizzino». C’era scritto: «.....Ha buttato la sua famiglia in un inferno... la sua illustre persona fa già parte del mio testamento... in mia mancanza verrà qualcuno a riscuotere il credito che ho nei suoi confronti...». Firmato: M. Messina Denaro, proprio lui in persona, non più Alessio.

Si stringe il cerchio attorno
al boss Messina Denaro




TRAPANI - Un'operazione finalizzata a smantellare la rete di favoreggiatori del superboss latitante Matteo Messina Denaro, indicato come il nuovo capo di Cosa Nostra, è stata effettuata in provincia di Trapani. Gli investigatori della Polizia, appartenenti al Servizio Centrale Operativo ed alle Squadre Mobili di Trapani e Palermo, hanno operato 19 fermi emessi dalla Procura Distrettuale antimafia di Palermo.

Gli indagati devono rispondere, a vario titolo, di associazione mafiosa, estorsione, danneggiamenti e trasferimento fraudolento di società e valori. Secondo l'accusa farebbero parte della struttura trapanese di Cosa Nostra; alcuni di loro sono legati anche da vincoli di parentela con il boss latitante attorno al quale gli investigatori hanno fatto ormai "terra bruciata".

Le indagini della polizia sono state coordinate dal Procuratore di Palermo Francesco Messineo, dall'aggiunto Teresa Principato e dai Pm Marzia Sabella e Paolo Guido. L'operazione è stata denominata in codice Golem 2. Gli arresti costituiscono infatti il seguito dell'operazione Golem 1 del giugno scorso, condotta da uno speciale team investigativo, con l'obiettivo di disarticolare la rete di complicità che avrebbe favorito la latitanza di Matteo Messina Denaro.

Tra i destinatari dei provvedimenti restrittivi figurano infatti alcuni fedelissimi del padrino trapanese che avrebbero svolto il ruolo di "postini" per recapitare la corrispondenza del boss contenente ordini e disposizioni. Gli investigatori sono riusciti a "intercettare" alcuni pizzini attribuiti a Messina Denaro, che in passato aveva avuto un fitto scambio epistolare con Bernardo Provenzano e i boss Lo Piccolo. In cella sono finiti anche alcuni elementi di spicco di Cosa Nostra trapanese, tra cui i reggenti delle famiglie mafiose di Castelvetrano, Campobello di Mazara, Partanna e Marsala che avrebbero svolto un ruolo di raccordo tra Messina Denaro e i suoi affiliati nonchè con i vertici delle cosche palermitane.

Dall'inchiesta Golem 2 che ha portato al fermo di 19 presunti fiancheggiatori del boss latitante Matteo Messina Denaro emerge che il capomafia si serviva di fiancheggiatori insospettabili incaricati di gestirne la latitanza e di occuparsi degli affari della famiglia. Tra i fermati anche il fratello del padrino, Salvatore Messina Denaro. In cella sono finiti inoltre, tra gli altri, Maurizio Arimondi, Calogero Cangemi, Fortunato e Lorenzo Catalanotto, Tonino Catania, Andrea Craparotta, Giovanni Filardo, Leonardo Ippolito, Antonino Marotta, Marco Manzo, Nicolò Nicolosi, Vincenzo Panicola, Giovanni Perrone, Carlo Piazza, Giovanni Risalvato, Paolo Salvo, Salvatore Sciacca e Vincenzo Scirè. Alcuni sono legati al latitante da vincoli di parentela.

C'è anche un componente della banda di Salvatore Giuliano tra i 19 presunti fiancheggiatori del boss Matteo Messina Denaro fermati dalla polizia nell'ambito dell'operazione Golem 2. Si tratta di Antonino Marotta, 83 anni, definito dagli investigatori come il "decano" della mafia trapanese.

Nessun commento:

Posta un commento