martedì 31 maggio 2011

Melania, torna lo spettro del killer in divisa pantaloni calati forse tecnica militare

ASCOLI - Un testimone vero, uno quasi sicuramente falso, e l’inchiesta sullo scempio di Melania Rea, la mamma di 29 anni trafitta da trenta coltellate lo scorso 18 aprile in un bosco del teramano, torna a perdersi in un labirinto di ricordi confusi, contraddizioni, scherzi della mente, fantasie balzane. Intanto Salvatore Parolisi, vedovo e parte offesa nonostante la mole di sospetti che non lo hanno mai trasformato in un indagato, si prepara a riprendere servizio ad Ascoli. Il caporal maggiore è atteso nella caserma del 235° Rav a metà settimana, anche se probabilmente non tornerà ad istruire le sue soldatesse. Le tre love story con le reclute, emerse nel corso dell’inchiesta sull’omicidio della moglie e ancora considerate elementi di un puzzle che non ne vuole sapere di andare a posto, stanno consigliando i vertici dell’Esercito a trovargli un impiego alternativo.

Al ritorno dopo quasi un mese e mezzo, Parolisi, ora assistito dagli avvocati Walter Biscotti e Nicodemo Gentile, troverà uno scenario investigativo molto cambiato. Lui ha detto e ripetuto che quel 18 aprile era con la moglie e la figlioletta Vittoria a giocare sulle altalene del Colle San Marco, che sormonta Ascoli, quando Melania si è allontanata per raggiungere un bagno ed è sparita. Il corpo verrà trovato due giorni dopo in una radura della Montagna dei fiori, a una decina di chilometri di distanza. Ma la splendida mamma sul pianoro del colle c’è mai arrivata? Nessun testimone fino ad oggi l’ha collocata nella scena descritta da Parolisi. Molto si sperava su due donne notate quel giorno da un gruppo di ciclisti. Una è stata rintracciata ed interrogata venerdì notte dai carabinieri del colonnello Alessandro Patrizio. «Ero al di là del campo di calcio, piuttosto distante dalle altalene - ha detto la giovane ascolana -. Non ho notato nessuno che assomigliasse a Melania e a Salvatore, non ho fatto caso nemmeno alla bambina».

Altra doccia fredda dopo quella di giovedì, quando un settantenne di Civitanova Marche ha detto di aver visto Melania litigare con il marito, allontanarsi ed essere sequestrata da tre persone su un’auto. Compulsione nelle indagini, poi si scopre che l’uomo (che in passato si era inventato una vincita al Superenalotto) probabilmente è un mitomane. Amen. Tocca ripartire con il lavoro di cesello. E allora si torna sulla scena del crimine, con due ricostruzioni che tirano in ballo entrambe la sfera delle conoscenze della vittima.

Melania è stata trovata nel bosco delle Casermette con i pantaloni abbassati, senza tracce di violenza sessuale, e coltellate alla schiena. Potrebbe essere stata aggredita mentre faceva pipì (ci sono dei fazzolettini sull’erba), un gesto ipotizzabile solo in presenza di persone molto intime. Ma potrebbe anche essere l’indizio di una tecnica militare. Nei corpo a corpo i soldati, soprattutto se non armati in maniera adeguata - e l’assassino di Melania aveva un coltello dalla lama di 9-10 centimetri - possono abbassare di colpo i pantaloni dei nemici. Questo per impedire loro di fuggire e sopraffarli con calma.

Torna così lo spettro dell’assassino di divisa. Non necessariamente Salvatore, ma qualcuno che poteva avercela con lui. Così i carabinieri sono tornati a bussare alla caserma delle soldatesse. Hanno sentito tutti quelli che hanno incontrato e parlato con il caporal maggiore il 19 aprile quando lui, incredibilmente, invece di cercare la moglie allora ritenuta scomparsa, ha trascorso l’intera giornata al Rav insieme alla figlioletta. Solo per stemperare l’ansia in un ambiente in cui si sentiva a suo agio? Come sostiene lui. O per contattare qualcuno? Come credono i carabinieri. Nessuno ha riferito comportamenti compromettenti di Salvatore. Se un segreto c’è, rimane ancora ben protetto dietro quelle mura.

 Giovanni Sgardi

Castrovillari, Operazione "White Card" su carte di credito clonate, 6 arresti

L'inchiesta è durata quasi un anno. La polizia ha stretto le manette ai polsi di sei persone
Sei ordinanze di custodia cautelare sono state eseguite dagli agenti del Commissariato di Polizia Castrovillari (Cs) nell’ambito di un’operazione contro un’organizzazione che utilizzava codici di carte di credito di provenienza illecita. Responsabile del vasto traffico era un castrovillarese che, con la complicità di alcuni negozianti, utilizzava le carte clonate.


Una ventina le carte di credito sequestrate, appartenenti a diversi circuiti bancari (American express, Visa, Mastercard, Diners) mentre ancora non è stato quantificato l’esatto importo del traffico.

L'inchiesta è durata quasi un anno, nel corso del quale gli inquirenti hanno scoperto che un noto ristorante romano, sito nei pressi di Piazza di Spagna, era utilizzato per la clonazione delle carte che, distribuite sul territorio, venivano poi utilizzate fraudolentemente. Gli intestatari delle carte di credito erano tutte persone con grandi disponibilità finanziarie, residenti in varie parti del mondo (Stati Uniti, Francia, Germania, Australia, Svizzera, Svezia, Giappone). Nel corso dell’operazione sono state sequestrate numerose carte di credito, bancoposta, carte d’identità rubate e alcuni personal computer, che ora sono al vaglio degli esperti informatici del Commissariato. Dalle indagini è emerso che le carte di credito, prima di essere clonate, erano state utilizzate in un noto ristorante romano situato vicino a piazza di Spagna. Al momento, però, nessun provvedimento è stato adottato nei confronti del titolare o dei dipendenti del locale. Le indagini, al riguardo, proseguono. Le sei misure cautelari sono state disposte, su richiesta del pm di Castrovillari, Baldo Pisani, dal gip Cataldo Collazzo.

«L'inchiesta – ha spiegato Giuseppe Zanfini, dirigente del commissario – è partita ad ottobre 2009, dopo una perquisizione in casa di Imbrogno dove sono state trovate, tra le altre cose, 17 carte magnetiche di colore bianco che dopo un’accurata analisi risultavano essere delle vere e proprie carte di credito clonate e abilitate al circuito internazionale. Le carte erano intestate a persone facoltose provenienti da Stati Uniti, Giappone, Germania, Svezia, Turchia, Francia e Australia».

Le carte sequestrate (13 American Express «Platino», una Visa, due Mastercard e una Diners), ha aggiunto Zanfini «potrebbero essere state clonate nel ristorante». Nel corso dell’operazione, denominata White card, oltre alle carte di credito clonate, sono state sequestrate una carta di identità rubata in un Comune del cosentino e alcuni computer che adesso sono al vaglio degli esperti informatici della polizia.

LE PERSONE COINVOLTE Una persona agli arresti domiciliari ed altre cinque sottoposte all’obbligo di firma. Ai vertici dell’organizzazione, secondo l’accusa, c'era Marco Imbrogno, di 36 anni, di Castrovillari, posto ai domiciliari. Gli altri indagati sono tutti titolari o commessi di negozi: C.D. (35) e T.D. (42), di Castrovillari; G.V. (34) e A.L. (39), di Corigliano; A.G. (35), di Cassano.

Turista morto dopo scippo Rolex: 2 fermati

Rapinatori "traditi" dalla targa della moto

Il questore: «La gente non ha collaborato»

NAPOLI - Sono stati identificati dalla Squadra Mobile della Questura di Napoli, guidata da Vittorio Pisani, i responsabili della rapina del 18 maggio che causò la morte del turista americano Antonio Oscar Mendoza.


Gli autori del grave delitto sono stati fermati ed attualmente si trovano presso gli uffici della Questura, dove è presente il Pubblico Ministero della Procura della Repubblica che ha assunto la direzione delle indagini. Le due persone identificate, 30enni, napoletani della zona centrale della città, hanno precedenti per reati contro il patrimonio e rapina. Sono ritenuti responsabili dei reati di tentativo di rapina ed omicidio preterintenzionale.

I due fermati sono Vincenzo Sannuto e Salvatore Scippa. Alla loro identificazione la polizia è giunta incrociando due elementi: il primo numero di targa del ciclomotore usato per lo scippo e il riconoscimento da parte della moglie della vittima, sia pure con qualche dubbio, di Scippa. L'uomo è stato sottoposto ad intercettazioni telefoniche e in questo modo gli investigatori hanno compreso che si era reso irreperibile.

Rintracciato in casa di un barbone nella zona di Santa Chiara, nel centro storico, è stato arrestato e ha ricostruito la modalità dell'accaduto. Quindi è stato identificato il complice che si era rifugiato nell'abitazione di una sorella nella zona del Cavone, è ora interrogato in Questura dal pm Maria Sepe, titolare del fascicolo. Il procuratore aggiunto Giovanni Melillo ha espresso soddisfazione per la «bella indagine» svolta dalla squadra mobile.

«Sono soddisfatto per i fermi operati dalla Squadra Mobile ma, permane in me un sentimento di forte dolore e di partecipazione al grave lutto che ha colpito i famigliari del turista americano Antonio Oscar Mendoza e la moglie in particolare rimasta accanto a lui fino all'ultimo».

Lo ha detto il questore di Napoli Luigi Merolla, commentando i fermi dei due presunti autori del tentato scippo e della successiva morte del turista Usa aggredito lo scorso 18 maggio a Via Marina a Napoli e morto dopo 9 giorni di agonia in ospedale.

«I due fermi rappresentano l'ulteriore positivo esito dell'attività investigativa della Squadra Mobile. Ma l'impegno della polizia -ha proseguito il questore- è totale nella lotta alla criminalità». Merolla ha poi invitato «i cittadini a prendere esempio da questi professionisti che operano per i bene della città e a collaborare di più con la polizia».

«Non basta indignarsi, vorrei che da parte dei cittadini ci fosse più partecipazione. Invece, anche nel caso dell'indagine sul tragico tentato scippo di via Marina la popolazione non ha collaborato», ha proseguito il questore di Napoli.

«Eppure i due fermati non sono venuti da fuori Napoli ma vivono nel centro storico, sono conosciuti da tanta gente eppure nessuno si è sentito in dovere -ha continuato Merolla- di collaborare con la polizia all'attività investigativa. Ripeto, non basta solo l'indignazione, la gente deve imparare a partecipare attivamente alle attività degli investigatori».

Allarme criminalità Via da Bari anche il questore

BARI - La decisione potrebbe arrivare entro oggi, al termine della riunione del Consiglio di amministrazione del dipartimento di pubblica sicurezza: il questore di Bari, Giorgio Manari, potrebbe essere chiamato ad altro incarico, quindi promosso e trasferito. L'indiscrezione arriva direttamente da Roma, da fonti del Viminale, e attribuirebbe tale decisione a un fisiologico avvicendamento secondo le tempistiche previste sia pure con un po’ di anticipo: i questori cambiano sede ogni tre anni, mentre Manari (è stato questore di Lecce dal settembre del 2004 all’agosto del 2007 prima di andare al servizio centrale dell’immigrazione) si è insediato a Bari il 2 marzo di due anni fa.


L’ESCALATION CRIMINALITÀ - Nessuna certezza, per ora, neanche sul possibile successore di Manari (si parla di Gilberto Calderazzi) anche se in queste ore il caso Bari è all'attenzione dei vertici dell'Interno a seguito dell'escalation di episodi di violenza registrati in città: un problema culminato in queste settimane con i mattinali di polizia e carabinieri che continuano a registrare aggressioni – anche eccellenti – nel cuore della città soprattutto da parte di bande specializzate nel furto dei «Rolex ». Situazione che ha spinto il sottosegretario all’Interno, Alfredo Mantovano, a convocare una riunione a Bari il prossimo 6 giugno. L'avvicendamento, insomma, potrebbe essere questione di qualche settimana, con ciò lasciando non poche incertezze sul futuro dell'ordine e la sicurezza pubblica nella provincia di Bari. Il trasferimento del Questore e l'assunzione del nuovo incarico allargherebbe ancora di più il vuoto apertosi tra i vertici della pubblica sicurezza da marzo scorso, mese in cui è andato via il prefetto Carlo Schilardi diventato giudice del Consiglio di stato. Il vuoto è determinato dal fatto che l'attività – pur proseguendo con funzioni vicarie da parte dei «vice» in servizio – soffre l'assenza di pianificazione. Nel caso della Prefettura, ad esempio, la reggenza della dott.ssa Antonella Bellomo, serve a garantire la quotidianità, ovvero l'attività ordinaria: ma una sede di «prima classe» come è considerata quella di Bari, non può continuare a restare senza prefetto per la semplice ragione che si tratta di una figura di coordinamento su tutta la Puglia in materia di lotta alla criminalità organizzata: non a caso, il prefetto di Bari è detto anche «Superprefetto».

«INCIDENTE DIPLOMATICO - Ma anche sulla nomina del nuovo prefetto vi sarebbe un ostacolo non di poco conto: il ministro per gli Affari regionali, Raffaele Fitto, non avrebbe firmato il nulla osta che - in base alla legge La Loggia - è obbligatorio ma non vincolante per i prefetti capoluoghi di regione. A Bari il nome del prefetto sembrava cosa fatta ma un «incidente diplomatico » sembra aver provocato un freno alla procedura di nomina. I fatti risalgono a un mese e mezzo fa quando Mantovano, nel corso di un vertice a Bari - pressato per l’assenza del prefetto - dopo un consulto con il ministro Roberto Maroni, assicurò che il nome del nuovo prefetto era stato già designato: cioè Antonio Nunziante. Sta di fatto che in quella circostanza, Mantovano sarebbe andato oltre ufficializzando il nome del nuovo prefetto. Circostanza che non sarebbe stata ben vista dal ministro Fitto. Cosa sia accaduto non si sa, l’unica certezza è che Bari resta ancora senza prefetto e un provvedimento che meritava un iter autonomo - vista l’importanza della città di Bari - è finita nella routine insieme a tutte le altre nomine. Oltre a Nunziante (attuale prefetto di Foggia), il cui nome sembra per ora accantonato, l’altro papabile è Mario Tafaro, prefetto di Lecce. Si tratta di persone che godono della fiducia della politica ma che devono fare i conti con un vero e proprio risiko fatto di nomi e di caselle che si liberano e si riempiono. Non è un caso che il provvedimento dei «movimenti» dei prefetti (e dei questori) sia stato più volte portato all'ordine del giorno del consiglio dei ministri, ma senza risultato, visto che la decisione è stata puntualmente rinviata.

I POSTI VUOTI A ROMA - Il vero nodo sono le promozioni e, al tempo stesso, le «sedi» da assegnare anche perché, per quanto riguarda i prefetti ad esempio, ci sarebbero numerosi posti liberi all'interno del Ministero a causa del pensionamento di alcuni alti dirigenti. In tale contesto potrebbe rientrare la promozione e il conseguente trasferimento di Manari la cui posizione - in tale grande giro di boa di incarichi - potrebbe risolvere, chissà, anche eventuali (ma non certe) beghe politiche sull'individuazione del candidato prescelto alla guida del palazzo del Governo. Con la partenza del questore, però, il problema comincerà ad essere maggiormente sentito, suscitando non poche polemiche. Sulla questione prefetto, ricordiamo, in più occasioni è già intervenuto anche il sindaco Michele Emiliano stigmatizzando la mancata nomina del successore di Schilardi. [n. p.]

lunedì 30 maggio 2011

Genova, massacrano un disoccupato: arrestati

Quattro minorenni sudamericani sono stati arrestati dalla polizia a Genova con l'accusa di aver ridotto in fin di vita un disoccupato italiano che si era fermato a riposare su una panchina, a cinghiate. L'aggressione è avvenuta domenica sera nel centro del capoluogo ligure, ai giardini Cavaglia, a pochi metri dalla stazione ferroviaria di Brignole. La vittima, un 40enne, è stata ripetutamente colpita alla testa e ha riportato un gravissimo ematoma cerebrale.


Forse per gioco o per uno sgarbo, una parola di troppo. Sarebbe questa la ragione per la quale i quattro minorenni avrebbero aggredito l'ex barista.

La vittima, che è stata ripetutamente colpita alla testa, è stata soccorsa e portata all'ospedale Galliera, dove è attualmente ricoverata nel reparto di rianimazione.

La polizia ha individuato e fermato in breve tempo gli aggressori, di età compresa tra i sedici e i diciassette anni. L'accusa loro contestata è tentativo di omicidio.

L'episodio segue di poche ore un'altra analoga aggressione avvenuta sabato sera, sempre da parte di ragazzi sudamericani (questa volta cinque), e sempre a cinghiate, ai danni di un giovane di 24 anni su un autobus pubblico. Gli agenti non escludo la pista del rito di iniziazione.

Uno degli arrestati: "Non ero con gli aggressori"
"Stavo andando alla fermata a prendere l'autobus con un mio amico quando ho visto due gruppi che si sfidavano. Erano 20 sudamericani e 10 rumeni. A un certo punto mi sono ritrovato lì in mezzo. Ma io non c'entro nulla con quello che è successo". E' quanto ha riferito al suo difensore, l'avvocato Igor Dante, uno dei ragazzini arrestati dopo l'aggressione all'ex barista, preso a sprangate e cinghiate ai giardini di Brignole. "Ho cercato di scappare, mi sono preso delle bottigliate in testa. ma io non ero lì con quel gruppo. Ero per i fatti miei con il mio amico". Il ragazzo, secondo quanto sostiene il suo legale, non apparterrebbe ad alcuna banda di latinos. Studia in un istituto tecnico, il padre è un pensionato italiano. Nei prossimi giorni il Tribunale dei minori, che si occupa delle indagini, fisserà l'udienza di convalida dell'arresto dei quattro presunti aggressori.

Cecchina, due morti e due feriti in scontro tra bande per mercato droga

ROMA - Non sarebbe uno scontro a fuoco tra gruppi rivali, ma un vero e proprio raid da parte di un gruppo di fuoco, la sparatoria che ieri sera intorno alle 22,30 ha causato due morti e due feriti gravi in un'abitazione di via Colle Nasone a Cecchina. All'origine dell'episodio un regolamento di conti per una partita di droga.

Le vittime sono un pregiudicato italiano di 41 anni, Fabio Giorgi, di Marino ma residente ad Ardea, e un marocchino di 34 anni, Rabii Baridi. Feriti gravemente il proprietario dell'abitazione, un 39enne e un romano residente a Guidonia di 37 anni. Secondo i carabinieri i quattro avevano appuntamento con due o tre persone, che avrebbero investito i rivali con una gragnuola di colpi d'arma da fuoco.

Dei feriti, uno è stato colpito all'addome e trasportato al San Giuseppe di Albano dove è ricorverato in prognosi riservata; l'altro, colpito al collo e all'addome, è al San Camillo di Roma, dove è in prognosi riservata ma non in pericolo di vita.

Palermo, arrestato un imprenditore: "è prestanome dei boss"

Andrea Impastato, 62 anni, di Cinisi, già indagato per concorso esterno in associazione mafiosa, è accusato di aver gestito affari e aziende nell'interessi dei vertici di Cosa Nostra


PALERMO. Avrebbe imposto per la costruzione del passante ferroviario e per il rifacimento del porto di Balestrate di acquistare il calcestruzzo dalla sue società. Affari gestiti per conto dei boss Bernardo Provenzano e Salvatore Lo Piccolo. Con l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa la Dia ha arrestato Andrea Impastato, 63 anni, già sorvegliato speciale. L'ordine di custodia cautelare é stato firmato dal gip del tribunale di Palermo, Riccardo Ricciardi.

Nel covo di Provenzano dopo il suo arresto fu trovato un 'pizzino' datato 25 febbraio 2006, che sarebbe stato scritto da Lo Piccolo che era in quel periodo latitante. Il boss del quartiere San Lorenzo informava il capomafia di Corleone dell'imminente partenza dei lavori per la realizzazione della metropolitana, invitandolo a fornire il nome di qualche imprenditore di sua conoscenza nella produzione e nella fornitura del calcestruzzo che sarebbe stato inserito nel consorzio che stava creando proprio con Impastato: ".

Lo informo, che siccome in breve (forse in aprile) dovrebbe iniziare la metropolitana che è un grosso lavoro e quindi le volevo chiedere che se le interessa qualche calcestruzzi di fare lavorare me lo faccia sapere che la inserisco nel consorziato che sto facendo con Andrea Impastato. In merito attendo sue notizie." Le intercettazioni sia telefoniche che ambientali confermarono successivamente la diretta partecipazione delle imprese riconducibili a Impastato nei lavori del passante ferroviario attraverso la fornitura del calcestruzzo nei diversi cantieri, che nel frattempo erano stati aperti lungo la tratta compresa tra Carini ed il quartiere di Brancaccio. Nella stessa inchiesta è stato indagato Domenico D'Amico, 61 anni, gia condannato per mafia, con l'accusa di trasferimento di quote delle sue società ad alcuni suoi familiari incensurati, per evitarne il sequestro

Frascineto, due persone ferite in agguato nella notte.

 Due fermiDue le persone ferite nell'agguato avvenuto a Frascineto per il quale sono state fermate due persone
 
Sarebbero due le persone sono rimaste ferite, una in modo grave, in un agguato compiuto la notte scorsa a Frascineto, nel cosentino. I carabinieri di Castrovillari hanno già fermato due persone ritenute responsabili dell’agguato. A rimanere feriti sono stati Gaetano Greco, di 41 anni, di Morano Calabro, pregiudicato, già avvisato orale di ps, e Alfred Shkoza, di 20, albanese.


I due erano a bordo dell’auto di Greco, una Seat Arosa, quando sono stati raggiunti dai proiettili. Soccorsi dal 118, i due sono stati portati nell’ospedale di Castrovillari.

Greco è in prognosi riservata per una ferita alla cosca destra ed una all’addome, ma non sarebbe in pericolo di vita. L’altro ha riportato un’escoriazione alla tempia dovuta ad un colpo di striscio. Il ferimento, secondo quanto emerso dalle indagini dei carabinieri non è da ricondurre alla criminalità organizzata.

Napoli, blitz contro il clan Di Lauro 10 arresti, anche per aiuti al boss latitante


NAPOLI - Dieci provvedimenti di fermo a carico di altrettanti esponenti di spicco del clan Di Lauro sono stati eseguiti da carabinieri del Nucleo Investigativo e del Ros di Napoli.


Il decreto, emesso dalla Direzione Distrettuale Antimafia partenopea, formula a vario titolo accuse di associazione per delinquere di tipo mafioso e di traffico, detenzione e spaccio di stupefacenti. I fermati sono alcuni tra gli affiliati di maggiore spessore del clan incaricati della gestione delle attività illecite, nonchè favoreggiatori della latitanza di Marco Di Lauro, il capo clan, tra i 30 ricercati piùpericolosi d'Italia.

Avetrana, scarcerato Michele Michele Sabrina e Cosima in silenzio dal gip

Tornerà libero già stasera I legali della zia di Sarah:
ricorreremo al Riesame
Il Gip del tribunale di Taranto, Martino Rosari, accogliendo la richiesta del difensore di Michele Misseri, Francesco De Cristofaro, ha scarcerato il contadino di Avetrana, che potrà uscire dal carcere già in serata. Il legale di Misseri questa mattina aveva presentato istanza di scarcerazione per la decorrenza dei termini della custodia cautelare. Misseri era in carcere dal 6 ottobre scorso, quando confessò il delitto e fece ritrovare il corpo della nipote, Sarah Scazzi. Dopo avere più volte cambiato versione, fino a quella dagli inquirenti considerata veridica secondo la quale l'omicidio sarebbe stato compiuto dalla figlia Sabrina, alla quale in concorso, secondo le ultime svolte dell'indagine, si sarebbe aggiunta la moglie Cosima, ora Michele Misseri è accusato solo della soppressione del cadavere della 15enne.

Nuovi interrogatori oggi in carcere. Cosima e Sabrina si sono avvalse della facoltà di non rispondere all’udienza di convalida del provvedimento cautelare eseguito nei giorni scorsi per la morte di Sarah Scazzi. Da quanto si è appreso, le due donne hanno seguito la strategia difensiva suggerita dai rispettivi legali difensori. «La scelta di avvalersi della facoltà di non rispondere - hanno spiegato i legali - è condivisa da noi difensori. Abbiamo ritenuto di suggerire questa scelta perchè consona alla fase processuale. Abbiamo avuto modo di approfondire gli elementi a carico di Cosima, ma siamo dell’idea che in questo momento non era opportuno rendere l’interrogatorio». Quanto al ricorso al Riesame, «ci mancano - hanno proseguito i legali - alcuni tasselli del fascicolo per questione di tempo. Ci sono molti punti che devono essere chiariti, lo faremo nella sede opportuna. Riteniamo - ha aggiunto De Jaco - abbastanza risibile l’ordinanza di custodia cautelare, anche se sarà oggetto di approfondimento». I due legali hanno riferito che Cosima «è tranquilla, come lo può essere una persona detenuta. Tranquilla, fiduciosa perchè conosce bene i fatti e non ha preoccupazioni particolari, anche se il carcere non è bello per nessuno».

All’udienza era presente, oltre al gip di Taranto, Martino Rosati, il procuratore aggiunto, Pietro Argentino, il pubblico ministero Mariano Buccoliero e il capo della Procura, Franco Sebastio. Cosima Serrano è indagata per concorso in omicidio volontario, sequestro di persona e soppressione di cadavere, ma il giudice per le indagini preliminari Rosati non ha emesso ordinanza di custodia cautelare nei confronti della donna per il sequestro di persona, ritenendo non sufficienti gli indizi sinora raccolti nel corso dell'inchiesta.

Sabrina, oltre all'accusa di omicidio e al sequestro di persona, risponde anche in concorso con la madre dell'occultamento del cadavere della cugina quindicenne. Secondo il magistrato, infatti, Cosima e Sabrina la mattina del 27 agosto si sarebbero recate in contrada Mosca per gettare il corpo di Sarah nella cisterna dove fu ritrovato quaranta giorni dopo grazie alle indicazioni fornite da Michele Misseri ai carabinieri. Nell'ordinanza si parla anche dello stesso Michele a cui, in questo caso, viene contestato unicamente l'occultamento di cadavere su ordine, una ipotesi di reato che sarebbe legata a quanto accaduto il pomeriggio del 26 agosto.

Palermo, negati lavoro e pensione alla figlia di Giaccone

Camilla, 52 anni, figlia del professore ucciso dalla mafia l'11 agosto 1982 per essersi rifiutato di "aggiustare" una perizia che incastrava un killer, si è vista sospendere il vitalizio dopo un anno e Villa Sofia ha risposto che non era più possibile riassegnarle il suo vecchio posto

PALERMO. Camilla Giaccone, 52 anni, figlia del professor Paolo Giaccone - medico legale del Policlinico di Palermo, ucciso dalla mafia l'11 agosto '82 perche' si era rifiutato di "aggiustare" una perizia che incastrava i killer di una strage con 4 morti avvenuta l'anno prima a Bagheria (PA) - è rimasta senza lavoro e senza pensione. La paradossale vicenda - raccontata dal Giornale di Sicilia - comincia dalla decisione della donna, medico all'ospedale Villa Sofia di Palermo, di chiedere la pensione anticipata che la legge le garantisce in quanto figlia di una vittima di mafia. L'Inpdap accetta la richiesta ma poi ci ripensa e sospende il vitalizio e così la donna, madre di due figli, è senza pensione e senza lavoro.

La Giaccone era stata consigliata dallo stesso ospedale a far richiesta di pensione anticipata: "La prospettiva non mi entusiasmava - dice - perché il mio lavoro mi piace. Ma nel maggio 2010 ho comunque preso questa decisione". L'Inpdap le concede la pensione a partire dall'aprile di quest'anno, ma il mese successivo cambia idea: una modifica alla normativa, apportata con la Finanziaria 2008, prevede, sì, che a usufruire del beneficio siano i parenti delle vittime di mafia e terrorismo, ma qualora i loro congiunti siano stati uccisi in stragi. Paolo Giaccone è stato "soltanto" freddato nei viali del Policlinico di Palermo dal suo killer. Dopo la paradossale retromarcia dell'Inpdap, la donna chiede di tornare al lavoro, ma la direzione di Villa Sofia le spiega che al suo posto è stato assunto un altro medico. "Si stanno valutando giuridicamente - dice la direzione del nosocomio - la possibilità e le modalità di un suo eventuale ritorno al lavoro. Nessuno ha negato la possibilità di un reintegro". "Non voglio nulla che non mi spetti - spiega la Giaccone - e sono pronta a tornare al lavoro già domattina".

Villa Sofia, pronti a reintegrare la figlia di Giaccone

PALERMO. "L'azienda ospedaliera Villa Sofia-Cervello farà tutto ciò che è consentito e previsto dalle norme giuridico-amministrative per risolvere positivamente la vicenda della dottoressa Camilla Giaccone e favorire il suo reintegro nella direzione sanitaria di Villa Sofia". Lo dice Salvatore Di Rosa, direttore generale dell'ospedale.

Camilla Giaccone, 52 anni, figlia del professor Paolo Giaccone - medico legale del Policlinico di Palermo, ucciso dalla mafia l'11 agosto 1982 - è andata in pensione usufruendo dello "scivolo" previsto dalla legge per i familiari delle vittime di mafia. Ma l'Inpdap dopo aver accettato la richiesta, ha sospeso il vitalizio e così la donna è rimasta senza pensione e senza lavoro.

"L'azienda non ha mai invogliato - continua Di Rosa – né esortato in alcun modo Camilla Giaccone ad andare in pensione e ad oggi nessuno ricopre il suo posto. La sera stessa in cui sono venuto a conoscenza della vicenda ho subito chiamato la dottoressa per esprimerle la mia personale solidarietà e la disponibilità dell'azienda a riassumerla".

Cetrioli killer Sequestrati dai Nas 7q

Dopo l'allarme partito dalla Germania, i carabinieri dei Nas hanno sequestrato a scopo preventivo 7 quintali di cetrioli. Sugli ortaggi, ha spiegato il ministro della Salute Ferruccio Fazio "saranno effettuati degli esami per vedere se ci sia il batterio Escherichia coli O 104: H4 e poi, entro 24-36 ore, il sequestro verrà rilasciato". Per evitare il pericolo di infezione Fazio ha poi spiegato come bastino poche norme igieniche: lavare molto bene le verdure, gli utensili utilizzati in cucina, lavarsi bene le mani ed evitare il contatto di prodotti già lavati con quelli da lavare.


In merito all`infezione da cetrioli contaminati, che ha causato la morte di alcuni cittadini tedeschi e coinvolto altre centinaia persone in Germania e che ha colpito anche Danimarca (4 vittime) Regno Unito (3), Svezia (10) e Olanda (1), Fazio in una nota ha anche spiegato che l'Italia è "in contatto con la Commissione europea attraverso il Sistema di allerta rapido: l'ipotesi più accreditata è che la causa sia da ascriversi al consumo di cetrioli provenienti dalla Spagna, in cui sarebbe stato riscontrato l'Escherichia coli O 104: H4".

"I casi segnalati in altri Paesi comunitari - ha detto Fazio - riguardano viaggiatori che si erano recati in Germania nelle ultime settimane. Per quanto riguarda il nostro Paese, ho interessato l'Istituto superiore di sanità che riceve dal Ssn tutte le segnalazioni di Sindrome emorragica uremica (SEU) e il Nas per individuare eventuali arrivi dalla Spagna di cetrioli contaminati".

sabato 28 maggio 2011

Estorsione a ex dipendente, 5 arresti a Catania

Si sarebbero avvalsi della "collaborazione" di tre presunti esponenti del clan Santapaola


CATANIA. Per recuperare un credito con un loro ex impiegato si sono avvalsi della 'collaborazione' di tre presunti esponenti del clan Santapaola. E' l'accusa contestata a due imprenditori, i fratelli Alfio e Carmelo, di 47 e 52 anni, che sono stati arrestati per tentativo di estorsione da agenti della squadra mobile della Questura di Catania. In carcere, in esecuzione di un ordine di carcerazione emesso dal Gip, sono stati condotti anche i tre aggressori: Rosario Bucalo di 36, Cesare Marletta, di 38, e Natale Racchia, di 37. Questi ultimi tre erano stati già al centro di indagini della Squadra Mobile della Questura, nell'ambito dell'operazione Revenge, perché, in quell'occasione, in qualità di emissari del boss catanese di cosa nostra Vincenzo Aiello sarebbero intervenuti in favore di un imprenditore della distribuzione all'ingrosso di carni che era entrato in contrasto con i vertici del clan Cappello per la gestione di alcune macellerie all'interno di supermercati a Catania.

Incidente nel Ragusano, muore un diciassettenne

Il ragazzo, che avrebbe compiuto 18 anni mercoledì prossimo, stava recandosi a una festa di compleanno nei pressi di Chiaramonte Gulfi


RAGUSA. Incidente mortale ieri notte a Chiaramonte Gulfi (Ragusa), dove un 17enne Sebastiano Scifo, alla guida del suo scooter, si è schiantato contro un'auto nei pressi dell'incrocio con la strada provinciale per Comiso. Il ragazzo, che avrebbe compiuto 18 anni mercoledì prossimo, stava recandosi a una festa di compleanno. L'impatto con l'auto è stato violento. Da subito le condizioni di Scifo sono apparse drammatiche. Sul posto è intervenuto il 118 che ha provveduto all'immediato trasporto del ferito all'ospedale Guzzardi di Vittoria. Per i medici è stata una lotta contro il tempo per tentare di strappare alla morte il giovane, deceduto stamani all'alba per le gravi ferite riportate.

Mafia, Graviano ha scontato la pena: torna libero

Il fratello maggiore dei boss all'ergastolo del quartiere Brancaccio, Giuseppe e Filippo, accusati anche di essere i mandanti del delitto di padre Pino Puglisi, da alcuni giorni è sottoposto soltanto alla misura della libertà vigilata

PALERMO. Ha scontato la pena alla quale era stato condannato per mafia ed ora è ritornato in libertà Benedetto Graviano, fratello maggiore dei boss all'ergastolo del quartiere Brancaccio, Giuseppe e Filippo, accusati anche di essere i mandanti del delitto di padre Pino Puglisi. Da alcuni giorni è sottoposto soltanto alla misura della libertà vigilata. Secondo il pentito Salvatore Cancemi sarebbe stato designato agli inizi degli anni '80 da Toto' Riina al vertice del mandamento. Poi sarebbe stato sostituito dai fratelli. Benedetto Graviano attende ancora la sentenza per un processo in cui è imputato per estorsione aggravata e favoreggiamento a cosa nostra. In passato era stato prosciolto dall'accusa di riciclaggio. Al cronista del Giornale di Sicilia che lo ha incontrato in tribunale dove avrebbe dovuto deporre in un processo ha detto "Ho sofferto tanto, ora voglio essere dimenticato".

Mannino fa causa allo Stato per "ingiustizia detenzione"

L'ex ministro ha presentato domanda per i 23 mesi fra carcere e arresti, ma senza quantificare il danno. L'attuale deputato alla Camera, in passato accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, si è rivolto alla corte d'Appello di Palermo


PALERMO. Fa causa allo Stato, presentando la domanda di "riparazione per l'ingiusta detenzione patita", 23 mesi fra carcere e arresti domiciliari, ma senza quantificare il danno che ritiene di avere subito. Con questa richiesta l'ex ministro Calogero Mannino attualmente deputato alla Camera, fondatore del movimento di Iniziativa Popolare, si è rivolto alla quinta sezione della Corte d'appello di Palermo. L'udienza é stata fissata per il mese prossimo. Mannino, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, è stato tenuto in stato di custodia cautelare, tra carcere e domiciliari, dal 13 febbraio 1995 fino al 3 gennaio 1997. La lunga odissea durata 17 anni si concluse il 14 gennaio 2010 con la sua assoluzione. La quarta sezione penale della Corte di cassazione giudicò inammissibile il ricorso della procura generale di Palermo contro la sentenza d'appello che il 22 ottobre 2008 lo aveva assolto. "L'errore giudiziario da lui subito - dice il suo legale Salvo Riela al Giornale di Sicilia - é stato molto grave dal punto di vista sia umano che processuale".

L'indagine su Mannino cominciò nel '93, poco dopo l'arrivo di Giancarlo Caselli alla procura di Palermo. Il 24 febbraio '94 gli fu notificato un avviso di garanzia. Poi l'arresto nel febbraio '95. Mannino rimase nel carcere di Rebibbia fino al 15 novembre, quando venne scarcerato perche' malato e dimagrito - aveva perso 33 chili - e posto ai domiciliari fino al 3 gennaio '97. Il processo di primo grado duro' sei anni - 300 le udienze, 25 i pentiti e 400 i testimoni citati (dei quali 250 dall'accusa) e il 5 luglio 2001 portò all'assoluzione di Mannino. In appello, nel maggio 2004, fu condannato a 5 anni e 4 mesi. Nel 2005 la Cassazione dispose un nuovo processo che portò alla sua assoluzione.

"Crimine 2", latitante arrestato tradito dalla passione per la moto

Donato Fratto è ritenuto dagli investigatori un esponente di primo piano della 'ndrangheta attiva in Germania

E' stato arrestato al porto di Genova, mentre tentava di imbarcarsi assieme alla moglie per la Sardegna. Donato Fratto (nella foto) residente in Svizzera, considerato esponente di primo piano della 'ndrangheta calabrese, legato ai clan attivi anche in Germania, ricercato dall’8 marzo scorso nell’ambito dell’operazione «Il crimine 2», coordinata dalle Dda di Reggio Calabria e Milano. Fratto è stato tradito dalla sua stessa passione, quella per le moto.

I carabinieri, infatti, dopo aver scoperto che a maggio era in programma in Sardegna un importante motoraduno hanno attivato una serie di indagini che hanno consentito di sorprendere Fratto a Genova, mentre con la consorte, a bordo di una Honda «Goldwind» stava per imbarcarsi su una nave diretta in Sardegna. È stato proprio conoscendo la passione di Fratto per le motociclette che i carabinieri sono giunti alla cattura del latitante. I militari, infatti, da tempo avevano cominciato a controllare alcuni siti specialistici ed hanno avuto notizia del motoraduno che si sarebbe svolto nel mese di maggio in Sardegna scoprendo che Fratto aveva inviato, utilizzando un sito, la sua iscrizione.

È stato organizzato così un servizio di appostamento nel porto di Genova, insieme ai carabinieri del capoluogo ligure, sorprendendo il latitante nel momento in cui è giunto nel porto a bordo della sua Honda Goldwind.

Fratto era ricercato con l’accusa di associazione per delinquere di tipo mafioso. Il latitante, secondo quanto riferito dai carabinieri, è stato più volte intercettato mentre parlava con il boss Bruno Nesci, massimo rappresentante delle cosche in Germania, del rinnovo della cariche di vertice all’interno delle cosche reggine. L'operazione "Crimine 2" nell’ambito della quale era ricercato Fratto ha rappresentato il seguito della Crimine che nel luglio dello scorso anno ha portato all’arresto di 304 persone svelando gli interessi della 'ndrangheta nel nord Italia, ed in particolare in Lombardia, ed anche in alcuni Paesi del nord Europea.

Fratto, inoltre, preannunciava la visita di affiliati alla 'ndrangheta nel «locale» di Frauenfeld, in Germania, acquisendo anche informazioni sul numero di affiliati presenti nel locale di Singen. Fratto, secondo gli investigatori, avrebbe svolto anche un ruolo per dirimere i contrasti tra gli affiliati alla 'ndrangheta appartenenti ai «locali» della Svizzera e della Germania.

Scalata Antonveneta: 4 anni a Fazio 3 per Consorte, 20 mesi a Fiorani

Due anni e 8 mesi al senatore Luigi Grillo. Confiscati a Unipol 39,6 milioni. Assolto ex capo Vigilanza Bankitalia

ROMA - I giudici della seconda sezione penale del tribunale di Milano, presieduta da Gabriella Manfrin, hanno emesso la sentenza per la tentata scalata ad Antonveneta da parte di Bpi: l'ex governatore della Banca d'Italia Antonio Fazio è stato condannato a 4 anni di reclusione, più di quanto chiesto dall'accusa (3 anni). Fazio è stato inoltre condannato a un milione e mezzo di multa e all'interdizione dai pubblici uffici per 5 anni. L'ex ad della banca lodigiana Gianpiero Fiorani è invece stato condannato a un anno e 8 mesi. Tre anni di reclusione per l'ex presidente di Unipol Giovanni Consorte, due anni e 8 mesi al senatore del Pdl Luigi Grillo.


I giudici hanno condannato Unipol a una sanzione di 900 mila euro e hanno disposto la confisca di 39, 6 milioni di euro. La società è imputata in qualità di persona giuridica.

Assolto Frasca. Diciassette gli imputati, accusati a vario titolo di aggiotaggio, ostacolo all'attività degli organi di vigilanza e appropriazione indebita. Tra loro anche l'allora capo della vigilanza di via Nazionale, Francesco Frasca, che è stato invece assolto per non aver commesso il fatto, Ivano Sacchetti, il consulente finanziario Bruno Bertagnoli, l'immobiliarista Luigi Zunino e l'ex calciatore Gianpiero Marini.

Fazio: sentenza ingiusta, va rivista. «Sono sicuro di avere sempre operato per il bene e sono convinto che questa sentenza vada riformata» ha detto Antonio Fazio per telefono ad uno dei suoi legali, Roberto Borgogno, il quale dice che l'ex governatore vive questa sentenza come «una grande ingiustizia». Borgogno, che assiste anche Francesco Frasca, dice: «Alla soddisfazione per l'assoluzione di Frasca si accoppia l'amarezza per la costatazione che giustizia è stata fatta solo a metà. Il processo non offre elementi per distinguere le due posizioni, quella di Fazio e dell'ex capo della vigilanza. A nostro avviso è una sentenza che sconcerta nel merito e nella dimensione e che va rivista. Riteniamo che la pena più grave per Fazio si giustifichi per la sua posizione istituzionale. Credo, inoltre, abbiano ritenuto attendibili le dichiarazioni del dottor Fiorani rese in questo processo e che per noi sono inattendibili». Fiorani, durante il suo interrogatorio in aula, aveva infatti puntato il dito contro l'allora amico e numero uno di via Nazionale Antonio Fazio.

Sei anni fa la Bpi guidata da Fiorani tentò di scalare Antonveneta cercando di scipparla agli olandesi di Abn-Amro, come era nei piani dell'ex governatore di Bankitalia Antonio Fazio. Secondo i pm Eugenio Fusco e Gaetano Ruta, il progetto di conquistare l'istituto di credito padovano, «non interessava solo Fiorani, ma rientrava in una logica del riassetto del sistema bancario italiano secondo il dirigismo di Fazio, in spregio a tutte le regole del Testo Unico della Finanza, del Codice Civile e del Codice Penale». In sostanza, secondo l'accusa, Fiorani non avrebbe potuto scalare Antonveneta se non ci fosse stata la «centralità di Fazio»: per gli inquirenti ci fu non solo un patto occulto tra soci per rastrellare le azioni della banca veneta (furono anche finanziati con i soldi dell'ex Bpl), ma anche il ruolo fondamentale di Fazio che diede la corsia preferenziale all'allora amico Fiorani per ottenere l'autorizzazione all'Opa. Inoltre, i pm hanno sostenuto che l'ex banchiere di Lodi non aveva i soldi per portare a termine l'operazione, «quindi li doveva trovare tramite la politica, le relazioni», facendo riferimento ai contributi dati da Fiorani al senatore Grillo, all'ex ministro Aldo Brancher (condannato separatamente a 2 anni anche in appello) a Marcello Dell'Utri e all'attività di lobbing che ha caratterizzato il tentativo di scalata e della quale era stato avvertito anche il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.

I due pm avevano chiesto di condannare Fazio a 3 anni di carcere e a 100 mila euro di multa, Consorte e Sacchetti a tre anni di reclusione e un milione di multa, Fiorani a un anno e 3 mesi (in continuazione con i 3 anni e 3 mesi che ha già patteggiato nell'ambito della stessa inchiesta ma per il reato di appropriazione indebita), Grillo a 2 anni e un mese e 61 mila euro di multa, Frasca a un anno e mezzo e 50 mila euro di multa e Unipol a una sanzione di 1,2 milioni e alla confisca di 39,6 milioni di euro. La pena più alta richiesta è stata quella per Francesco Ghioldi, considerato il fiduciario di una serie di società e di conti occulti su cui venivano fatti confluire i proventi delle appropriazioni indebite: sei anni di carcere e una multa di 12mila euro.

Sepe: «Non consentiremo alla camorra di mettere le mani sui nostri giovani»

A Napoli il Giubileo del lavoro: patto tra sindacato e Chiesa

«La malavita è l'unica azienda che non chiude mai i battenti»

NAPOLI - Un patto per il lavoro è stato sottoscritto oggi a Napoli dall'arcivescovo della città Crescenzio Sepe, dai rappresentanti sindacali e da quelli degli imprenditori per il rilancio dell'occupazione a Napoli. Si prevede la realizzazione di una cittadella per l'artigianato che servirà a dare una nuova occasione di lavoro ai giovani. «Contro questo male, quello della disoccupazione - ha spiegato il cardinale Sepe - vogliamo dare un segnale concreto, non a parole ma con fatti».


Camorra e giovani. «Vogliamo gridare, con tutta la forza che abbiamo, che non consentiremo mai alla camorra di mettere le mani su uno dei nostri giovani o dei nostri padri di famiglia. Siamo su fronti distinti e distanti da chi ha scelto la strada della violenza e della morte» ha detto l'arcivescovo Napoli nel corso della cerimonia di sottoscrizione del patto per il Giubileo del Lavoro. Sepe ha ribadito l'impegno della chiesa napoletana «per realizzare il bene comune, per costruire una società più sana, fondata sulla giustizia e sul lavoro. Vogliamo passare dalle buone intenzioni ai fatti».

Stanchi di aspettare. «I napoletani, come tutti i campani, sono stanchi di aspettare opportunità occupazionali che non arrivano» ha detto il cardinale. Il presule ha anche avvertito che i campani «si vedono offesi dall'infame comportamento di un manipolo di violenti e di malfattori, da una malavita sempre più accattivante, insidiosa e cinica». Per l'arcivescovo di Napoli purtroppo l'unica azienda che nel territorio partenopeo non chiude mai i battenti è l'azienda della malavita che «mostra con orgoglio i suoi fatturati per chiamare a raccolta le nuove leve». Sepe ha invitato politici e imprenditori, lavoratori e società civile, istituzioni e gente comune a uno sforzo corale perchè «questa azienda deve essere chiusa per sempre perchè produce solo morte e violenza».

Napoli, il bar Guida distrutto per la guerra dei clan sulla movida

NAPOLI - Un complicato incastro di quote societarie, utili, tessere imprenditoriali. C’è soprattutto questo scenario dietro la bomba lanciata la notte tra mercoledì e giovedì invia dei Mille contro il bar Guida.

Un locale distrutto, danni per centomila euro, ma se vai a scavare gli interessi in campo sono molto più sostanziosi, quanto basta a spingere qualcuno a usare le maniere forti. Non stanno a guardare in Procura, tanto da affidare il caso dell’incendio nel bar Guida alla Dda, al pool anticamorra quanto mai attento su ciò che sta avvenendo nelle zone più esclusive della città.

A Chiaia, in poche centinaia di metri quadrati, c’è uno scontro tra blocchi di potere economico. E, accanto o contro imprenditori puliti, si muovono riciclatori e gente in odore di camorra. Un solo obiettivo: conquistare un posto al sole, nel domino di locali, pub, ristoranti, pizzerie e discoteche che accolgono la dolce vita napoletana. Interessi opachi, per il momento ci sono solo i nomi delle due vittime: si chiamano Rosario De Stefano e Giuseppe Pizzicato, due imprenditori che avevano rilevato appena tre mesi fa lo storico bar di via dei Mille. Ci avevano investito soldi, erano pronti a riaprire una delle mete storiche del circuito cittadino: il bar Guida era costato trecentomila euro, oltre una serie di oneri esattoriali da fronteggiare frutto della precedente gestione. Entrambi hanno smentito fin dalle prime battute investigative di aver subito in passato richieste estorsive e non hanno saputo dare alcuna traccia su possibili moventi criminali.

Eppure, sono stati colpiti appena pochi giorni prima della riapertura del locale in modo fin troppo plateale. Qual è l’obiettivo? Un messaggio, un avvertimento, magari in vista di ben altri investimenti familiari più o meno nella stessa zona cittadina: un raid per frenare (legittime) aspirazioni imprenditoriali che rischiano di turbare strategie di espansione di altri blocchi societari. Un’azione dimostrativa, come a dire: fatevi da parte, ora è troppo, nella zona ci sono altri investimenti da mettere in cantiere. Una sorta di azione preventiva per assicurarsi il controllo degli affari che contano nella zona più ambita della metropoli napoletana.

Inchiesta condotta dalla Mobile del primo dirigente Vittorio Pisani e dal vicequestore Fulvio Filocamo. Racket, vendetta o una sorta di assicurazione per il futuro, si muove la Dda del procuratore aggiunto Sandro Pennasilico. Chiaia, la Torretta, ma anche i vicoli dei Quartieri Spagnoli sono da tempo «attenzionati» dai pm Sergio Amato e Michele Del Prete, cui spetta ora la gestione delle indagini. Inevitabili a questo punto accertamenti su equilibri e rapporti di forza in seno allo scacchiere criminale cittadino: ci sono personaggi di recente tornati in circolazione nella zona di Montecalvario, ma anche alleanze fluide, che si organizzano proprio attorno al tavolo degli affari. Strani movimenti anche alla Torretta, dove da tempo sono tornati a piede libero boss e capicosca locali. C’è un salto di qualità nella strategia del crimine? C’è un asse tra clan differenti per inserirsi in zona «in» della città. Sul territorio, gli inquirenti fanno la conta dei nomi. Gente unita da una sola esigenza: riciclare soldi sporchi, lavare i proventi di droga, estorsioni, videopoker. In una parola: creare attività apparentemente estranee al crimine, per consolidare potere economico e radicamento territoriale.

Indagine alle prime battute, per il momento nel taccuino degli investigatori non c’è molto. Si attendono i referti dei vigili del fuoco, anche perché manca per il momento l’ufficialità della matrice dolosa del rogo. Un boato intorno all’una e trenta, poi fiamme e paura. Macerie dappertutto, zona da bonificare, al momento si fa fatica anche a capire cosa abbia provocato l’esplosione. Due giorni dopo l’esplosione, area transennata, c’è ancora puzza di bruciato: chi voleva lanciare un messaggio o un avvertimento ha ottenuto, almeno finora, gli effetti sperati.

Leandro Del Gaudio

Scarcerato il sindaco di Montesarchio

Fuochi d'artificio in paese Era accusato di collusione con i clan

BENEVENTO - Il sindaco di Montesarchio (Benevento), Antonio Izzo, torna in libertà. Il primo cittadino era stato arrestato, insieme ad altre 19 persone, lo scorso 12 maggio nell'ambito dell'inchiesta della Direzione Distrettuale Antimafia sulle elezioni comunali del 2003 nella cittadina caudina.


Izzo, noto imprenditore, è tornato in libertà su decisione del Gip del Tribunale di Napoli.

Prima di lui, nei giorni scorsi, altre sette persone erano state scarcerate. Al rientro nella sua cittadina Izzo è stato accolto da una folla di parenti ed amici e da qualche botto per festeggiare il suo ritorno a casa.

Eletto per la prima volta nel 2003, era stato riconfermato sindaco nel 2008 mentre alle scorse regionali aveva aderito al Pdl.
L'indagine è centrata su un presunto patto politico-mafioso che sarebbe stato stretto in vista delle amministrative del 2003 che avrebbe previsto appalti e servizi in cambio del sostegno alle elezioni comunali.

Folla ai funerali di Yara, il vescovo: «Vogliamo vedere i volti del male»

Il messaggio di Napolitano: fare luce sul delitto

BREMBATE SOPRA - Sono ormai diventate alcune migliaia le persone che all'esterno del Palazzetto dello Sport di Brembate Sopra (Bergamo) stanno assistendo da un maxischermo alle esequie della tredicenne Yara Gambirasio, la ragazza scomparsa il 26 novembre scorso dal paese del bergamasco e ritrovata uccisa tre mesi dopo. Vengono anche distribuite delle bottigliette d'acqua a causa del caldo.


«Yara non è semplicemente morta, ma su di lei abbiamo visto accanirsi il male. Questo male ha dei volti e noi vorremmo guardarli in faccia, vorremmo incrociare i loro sguardi per dire: uscite dall'oscurità che sta mangiando anche voi». È uno dei passaggi più significativi dell'omelia celebrata dal vescovo di Bergamo monsignor Francesco Beschi ai funerali di Yara Gambirasio in corso a Brembate Sopra (Bergamo). «Il peso della morte di Yara - ha detto ancora il vescovo - è il peso di una sconfitta che ci fa male».

Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha inviato un messaggio ai genitori di Yara Gambirasio per esprimere loro la propria solidarietà. Il messaggio è stato letto durante i funerali dal sindaco di Brembate Sopra, Diego Locatelli. Il capo dello Stato, nel messaggio, ha anche auspicato che si faccia luce sul delitto che ha visto vittima la tredicenne bergamasca.

venerdì 27 maggio 2011

Mafia, Ciancimino interrogato per quattro ore

Il figlio dell'ex sindaco di Palermo avrebbe fornito ulteriori particolari recentemente ricordati sul cosiddetto 'puparo', un ufficiale dei carabinieri che, a dire del detenuto, gli avrebbe dato alcuni fogli tra i quali quello manipolato col nome del capo della polizia Gianni De Gennaro


PALERMO. E' durato quasi quattro ore l'interrogatorio di Massimo Ciancimino, in carcere da aprile con l'accusa di avere calunniato l'ex capo della polizia Gianni De Gennaro. E' stato lo stesso Ciancimino a chiedere ai pm di Palermo di essere risentito. Durante l'interrogatorio, che è stato secretato, il figlio dell'ex sindaco di Palermo avrebbe fornito ulteriori particolari recentemente ricordati sul cosiddetto 'puparo', un ufficiale dei carabinieri che, a dire del detenuto, gli avrebbe dato, durante la presentazione a Palermo del libro scritto da Ciancimino jr, alcuni fogli tra i quali quello manipolato col nome del capo della polizia.

Ciancimino, a cui il gip ha rigettato l'istanza di scarcerazione, ha detto ai pm di non ricordare esattamente le generalità del puparo che potrebbe chiamarsi Giancarlo Rossetti o Carlo Rosselli. L'uomo avrebbe il grado di colonnello. I magistrati stanno cercando di verificare le dichiarazioni, ma il detenuto non avrebbe ancora riconosciuto tra le foto mostrategli dagli inquirenti il fantomatico Mister X, come è stato chiamato il presunto "puparo" durante il processo al generale del Ros Mario Mori. Il colonnello sarebbe stato, secondo Ciancimino, l'autista del generale dei carabinieri Giacinto Paolantonio. Nel corso dell'ultimo interrogatorio coi pm, poi, Ciancimino ha sostenuto di aver incontrato il 'puparo' in locali utilizzati dai Servizi Segreti a Bologna.

Con i "nuovi" ricordi Ciancimino spera di convincere i magistrati palermitani che recentemente hanno dato parere negativo alla sua scarcerazione. "Massimo Ciancimino è provato dal carcere - ha detto il suo legale, l'avvocato Francesca Russo - ma oggi mi è sembrato più lucido. Sta cercando di dare agli inquirenti tutte le informazioni di cui è in possesso".




Falsi esami all'Unical, venti gli indagati tra impiegati e studenti dell'ateneo

Il procuratore Granieri: "Non vi è nessun elemento per poter affermare che il conseguimento delle lauree presso l'Università della Calabria sia stato il frutto di una sistematica attività fraudolenta"
Sono venti le persone iscritte nel registro degli indagati nell’ambito dell’inchiesta della Procura della Repubblica di Cosenza sui falsi esami all’Università della Calabria.


Gli indagati sono impiegati dell’area didattica dell’ateneo ed alcuni studenti per i quali sarebbe stato attestato il superamento di esami che, in realtà, non avrebbero mai sostenuto. Il Procuratore della Repubblica, Dario Granieri ha affermato, attraverso un comunicato, che «in merito alla denuncia presentata dal Rettore dell’Università della Calabria, Giovanni Latorre, è stata acquisita copiosa documentazione informatica e cartacea da cui emerge, dopo un attento esame degli atti, la fondatezza di quanto riferito nella denuncia relativamente ad un singolo episodio di falso materiale e ideologico concernente il superamento di una prova di esame nella facoltà di Lettere e Filosofia».

«Si evidenzia inoltre – ha dichiarato ancora il procuratore – di circoscrivere la rilevanza penale di condotte analoghe a quella denunciata alla facoltà di Lettere e filosofia e nel contempo di quantificare gli allarmanti fatti delittuosi ad un numero ridotto di casi. All’esito di tale preliminare esame si è proceduto all’iscrizione nel registro delle notizie di reato dei relativi indagati».

«Al momento – ha concluso il procuratore – nessun elemento consente di poter affermare che il conseguimento delle lauree presso l'Università della Calabria sia stato il frutto di una sistematica attività fraudolenta. Pertanto ogni altra notizia propalata su questi fatti è da ritenersi priva di fondamento».

Operazione "Marte", la cocaina da San Luca a Bologna con le auto a noleggio

I carabinieri di Bologna hanno sgominato un gruppo di trafficanti vicini ai “Nirta - Strangio”. La droga veniva spostata da corrieri a bordo di auto noleggiate
Da San Luca la cocaina arrivava in Emilia Romagna utilizzando auto a noleggio. Ogni giorno dalla Locride i corrieri si muovevano con almeno tre chili di polvere bianca. I carabinieri del comando provinciale di Bologna sono riusciti a ricostruire la rete, risalire agli organizzatori, e smantellare il gruppo portando a compimento l’operazione “Marte” (nella foto Marte e Pizzata) ed hanno eseguito 25 ordinanze di custodia cautelare, e 59 perquisizioni domiciliari nei confronti di altrettanti appartenenti ad un'organizzazione criminale, promossa prevalentemente da soggetti di origine calabrese finalizzata al traffico di stupefacenti. Due la basi operative: una pizzeria, dove la droga veniva consegnata ed un distributore di benzina, dove le dosi venivano confezionate.


L'operazione, denominata “Marte” dal cognome di uno dei promotori, ha preso le mosse da una mirata attività di analisi di possibili infiltrazioni mafiose calabresi nel tessuto economico-produttivo del comprensorio bolognese. Gli investigatori hanno avviato le attività d'indagine nel novembre 2008, focalizzando l'attenzione attraverso servizi di osservazione, pedinamento e videoripresa, su Antonio Marte (30enne di Locri residente a Benestare ) e Saverio Salvatore Pizzata (41enne di Locri residente a San Luca), soprattutto in occasione dei loro spostamenti da San Luca, a Bologna.

Il gruppo calabrese, che per gli investigatori faceva riferimento alla cosca “Nirta-Strangio”, si approvvigionava a San Luca e la cocaina veniva trasportata in Bologna e quindi distribuita ad acquirenti stabili che, a loro volta, ne curavano lo smercio al dettaglio: Antonio Marte si occupava del reclutamento dei corrieri per i viaggi dalla Calabria e del recupero dei crediti presso gli abituali acquirenti (tra cui spiccano Simone Di Carlo, Michele Lauro Ciaccio, incontrato sovente presso il centro commerciale “Lame”, Alessandra Barretta, neo laureata in scienze politiche svolge l'attività di rappresentante per la vendita al dettaglio di ricambi per auto e Giuseppe D'Uva, gestore di un distributore di benzina. Saverio Salvatore Pizzata, si occupava, invece, di gestire direttamente i “carichi” di cocaina provenienti dalla Calabria tramite corrieri. Non tutte le misure sono state eseguite anche perchè alcune riguardano cittadini stranieri (parte dello stupefacente si presume provenisse anche dall'Albania e dall’Olanda). Sono 90, in totale gli indagati e nel corso dell'operazione, partita due anni e mezzo fa, sono stati sequestrati sei chilogrammi di cocaina.

Le telecamere di Linea Verde visitano Sant’Angelo Muxaro

SANT’ANGELO MUXARO – La popolare trasmissione di Rai 1, “Linea Verde”, ha visitato il piccolo e suggestivo paesino dei monti sicani. A condurre la trasmissione Gianfranco Vissani, maestro della cucina italiana, che ha potuto così apprezzare i piatti tipici della tradizione del nostro territorio.

La giornata è stata caratterizzata da quattro momenti diversi, che hanno permesso di toccare i diversi aspetti della cultura e del territorio di Sant’Angelo Muxaro.
Affiancata quindi alla caratteristica esplosione dei colori, sapori e profumi nella grande tavolata allestita con i prodotti abilmente preparati dalle massaie del paese, la visita naturalistica presso la mitica grotta “Ciavuli”, riserva naturale che attraversa il sottosuolo del paese, laboratorio per gli studiosi di speleologia.

Di notevole interesse la visita alle aree circostanti, luogo di famose necropoli pre-protostoriche, che rendono l’aerea uno dei siti archeologici di maggiore interesse della Sicilia.
Ma vista anche la presenza di Gianfranco Vissani, il tema che più ha riscosso successo riguarda la preparazione delle pietanze tipiche, tra cui ricordiamo la “riminata”, piatto povero della tradizione contadina, una sorta di polenta di farina di grano duro, condita con varie verdure tra le quali primeggia l’esuberante profumo del finocchietto selvatico, e poi il “maccu” di fave verdi, la “cuccìa”, le “frosce dolci”, i “pisciteddri di sparacio” selvatico, la “cucuzza” rossa in agro-dolce, le “miscateddre” di salsiccia, il pane “cunzato” con il genuino olio prodotto con olive nostrane e formaggio grattugiato e tantissime altre prelibatezze.

Non sono mancati ovviamente i dolci, i “cannoli”, la “cubaita”, i “cciarduna”, la “pignolata”, l’immancabile ricotta dolce, le crostate, le mandorle “ghiacciate”, i “purciddrati” di fichi, mandorle e noci.

A completare la giornata non poteva mancare un tocco di folclore offerto dal gruppo locale “Kokalos”, che ha allietato con canti e balli la tradizionale preparazione della ricotta, prologo della famosa sagra del 6 gennaio.

Particolarmente soddisfatta l’intera amministrazione comunale. “E’ stata una magnifica giornata per presentare il paese tra mito, storia, tradizioni, bellezze naturali,” commenta l’assessore Adelina Cipolla. ”In particolare è stata un’occasione in cui si è mostrare la grande ospitalità dei santangelesi”.

La trasmissione verrà proposta su Rai 1 nel mese di giugno.
clicca qui sotto per vedere il video di linea verde a Sant'Angelo Muxaro

Mafia, rivela tutti i segreti la vedova del boss Dambrosio

ALTAMURA - La moglie del presunto boss di Altamura, Bartolo Dambrosio assassinato nel settembre dello scorso anno mentre faceva footing in località Fiscale, nel cuore del parco dell’Alta Murgia, sta collaborando con la Direzione distrettuale antimafia di Bari nelle indagini che vedono il coinvolgimento del marito. La donna è stata inserita in un programma di protezione testimoni e con i figli si trova in località protetta.


Diverse le dichiarazioni raccolte dai magistrati inquirenti ma fino a questo momento nessuna è stata depositata in fascicoli processuali. Vige il massimo riserbo sui contenuti delle testimonianze della donna che avrebbe raccontato, per quanto di sua conoscenza, delle frequentazioni e dei rapporti del marito non solo all’interno degli ambienti del malaffare dell’area murgiana ma anche con soggetti legati al mondo della politica e dell’imprenditoria. Argomenti che sono oggetto di indagini da parte della Procura.

In una relazione del 2008 della Direzione investigativa antimafia, Bartolo Dambrosio, 44 anni, viene definito capo incontrastato dell’unico clan dominante ad Altamura. Droga, estorsioni e usura: questi i settori del business della criminalità organizzata altamurana secondo la Dia. Esperto di arti marziali, quando aveva appena 22 anni fu coinvolto nel tentativo di omicidio - compiuto il 25 ottobre 1988 in Basilicata - dell’ex senatore democristiano Decio Scardaccione, all’epoca presidente dell’Ente lucano di sviluppo agricolo (Esab). Per il tentativo di omicidio, Dambrosio venne condannato 14 anni dopo, nel 2002, a otto anni e sei mesi di reclusione.

L'uomo era stato poi coinvolto in alcune operazioni antimafia tra la fine degli anni Novanta e gli inizi degli anni 2000. In questo ambito è stato a giudizio nei primi anni duemila con altre 43 persone accusate di aver preso parte ad un’associazione mafiosa della Murgia barese, ma venne assolto. Il nome del boss comparirebbe anche in alcune intercettazioni della Procura di Bari che indaga sulla gestione degli appalti nella sanità pugliese in cui è rimasto coinvolto l’imprenditore altamurano Michele Columella. Uno strano intreccio di malaffare e politica bel lungi dall’essere sciolto e chiarito. Per l’omicido di Dambrosio sono stati arrestati Giovanni Loiudice, ritenuto il «regista» del delitto, i suoi due figli Michele e Alberto, Francesco Palmieri e Rocco Ciccimarra.

l. nat.

Sesso romantico al mare

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"La mafia voleva uccidere Di Matteo e Lumia"

A rivelarlo il neo pentito Stefano Lo Verso: nel 2006 la cosca mafiosa di Bagheria voleva uccidere il sostituto procuratore e il deputato Pd, poi non arrivò l'autorizzazione dai vertici

PALERMO. Il neo pentito Stefano Lo Verso ha detto ai magistrati della Dda palermitana che nel 2006 la cosca mafiosa di Bagheria voleva uccidere il sostituto procuratore Nino Di Matteo e il deputato Pd Giuseppe Lumia. Secondo Lo Verso, il progetto stragista gli venne confidato da Giuseppe Di Fiore, vicino al boss Bernardo Provenzano, durante un'udienza del processo Grande mandamento nel 2007. Gli attentati, secondo il pentito, non vennero portati a termine perché non vennero autorizzati dai vertici di Cosa nostra. I magistrati stanno cercando riscontri al racconto del collaboratore e innanzitutto vogliono appurare se nel processo 'Grande mandamento' Lo Verso e Di Fiore siano stati in cella insieme, nell'aula bunker dell'Ucciardone.

Il pentito, che da pochi mesi ha accettato di essere sottoposto alla protezione, ha raccontato di avere saputo da Di Fiore che l'attentato doveva avvenire per Di Matteo a Santa Flavia, località in cui il magistrato villeggiava, mentre Lumia dove va essere eliminato nel bagherese dove aveva una villa. Al progetto si sarebbe opposto Provenzano in persona preoccupato dagli effetti degli omicidi sui processi in corso. Il racconto dell'attentato mai compiuto è stato depositato in un verbale finito agli atti dell'udienza preliminare a carico di alcuni mafiosi di Ficarazzi.

Nel procedimento sono finiti anche altre decine di verbali in cui Lo Verso racconta i suoi strettissimi rapporti con Provenzano, ospitato tra il 2003 e il 2004, mentre era latitante, nella villetta della suocera del pentito. Lo Verso ha anche racContato che Provenzano camminava tranquillamente a piedi in paese a Bagheria certo che nessuno lo avrebbe riconosciuto. Oltre a ricostruire le dinamiche della cosca bagherese, il pentito ha parlato ai magistrati del confidente Luigi Ilardo, l'uomo che portò gli investigatori a un passo da Provenzano nel 2005 e che fu poi ucciso prima che diventasse formalmente un collaboratore di giustizia. Provenzano avrebbe raccontato a Lo Verso di avere incontrato Ilardo e di essersi accorto che questi aveva un registratore. Commentando l'eliminazione del confidente il boss avrebbe poi aggiunto: "Guarda che fine fanno quelli che mi voltano le spalle". Lo Verso, che ha scontato una condanna definitiva per mafia, tre mesi fa si è presentato in una caserma dei carabinieri chiedendo di poter parlare col Pm Di Matteo. Da allora collabora con la giustizia.

giovedì 26 maggio 2011

Boss donna a capo della cosca per annientare i rivali catanesi

CALTANISSETTA - Una forte contrapposizione tra clan, tra il 2007 e il 2008, rischiò di sfociare in una guerra di mafia per la definizione dei nuovi assetti mafiosi a Catenanuova. È quanto emerge dalle indagini dei carabinieri del comando provinciale di Enna che hanno arrestato dieci persone, compresa una donna, Agata Cicero, moglie del presunto boss Leonardi, per associazione mafiosa.


L'ordinanza di custodia cautelare è stata emessa dal Gip di Caltanissetta su richiesta della Dda della Procura Nissena. Secondo l'accusa, del clan avrebbero fatto parte l'imprenditore agricolo Giuseppe Pecorino, di 69 anni; Salvatore Leonardi, di 45, già detenuto, Prospero Riccombeni, di 39, disoccupato, residente a Milano; Agata Cicero, di 45, agli arresti domiciliari; Filippo Passalacqua, di 31; l'allevatore Maurizio Prestifilippo Cirimbolo, di 32; Antonino Mavica, di 46, gia detenuto; il meccanico Giuseppe Girasole, di 51; l'operaio Masssimo Grasso, di 31.

Arrestato anche un consigliere comunale di Maniace (Ct), Salvatore Galati Muccilla, 49 anni, allevatore, che deve rispondere solo di detenzione e porto abusivo di armi da fuoco. Le indagini dei carabinieri hanno riguardato anche due agguati: quello del 20 febbraio 2007 in cui rimase gravemente ferito il pregiudicato Prospero Riccombeni, e l'uccisione a colpi di kalashnikov di Salvatore Prestifilippo Cirimbolo, 47 anni, fratello dell'arrestato Maurizio, in quella che e stata definita la strage di Catenanuova, del 15 luglio 2008, in cui rimasero ferite altre cinque persone.

Riorganizzare la cosca e annientare i clan dei "catanesi" e dei loro alleati, in particolare quelli del clan Cappello. Era il compito che, secondo gli investigatori, il boss Leonardi avrebbe affidato alla moglie, Agata Cicero.

Il ruolo della donna è stato sottolineato dal procuratore capo di Caltanissetta, Sergio Lari, e dal procuratore aggiunto Amedeo Bertone, che hanno condotto l'inchiesta che ha svelato l'assetto mafioso a Catenanuova, dopo il periodo di reggenza da parte della famiglia di Enna, che faceva capo a Gaetano Leonardo, conosciuto come "u Liuni", e che aveva affidato il controllo del territorio prima a Salvatore Leonardi, arrestato nel '8 e poi ad Antonino Mavica e Prospero Riccombeni, arrestati nel 2002 per associazione mafiosa e condannati con sentenza definitiva.

Secondo gli inquirenti Riccombeni, tornato in libertà, avrebbe ripreso il controllo del territorio ma, malgrado fosse un uomo d'onore di Cosa nostra ennese, avrebbe chiesto l'appoggio al clan Cappello di Catania per gestire le attività illecite. Riccombeni, accusato di una cattiva gestione degli affari e per questo vittima nel 2007 di un tentativo di omicidio, fu sostituito, per imposizione del clan catanese, da Salvatore Prestifilippo Cirimbolo.

Quest'ultimo però si sarebbe rivelato poco affidabile, quindi eliminato nel corso della cosiddetta "strage di Catenanuova" e sostituito da Filippo Passalacqua, legato alla figlia di Giuseppe Salvo, ergastolano, considerato esponente di spicco del clan Cappello.

Cinque condanne e un patteggiamento al processo con rito abbreviato contro i presunti appartenenti alla cosca mafiosa di Aidone (Enna). Elena Caruso, 42 anni, compagna del presunto capo del piccolo ma agguerrito clan, è stata condannata a 5 anni di reclusione, per estorsione: il Gup l'ha assolta dall'accusa di associazione mafiosa. Per lei l'accusa aveva chiesto 9 anni di reclusione.

Il compagno di Caruso, Vincenzo Scivoli, 43 anni, è stato condannato a 10 anni, 10 mesi e 20 giorni di carcere; a Riccardo Abati, 48, anni, di Piazza Armerina, il Gup ha inflitto 11 anni ed 8 mesi, contro i 14 chiesti dal Pm Condorelli; 9 anni e 20 giorni a Ivano Antonio Di Marco, catanese di 38 anni, infine 6 anni per Marco Gimmillaro, 37 anni di Piazza Armerina.

Caruso e Scivoli sono inoltre stati condannati al risarcimento del danno, liquidato dal Gup in 21 mila euro, in favore dell' impresa edile costituitasi parte civile al processo e dovranno inoltre rifondere le spese di costituzione alla stessa impresa, quantificate in poco meno di 5 mila e 500 euro.

Nel corso della stessa udienza è stato ratificato il patteggiamento a 1 anno e 10 mesi per Giuseppe Donato, 47 anni, al quale non era stata contestata l'associazione per delinquere di stampo mafioso. Secondo le risultanze delle indagini coordinate dalla Dda di Caltanissetta e condotte dalla Squadra mobile di Enna, gli imputati avrebbero gestito il racket delle estorsioni tra Aidone e Piazza Armerina.

Il pizzo sarebbe stato imposto ad imprese, commercianti, operatori economici, ma anche per la restituzione di armi trafugate durante furti commessi soprattutto nelle zone rurali, venivano chieste somme di denaro, anche di poche centinaia di euro, per la restituzione.